lunedì 1 ottobre 2012

Il "Lino delle fate" oppure i "Capelli delle streghe"


                                 
Queste denominazioni popolari abruzzesi e pugliesi delle piante del genere Stipa ci spingono inevitabilmente a pensare che grande dovette essere l’immaginazione degli uomini che per primi le usarono.  Così crede l’uomo comune a digiuno di questioni linguistiche, ma così credono sostanzialmente anche i linguisti che dedicano molto tempo della loro vita allo studio delle parole. Ciò significa, a mio parere, che la linguistica non ha compiuto purtroppo molta strada in questi due o tre secoli che ci separano dai suoi inizi, a non voler tener conto degli interessi più o meno sporadici che fin dalla lontana antichità la Lingua ha suscitato.  In questo caso non possiamo nemmeno sfoderare, per la locuzione Capelli delle streghe o della strega, la dotta considerazione che essa sarebbe giustificata dalla velenosità della piantina, trattandosi in effetti di piantina innocua come in qualche modo fa capire l’altra locuzione di tenore opposto Lino delle fate la quale, però, parrebbe avere una certa giustificazione, dato il bel colore niveo-argenteo della graminacea  che spicca vistosamente tra il verde dei prati montani. Ma se l’altra denominazione ad alto tasso di immaginazione è ingiustificata, probabilmente lo sarà anche questa con altrettanto alto tasso di immaginazione e il suo significato sarà il risultato dell’incontro casuale di nomi tautologici, come mostrerò.

Il nome scientifico Stipa rimanda al lat. stipa, stupa, stuppa ‘stoppa’ (gr. stýppē) e certamente allude agli steli piumosi a mo’ di pennacchi della piantina chiamata in Abruzzo anche pëlónë (Aielli) della famiglia di lat. pilu(m) ‘pelo’, o  pëlùmmë incrociandosi col lat. pluma(m) ‘piuma’[1].  E’ bene già da ora notare come i concetti di “pelo” e di “stelo”, con lo stiramento di quest’ultimo fino al concetto di “tronco” e persino di “albero”, praticamente coincidono, perché bisogna ricordarsi, come ho più volte sottolineato, che dietro i significati specifici ce n’è sempre uno generico che li comprende tutti. Il gr. stýp-os, infatti, significa ‘stelo, bastone, tronco’ e il lat. stip-ite(m) indica il ‘bastone, clava, ramo, palo, tronco’.   Questo è uno dei principi fondamentali della mia semantica, che risolve molti problemi con una semplicità incredibile.  Secondo la nostra mentalità ormai fortemente analitica c’è una bella differenza tra un pelo e un tronco o una colonna, ma per gli uomini preistorici no.  A mano a mano che la lingua diventava più matura e specializzava i significati delle parole, essi furono indotti a pensare che invece una qualche differenza tra questi vari concetti ci fosse, visto che venivano spesso indicati anche con parole diverse.  La differenza dei significanti rafforzò così la convinzione che anche i significati dovevano essere in qualche modo distinti già dall’origine, convinzione talmente tenace che non ha permesso, fino ad oggi, ai linguisti di spiccare il volo nella giusta direzione.

Nel commento all’articolo di G. Sociali (citato nella nota 1) inserito da Gerardo Rosci il 26 giugno 2012, vengono riferiti altri due interessantissimi nomi della stipa e cioè  ficche a Petrella Liri e puche nella limitrofa Cappadocia, forme di plurali evidentemente indicanti gli insiemi di questi steli o mazzi che venivano usati come ornamento e talvolta, così ricordo che facevo io da bambino, li si lanciavano in alto per il gusto di vederli ripiombare al suolo perfettamente eretti.   A colpo d’occhio appare la somiglianza formale dei due termini, la cui differenza sostanziale è rappresentata dalle consonanti iniziali p/f . Quest’alternanza, per cui si va col pensiero alla resa in germanico della occlusiva labiale sorda –p-, ricorre con una certa frequenza nei dialetti abruzzesi (almeno) come in carchjë/carchjë ‘cavità, cesto’, sëlë/sëlë ‘pensile, sottotetto, soffitta’, fischë/pesch(j)ë ‘macigno’, piluccone/filuccone ‘scroccone’, ecc.  Ciò fa pensare che la questione del rapporto tra occlusiva labiale sorda  e fricativa sorda va vista in modo diverso da quello usuale. Ora, per quanto riguarda il significato profondo di puca, dobbiamo fare delle osservazioni preliminari. Ad Aielli e altrove il termine designa il comune forasacco, una graminacea del genere Bromo con spighette dotate in genere di due ariste, rigide e penetranti nei tessuti, tanto da risultare molto pericolose per i cani.  A Rocca di Botte[2], a Luco dei Marsi[3] la puca indica l’aculeo dell’istrice.  A Trasacco la parola assume diversi significati.  1- seme della graminacea testè descritta; 2- rametto verde da cui si prelevano le gemme da innestare in altra pianta; 3- bastoncello ricavato dal ramo di un albero per il trapianto; 4- occhio o gemma da innesto[4].   Questo quadro di riferimento è sufficiente, a mio avviso, a generare in noi una precisa idea del significato di fondo del termine puca che a Cappadocia abbiamo visto indicare la Stipa. Direi che questo concetto generico può essere benissimo rappresentato da quello di “punta, protuberanza” che collega tutti i significati assunti dal termine: gemma, pelo, stelo, tronco, ramo, innesto.  Così la puca, con la variante ficca di Petrella Liri,  ci riporta ai vari termini per ‘punta’ espressi dalla radice pik- elencati in uno dei precedenti post riguardante i nomi dei piccoli animali in espressioni idiomatiche nei paesi delle valli dell’Adda e della Mera.  Il lat. pugione(m) ‘pugnale’ presenta una radice che deve essere variante, con velare sonora, di puk-.

Credo che ora sia arrivato il momento di spiegare la denominazione di Capelli delle streghe. Abbiamo visto che le streghe, responsabili nel Medioevo (durato per certi riguardi fino a non molti decenni fa nei nostri paesi) di molti malanni, non possono in questo caso essere tratte in ballo per la giustificazione di questo nome, dato che la piantina che non è nociva  è chiamata anche Lino delle fate, denominazione in cui compare la fata, essere fantastico buono che si contrappone alla cattiva strega[5].  Le streghe quindi non c’entrano, sibbene una radice corrispondente all’ingl. strick, strike ‘mazzo di fili di canapa o lino cardati’, ingl. strig ‘picciòlo’, ingl. strig-ose ‘ispido’ da un latino medievale striga(m) ’setola’.  A chi avesse in uggia la perfida Albione possiamo presentare il toscano strega, uno stoppino cerato posto all’estremità di una canna per l’accensione dei ceri sull’altare. Ora, fra i diversi altri riferimenti, mi piace ricordare l’uso, ancora corrente in alcune case del mio paese fino a una cinquantina di anni fa, di appendere all’interno delle porte un mazzetto di stoppa accanto alla serratura, da dove si presumeva che sarebbe potuta entrare la strega malefica.  Se ciò fosse avvenuto essa sarebbe stata costretta a contare tutti i fili della stoppa (come del resto ingiungeva, se ci riflettiamo, lo stesso verbo it. stric-are, strig-are ‘sbrogliare, districare’ che non c’entrava nulla con la strega ma non possiamo certamente pretendere che in questi casi il popolino di allora usasse un minimo di razionalità!) prima di poter esercitare il suo potere malefico: nel frattempo sarebbe arrivata l’alba ed essa avrebbe dovuto filarsela!  E’ chiaro che questo rapporto stretto tra la strega e la stoppa derivava dal fatto che nel lontano passato la parola strega era anche sinonimo di stoppa in qualche parlata. Così stando le cose è anche chiaro che i cap-elli dell’espressione non sono usati metaforicamente ma dovevano in questo caso avere un significato corrispondente all’it. cap-ecchio, sinonimo di stoppa (grossolana),  il cui etimo non credo sia esattamente quello comunemente dato, cioè il lat. capitium ‘cima degli alberi’.  Insomma, lo ripeto ancora una volta perché la cosa è di grande importanza, il lat. capillu(m) ‘capello’, ad esempio, è un termine che di certo non fu creato apposta per indicare i ‘capelli’ ma per designare almeno tutti i possibili referenti che rientrassero nel concetto di ‘escrescenza, punta, stelo’ e poteva anche darsi che il termine non fosse appannaggio esclusivo della lingua parlata nel Lazio, ma fosse presente anche in qualche dialetto italico.  Lo strumento con cui le streghe volavano, la scopa,  aveva subito la stessa sorte del mazzo di stoppa , in quanto la pianta della scopa è caratterizzata da rametti  uniti insieme a formare lo strumento che in qualche parlata del passato doveva suonare, per i motivi sopra descritti, strega.  “Scopazzo” è una parola che indica un ammaso di rametti molto vicini tra loro che crescono patologicamente su un ramo, chiamati anche scopa delle streghe[6].  La strega è anche il nome comune della Stachide, erba pelosa o ispida, con caule eretto.  E il colpo della strega  non è altro che un semplice colpo (cfr. ingl. strike ‘colpo’), anche se molto doloroso e a tradimento. Non si possono passare sotto silenzio i cosiddetti Capelli della strega, una cascata ghiacciata in Val d’Ossola.  Qui i capelli non dovrebbero essere altro che la massa di ghiaccioli, in diversi punti ben distinguibili gli uni dagli altri, costituenti la cascata a mo’ di capigliatura.  Il ghiacciolo, in questo caso partecipa della stessa idea sottesa a un filamento, stelo, bastone.  Ma, a mio avviso, c’è qualcosa di più.  La parola strega  potrebbe qui nascondere proprio il valore di ‘ghiaccio’ da una radice stra- di cui ho parlato in altro mio post dell’agosto 2011, intitolato Etimo di sardo “astrau”=ghiaccio […]. 

Per la locuzione Lino delle fate non so dare come spiegazione che il ted. Fad-en ‘filo’ ma, dato il contesto e le considerazioni precedenti, non ho nessuna remora ad esserne pago. La parola è apparentata con l’ingl. fathom ‘misura di lunghezza’: il significato di ‘filo’ non sarà derivato da quest’ultimo ma era presente già in antico (cfr. a. a. ted. fadum ‘filo’). D’altronde, se ci si riflette, il concetto di “lunghezza, estensione” non è molto lontano da quello di “filo” che è probabilmente tratto dal concetto di “stelo, protuberanza, estensione”.  Naturalmente anche in questo caso non è da credere che il termine lino sia usato metaforicamente da chi, non avendo un nome per la piantina, magari si divertì a forgiarlo ex novo nella fucina della sua fantasia. La denominazione di Lino delle fate viene usata anche per la Cuscuta della nota 5. Va da sé che questi termini ci vengono dalla preistoria e non dal Medioevo.  Penso che anche l’it. fil-accia sia più vicino al ted. Fl-achs ‘lino’, ingl. fl-ax ‘lino’ che ad un presunto agg. lat. popolare *filacea(m), da filu(m) ‘filo’. Nel linguaggio marinaresco, infatti, esso indica una fibra vegetale attorcigliata costituente, di un cavo, il primo elemento chiamato lignòlo o legnòlo, da lat. linu(m) ‘lino’. Il lat. floccu(m) ‘fiocco di lana, lanugine’  potrebbe esserne una variante[7].  Il secondo membro di fil-accia corrisponde all’it. accia ‘filo, refe’.  Anche questa voce viene dal lat. acia(m) ’filo di stoppa, refe’ ed è messa in relazione con lat. acu(m)’ago’: ma attenti! questo rapporto non scaturisce dalla contiguità dei due referenti ago e filo ma dalla natura profonda di entrambi che è quella di punta, protuberanza, stelo. E’ utile il raffronto con lat. acie(m) che tra l’altro significa ‘punta, filo tagliente (di spada, scure, ecc.), linea di soldati schierati’.  La spiegazione di quest’ultima accezione non risiede nel fatto che l’allineamento dei soldati somigliasse al filo di una lama, ma nella considerazione che esso, l’allineamento, è già di per sé una ‘fila’, cioè una successione ordinata di elementi consecutivi.  

Spigolando qua e là nella lingua italiana, in quelle germaniche e soprattutto nei dialetti, specialmente tra le voci trascurate o non ben messe a fuoco dai linguisti, si possono fare scoperte incredibili, capaci di dare uno scossone a convinzioni ormai assodate e inveterate.  Una variante di fata ‘filo’ (la quale quindi non è proprio sola come pensavo) è abbondantemente presente, infatti, nei nostri dialetti marsicani come nel trasacc. fezza ‘matassa di cotone o matassa in genere’, nel luchese fezza ‘matassa distesa di filati, ciocca di capelli’, aiellese fézza ‘matassa’, ma la voce è registrata anche nel Bielli  nelle forme fezza-tiure ‘matassa’ e fézze ‘ciocca di capelli lunghi; pochi fili di refe, di seta e sim. messi insieme per lo lungo; manata di paste lunghe da minestra’.  La voce ha molte corrispondenze nell’area germanica dove si incontrano ted. fitzen ‘matassa di filo o refe’, a. a. ted. fizza ‘matassa, filo’ e anche voci con diverso vocalismo come danese fed ‘matassa’, a.germ. vazza, fazzil, fetill ‘fascia, legame’. Nonostante queste corrispondenze, i linguisti considerano incerta, ad esempio, l’etimologia di it. fedelini (fidelini) ricondotti al ligure fidelin, lig. fidé ‘spaghetto’ perché, secondo le norme da loro elaborate, al germanico f- (ad es. fetill) dovrebbe corrispondere un latino-italico p- (*petill). Ma a mio parere, come ho sostenuto alla nota 7 a cui rimando, si trattava di forme liberamente alternanti già all’origine.  Prima della produzione di questo tipo di pasta la parola doveva appunto indicare qualcosa di lungo e sottile, come spago, capello, ecc. come fanno capire i vari significati del sopracitato abr. fézze.  Il lat. fid-es ‘corde della lira’ credo che faccia parte di questa famiglia e che non abbia rapporti col gr. sphíde ‘budello, corda di strumento’ anche perché questa corrispondenza non osserverebbe le consuete norme fonetiche dei prestiti dal greco in latino[8]. Bisogna naturalmente aggiungere anche l’ingl. fiddle ‘violino’, altro srumento a corda. 

Il significato di ‘filo, matassa’ è contiguo a quello di ‘trama, tessuto, panno, pezza, ecc.’ e infatti ecco spuntare in area germ. il ted. fetzen ‘straccio, pezzo di stoffa’  che richiama le forme sopra citate fazzil ‘fascia, legame’ ma soprattutto aiuta a trovare l’etimo di it. fazzoletto che solitamente viene ricondotto ad un lat. parlato *faciolu(m), derivato di facie(m) ‘faccia’ e spiegato come ‘pezza con cui tergersi la faccia’.  Ma queste interpretazioni che mirano ad evidenziare una funzione particolare del referente e non la sua semplice natura sono a mio parere da scartare, perché esse cadono nello stesso errore, più volte rilevato, di chi vuole spiegare i composti tautologici germanici con i due significati che essi esibiscono in superficie e non con quello unico per ambo i membri.  Manco a farlo apposta ecco comparire in inglese i composti face-cloth, face-flannel ‘piccolo asciugamano per il viso’ in cui il primo membro face- non poteva indicare però la ‘faccia’ agli inizi, vuoi in conseguenza di quello che ho battezzato come principio tautologico, vuoi perché il significato del composto riguarda anche altre funzioni, oltre quella del lavare la faccia, come quella di semplicemente coprire il volto di un cadavere o addirittura non averne nessuna specifica[9].  La verità è che face- in questo caso, come in quello del fazzoletto, non fa che camuffare la radice faz, fat che valeva appunto ‘filo, panno, stoffa’ come abbiamo visto.  Veramente emblematico è il composto ingl. face mite (cfr. vocab. Merriam-Webster) che significa ‘baco (mite) da seta (face)’ . Il primo membro face non avrebbe senso se inteso nel suo significato consueto di ‘viso, faccia’: evidentemente anche qui esso sostituisce la radice faz per ‘filo’.  Resta comunque una difficoltà: i due membri del composto hanno due significati diversi e, per il principio tautologico, se ne dovrebbe avere uno solo. Ma c’è da scommettere che, indipendentemente dall’epoca dell’arrivo arrivo in Europa del baco da seta, il secondo termine mite  qui corrispondesse al gr. mít-os ‘filo, tessuto’[10] riportando ogni cosa al proprio posto. Le parole di una lingua, che nascono tutte col marchio dell’indeterminatezza, hanno un grande bisogno di specializzarsi e lo fanno a qualunque costo, anche cambiando identità formale, pur di occupare le varie nicchie necessarie ad un linguaggio che via via viene spinto a farsi sempre più preciso, puntuale, generalmente non creando ex novo le parole ma  sfruttando i loro significati generici già pronti.  Più di un millennio fa, la penna dell’uccello servì a creare lo strumento per scrivere che conosciamo di cui era parte integrante, e il suo uso continua e continuerà ancora, anche se non si spennano più oche per rifornirsene. In questo caso è il referente che è cambiato di molto, mentre la parola è rimasta invariata.
Abbiamo visto all’inizio come il concetto di “filo, stelo” possa abbracciare altri concetti contigui come “protuberanza, punta, palo, tronco, ecc.” e allora non può coglierci di sorpresa il significato di ‘caviglia conica’ del termine nautico ingl. fid che, secondo me, si allinea con le numerose precedenti forme per ‘filo,tessuto’.  Della stessa famiglia deve essere l’it. fitt-one, grossa radice principale in alcune piante, che non trae il suo nome, quindi, dall’essere con-fitta nel terreno, osservazione piuttosto banale e relativa ad un accidente del referente,  mentre le parole, se ripulite delle varie incrostazioni di superficie, vanno solitamente all’osso della sua natura, che in questo caso sta tutta nella protuberanza generalmente a cono della radice. Pertanto non valuto nemmeno una mezza liretta del vecchio conio l’etimo dato, con scarsa riflessione, per il composto it. pala-fitta  inteso, con troppa facilità, come pali conficcati.  Il secondo membro -fitta  è infatti legato a filo doppio con it. fitt-one il quale, se certamente non è un palo ai nostri occhi di moderni con mala luce, lo era agli occhi dei nostri antenati preistorici che miravano saggiamente all’essenziale di cui era fatto sia il palo che la radice, se è vero che in tedesco il fittone suona Pfahl-wurzel, letter. ‘radice(-wurzel) palo (Pfahl-)’, anche se agli occhi dell’uomo moderno tale corrispondenza non è subito evidente. Inoltre in questi casi il  rapporto è biunivoco e si poteva passare altrettanto facilmente dal concetto di palo a quello di radice come nel composto Wurzel-stock ‘rizoma’, lett. ‘bastone (-stock) radice (Wurzel-). Questa è la superficie, ma nel profondo il composto poteva valere ‘radice’ o ‘bastone’ o ‘tronco’ ecc. in ambo i membri: solo più tardi esso si specializzò ad indicare il rizoma, che è una tipica radice a forma di fusto.   La voce Stock vale ‘bastone, tronco, fusto, ceppo, pianta’. Tutto il gioco scaturisce in effetti dalla sconvolgente volatilità del significato di un vocabolo che non riusciamo  mai a squadrare ed inquadrare una volta per sempre, ma che continuamente trapassa da referente a referente formando una rete di rapporti vastissima tenuta insieme da un filo sottile di logica, spesso sotto traccia. Il comportamento del significato è per certi versi molto simile a quello delle particelle subatomiche regolato dal principio di indeterminazione di Eisenberg: quando credi di aver agguantato finalmente il vero significato di un termine ti accorgi che, per ciò stesso, molti altri ti sono scivolati già via dalle mani destinati a rimanere in incognito fino a quando, distolti gli occhi dal primo, non persegui uno per uno anche gli altri.  Il fatto è, ormai lo sa anche chi non vuole saperne, che per la mente di chi usava il linguaggio ai suoi primordi, un filo d’erba equivaleva ad un filo artificiale, ad un bastone, un ramo, una radice, un pollone, ad un tronco d’albero e persino all’albero stesso, ad una qualsiasi protuberanza, escrescenza (compreso un piede o una gamba) e a cento altri referenti correlati.  E così ci siamo avvicinati ai termini it. fetta, fettone [11](presenti anche in molti dialetti), rispettivamente ‘piede’ e ‘piedone’ nel linguaggio scherzoso-popolare, come dicono i linguisti.  Ma noi che abbiamo già incontrato un caso simile[12] e siamo convinti di quanto abbiamo or ora con forza sottolineato, aborriamo dal considerare la lingua un prodotto dell’homo ludicus.  I fatti invero mostrano che, quando un vocabolo viene sostituito largamente da un altro divenuto dominante,  automaticamente su di esso si abbatte il disdoro dei molti benpensanti della lingua che ne fanno, quando va bene, un diverso, un isolato, un reietto il cui nome è quasi tabù ed è prudente pronunciare solo nell’intimità protetta della colloquialità o, al massimo, nell’informalità del linguaggio popolare degli strati medio-bassi della società.  Quando va male, il povero emarginato può finire anche brutalmente eliminato dalla circolazione senza alcuna pietà.  Da quello che ho detto si desume che io non credo in nessun modo che questi termini per ‘piede’ derivino metaforicamente da it. fetta dall’etimo del resto, a mio parere, molto incertoLa loro presunta scherzosità è una inevitabile conseguenza del paragone del tutto sbilanciato, in questo stato sincronico della lingua, a favore del termine piede, ufficiale e “serio”. Sta di fatto, inoltre, che nel dialetto di Spinazzola-Ba, ad esempio, la voce fædd-àun [13], corrispondente all’it. fett-one, significa ‘grossa fetta’ ma anche ‘impronta lasciata da animale selvatico’ oltre che ‘incitamento ad essere attivo’[14].  Ora il secondo significato, che certamente non ha nessun’aria di colloquialità o scherzosità, deve essere senz’altro in rapporto col significato di ‘piede, zampa’ e cioè con le zampe dell’animale che lascia con esse la sua traccia.  E questo è un fatto a mio parere importantissimo perché non solo avvalora la mia convinzione della serietà originaria del termine it. fetta nel significato di ‘piede’, ma attesta anche la concorrenza originaria delle forme alternanti p/f [15] di cui ho parlato più sopra, questione che può arrivare a toccare anche la fonologia germanica. In altri termini si può affermare che, perlomeno su suolo italico, circolavano contemporaneamente per ‘piede’ forme come lat. ped-e(m) e spinazzolese originario *fet(t)-one, in cui peraltro, nel significato di ‘impronta’, il suffisso –one non mostra nemmeno il valore accrescitivo del corrispondente suffisso italiano attestando così di essere antecedente (di quanto?) al suo omofono spinazzolese col significato di ‘grossa fetta’ .  Si rivelano quindi del tutto insussistenti quelle considerazioni sui piedi, possibilmente piatti e di una certa grandezza, che avrebbero dato origine al nome scherzoso di fette: caratteristiche superficiali, marginali e di seconda mano a cui purtroppo i linguisti abboccano con eccessiva facilità.  Alla luce di questo mi pare di poter pervenire anche ad un etimo sostenibile di tosc. fatta ‘sterco degli animali o della selvaggina utilizzato dai cacciatori come traccia’.  L’origine non è nel p.pass. lat. facta(m) ‘fatta’, come si crede, ma in una possibile variante della radice *fet(t) per ‘sterco’ incrociatasi con una simile o uguale radice per ‘piede, orma, traccia’[16].  Ricordo benissimo, infatti, che nella mia lingua natia di Aielli circolava la voce fëtónë (cfr. fetòzza ‘cumulo di escrementi’ a Torano-Ri) equivalente di ‘prodotto piuttosto abbondante di una defecazione’ e che mi sembra paragonabile alla radice di lat. fetu(m) ‘generazione, parto, frutto, prodotto’ che si ripresenta anche in aiellese (ma diffuso un po’ dappertutto) fëtà ‘deporre le uova’ da parte della gallina.  Anche l’umbro fjéta, ascolano fjòta ‘traccia odorosa lasciata da animale selvatico e fiutata dal cane da caccia’[17] credo debba pagare il pedaggio alla radice per ‘piede’di cui si parla, almeno come base di partenza, anche se è intervenuto certamente l’incrocio con una radice per ‘odore, fiuto’ corrispondente ad abr. fiétë ‘sito, puzzo’[18] molto simile al tosc. vièto ‘stantio, rancido;odore di stantio’. In ultimo, non sarà un caso se la parte interna dello zoccolo di diversi animali, di consistenza gommosa e di forma più o meno conica, è chiamata in it. fett-one, termine che mi sembra riassumere una lunga storia di adattamento partita dal significato di ‘piede, zampa’  e, attraverso l’incontro con it. fitt-one (radice come quella della carota,  per intenderci), finita con l’indicare la parte suddetta dello zoccolo.

Chiudendo anche questo articolo, un pensiero particolare rivolgo alle Fate delle favole che hanno permesso, insieme a tutti gli altri esseri fantastici della tradizione popolare, di far arrivare fino a noi moderni, distratti e indifferenti, le belle e brutte parole del lontano passato.  Proprio in questo momento mi lampeggia nel cervello un po’ assonnato che in latino il termine Fata era altro nome, meno noto, delle tre Parche, indefesse filatrici dei fortunati o più spesso sfortunati destini degli uomini.  Ma non commetto l’errore di riportare a questo fatto l’origine della locuzione ‘Lino delle fate’, come se qualcuno in passato, conoscendo il mito delle Parche, l’avesse potuta escogitare a tavolino.  Non è escluso però che il nome di Fata ‘Parche’ e anche di fatu(m) ‘destino’, rappresentato dallo stame che esse filavano, si siano incrociati con la parola corrispondente al ted. Faden ‘filo’[19] circolante anche in Italia ab antiquo e arrivata fino a noi nella veste della benigna, bella  e beata Fata, la quale non smette mai di incantarmi fin da quando, ragazzino sensibile della III elementare,  la conobbi dalla voce della cara e bella maestra Raffaella De Paulis che ci leggeva le Avventure di Pinocchio.



   



[1] Cfr. G. Sociali,  Il “lino delle fate”, una rarità delle nostre terre, articolo apparso nel gionale web “Terre Marsicane”, giugno 2012.

[2] Cfr. M. Marzolini, “…me ‘nténni?”, Arti grafiche Tofani, Alatri 1995, p. 303.

[3] Cfr. G. Proia, La  parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006, p. 135.

[4] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq  2002, s, v. puca.

[5] La locuzione Capelli delle streghe indica effettivamente anche altra pianta parassita, la Cuscuta, composta da un ammasso di fili che avvolgono la pianta parassitizzata. Il suo nome può essere anche il semplice capellini: il che è altro indizio che la denominazione composta con l’elemento streghe non è originaria ma dovuta all’incontro di due parole tautologiche.  Cfr vocabolario Devoto-Oli s. v.  capello, capellini.  I nomi indicano indifferentemente piante nocive e innocue.  Interessante il termine abr. fiamme ‘cuscuta’ derivante, evidentemente, da lat. *fila-men ‘ammasso di fili’, passato a *fla-men e quindi a fiamme o fiamma!

[6] Cfr il citato vocabolario italiano Devoto-Oli, s. v. scopazzo.

[7] A Trasacco pilucca indicava il ‘fiocco’  formato dal nastro che lega i capelli delle donne; ma designava anche uno ‘scacciamosche’ fatto con la pianta erbacea coda di cavallo, cioè l Equisetum ‘setola di cavallo’.  Inoltre il termine  individuava almeno due altre erbe, quella detta volgarmente pisciacane e quella corrispondente alla nostra Stipa con cui si facevano mazzetti che i ragazzi si divertivano a lanciare in alto, come facevo io col pëlònë. Cfr. il Biabbà di Q. Lucarelli, cit. Notare la variabilità dei significati, che non sono mai legati per l’eternità ad unico referente. Si direbbe che sono i referenti ad approfittare di un significato generico per adattarlo alle loro necessità.
Ma la cosa straordinaria, secondo me, è che questo termine si ritrova in greco sotto mentite spoglie.  Il termine composto pyl-ũkh-os ‘stipite’, lett. ‘quello che regge (-ũkhos, dal v. ékho= ho) la porta (pyl-)’,  copre in realtà la nostra pilucca o pilucco, risemantizzata alla maniera greca come se si trattasse di termine creato a tavolino.  Comunque questa rietimologizzazione gli ha molto probabilmente evitato la caduta nell’oblio. Va da sé che il concetto di “filo, stipa”  coincide con quello di ”stipite, pilastro”. Difatti in gr. stipite suona stélekh-os che quasi coincide con ingl. stalk ‘gambo, stelo’.  In tedesco Pflock vale ‘piolo, palo’; in ingl plug significa ‘spina, spinotto’.  L’abr. pëlùcchë ‘parrucca’, cioè ‘(falsa) capigliatura’ è un’altra specializzazione della parola. Gli ingl. flock ‘fiocco, bioccolo’, ted. flocke ‘fiocco, bioccolo’ che, secondo le normali corrispondenze fonologiche, non potrebbero essere in rapporto col lat. floccu(m)’fiocco, bioccolo’ in quanto la fricativa sorda germanica –f- dovrebbe derivare dall’occlusiva labiale sorda –p, potrebbero, in realtà, ricevere luce da doppioni oscillanti p/f come quelli abruzzesi sopra citati.  Io propenderei a credere che quello che a noi appare come fenomeno di trasformazione di suoni dovette essere, almeno in parte, solo fenomeno di sostituzione di forme tra loro distinte già da molto tempo prima, almeno in alcune parlate divenute poi magari dominanti. 

[8]  Cfr. Aa. Vv. Popoli e Civiltà dell’Italia Antica  VI, Biblioteca di Storia Patria, Roma 1978, p. 491 e s.

[9] Cfr. vocab. Miriam-Webster.

[10] Cfr. il termine inglese di probabile origine greca  di-mity ‘basino’, cioè tessuto di cotone usato come federa.

[11]  E’ bene dire fin da ora che, secondo me, la natura fondamentale del piede non è la sua piattezza ma semmai il suo essere una protuberanza, estremità, punta.

[12] Cfr. il mio post Fischia-frosce aprile 2011 e quello del luglio 2011 intitolato Col tempo e con la paglia […].

[13] Cfr. sito web:  www.spinazzolaonline.it/public/editorfiles/Dizionario+cover%20PDF(1).pdf .  Questo dialetto mostra caratteri di forte arcaicità in diversi vocaboli dai significati  particolari non riscontrati altrove.  Già abbiamo avuto modo di notare nel post Col tempo e con la paglia […] del luglio 2011 il significato di ‘strada’ per il termine chjæn ‘strada’ da *plan- e di ‘fischietto metallico’ e ‘vulva’ per fresca-jol.  A dire il vero ora mi pare di capire l’origine anche del secondo membro –jol che avevo lasciato in sospeso: si deve trattare della contrazione, già incontrata nel penultimo post, che da diá-bol-os porta a*djaul-os, jaul-os, ,jol-os, giol- che ha dato in Puglia e altrove anche giola o ciola ‘cornacchia, gracchio, ecc.’: essa  qui presenta il significato di ‘buco, passaggio’(di cui abbiamo parlato nel penultimo post) incrociatosi probabilmente anche con gr. díaulos ‘stretto passaggio’. Da notare ancora, in questo dialetto, l’aggettivo fattézz ‘spesso, doppio’ che fa il paio con l’abr. fatticcë ‘grosso, massiccio, spesso’ e con l’it. fatticcio per l’appunto.  Mi sembra pertanto senza senso l’etimo che costantemente se ne dà, cioè da aggett. it. fatto (nel senso di ‘completamente sviluppato, adulto’)+ iccio, quando invece esso grida la sua fratellanza con ingl. fatty da *fattig ‘corpulento, grassoccio, oleoso’ che nel ted. fettich ha mantenuto solo il sign. di ‘unto, oleoso’.  I linguisti per questa etimologia si basano, credo, solo sul sign. di ‘tarchiato, robusto’ riferito all’uomo che l’it. fatticcio ha, senza conoscerne evidentemente il significato dialettale di ‘spesso, consistente’ riferibile a qualsiasi oggetto ma non all’uomo e che, come s’è visto, è il solo che la voce spinazzolese mostra. A non parlare dell’ulteriore ostacolo rappresentato dal fatto che alla spirante germanica –f- dovrebbe corrispondere una forma latino-italica con –p-, secondo le norme fonologiche consuete (legge di Grimm). Con questo modo di procedere non ci possono essere speranze, ahimè, per la scienza etimologica e per la linguistica in genere!

[14] Per questo significato si può azzardare come etimo la radice di gr. peítho ‘persuado, eccito, suscito’ che ha dato i lat. fido ‘confido’ e foedus, eris ‘patto, accordo’.

[15] Cfr. anche il post Piano Scrufola del dicembre 2011.

[16] Cfr. ingl. pad ‘zampa di lepre, volpe, ecc.’ ma anche ‘impronta delle zampe degli stessi animali’ (vocab. Miriam-Webster).

[17] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, Dialetti Italiani, UTET; Torino 1998, s. v. fjéta. Vi si sostiene la derivazione dal lat. flatare ‘soffiare’, incrociato con altra voce che ne ha modificato il significato.

[18] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese,  Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.

[19] Nel composto tautologico ted. Faden-garn ‘filo (-garn) di lino (Faden-)’ si assiste ad una piccola specializzazione del termine generico Faden ‘filo’  diventato ‘lino’ che ci riconduce all’espressione italiana Lino delle fate e ci fa toccare con mano che qui il lino e le fate sono in realtà la stessa cosa.