sabato 11 dicembre 2021

Strëllà cumma n’asprë.

 


    Strilla cumma n’asprë si diceva ad Aielli quando qualcuno gridava come un forsennato.   L’espressione sembra strana, dato che essa formalmente non è altro che l’it. strilla come un aspro, il cui significato è però incongruente con quello dell’espressione in lingua.  L’aggettivo dialettale asprë, in effetti, ha più o meno gli stessi significati di it. aspro, il quale indica una ruvidezza nel tatto, nel gusto e anche nel suono. Ma intendere la frase dialettale-italiana come se fosse ‘strilla come (una persona) stridente’ mi pare ugualmente una forzatura.

    Il problema si risolve bene, a mio parere, se solo si tiene presente tutta la gamma dei significati di lat. asper-u(m) tra i quali c’è anche quello di ‘violento, selvaggio’ e simili.  Quindi la frase dialettale non significa altro che ‘strilla come un (uomo) violento, furioso’ e quindi anche forsennato.

lunedì 6 dicembre 2021

Il maiale.

 


   Credo che tutti gli etimologi sostengano che l’it. maiale, lat.  maial-e(m), sia stato forse così chiamato perché a Roma si era soliti, in genere il primo giorno di maggio, sacrificare un maiale a Maia, dea della fecondità. Il nome, insomma, deriverebbe da quello di Maia.

   Noi però sappiamo che i nomi non nascono in genere in questo modo perché essi dovrebbero fare riferimento, invece, alla natura del referente e non agli accidenti che possono riguardarlo.

    Dico subito che non conosco il vero etimo della parola in questione, ma mi preme comunque sottolineare alcuni fenomeni che la toccano e che illuminano i fatti linguistici in genere, con la loro complessità.

   Si narra, infatti, fin dall’antichità, che il primo di maggio, come ho accennato or ora, si sacrificava a Maia un maiale il quale, stando ad alcune delle fonti, doveva essere castrato, mentre secondo altre si trattava di scrofa gravida, pregna, significato contrapposto al precedente. Sono forse questi dei fatti casuali su cui non vale la pena soffermarsi? Non credo, dato che essi possono essere spiegati puntualmente.

    Una scrofa pregna, infatti, è appunto una maiala gravida, grossa: due aggettivi i cui concetti possono essere espressi anche dal lat. mag-n-u(m) ‘grande, grosso, ecc.’ la cui radice mag- abbiamo visto (nell’art. precedente intitolato La maésa) che si ritrova nel nome Maia<*Mag-ia, e nel comparativo ma-ior-e(m) ’maggiore’ con la caduta della velare /g/.  E’ dunque questo il motivo per cui dietro il termine mai-al-e(m) è stato visto, dagli antichi, non un semplice maiale o porco, ma una maiala grossa, nel senso di pregna. Nel greco moderno la voce magiá, pronunciata majà, significa ‘lievito’, la sostanza che fa fermentare, crescere, gonfiare la materia organica.

    Nel Vocabolario abruzzese di D. Bielli compare anche la voce majàtëchë  ‘marchiano, grosso, madornale’ detto di animali, ciliegie, errori che conferma evidentemente la radice maia- < mag- .

    E il senso di porco castrato?  Il fatto è che il lat. maial-e(m) significa in genere proprio porco castrato. Ma perché questo avviene?  Come mai al semplice significato di porco deve aggiungersi anche la qualità dell’essere castrato? Anche in questo caso è il dialetto che ce ne svela il motivo.

    In Abruzzo[1], e anche in alcuni paesi della nostra Marsica come Trasacco[2], ricorre la voce majà, majjà ’castrare’.    Ora, la cosa importante è notare, secondo me, che questa voce molto probabilmente esisteva già, anche nel latino parlato, ai tempi della nostra Maia e del nostro maial-e(m) sicchè potè avvenire l’incrocio che fornì a maial-e(m)anche il significato di castrato: altrove ho già ricordato che questi fenomeni erano già presenti nel latino classico.

      Qualunque sia l’etimo di majà ‘castrare’, di cui comunque ho già parlato nell’articolo del mio blog La gramola e i suoi vari nomi dialettali (1 settembre 2012), resta il fatto che esso si è  incrociato con il lat. maial-e(m): anche l’abr. maial-éschë, infatti, ne ha mantenuto intatto il significato di ‘scrofa castrata’ accanto a quello generico di ‘maiala’.  C’è anche da ricordare che l’espressione usata in latino per indicare il porco sacrificato a Maia era sus Maialis intesa come ‘porco dedicato a Maia’ ma in realtà essa, prima che si incrociasse col nome della dea, doveva indicare proprio un ‘porco (sus) castrato (maialis, con la /m/ minuscola perché inizialmente non riferita a Maia)’. E’ chiaro che un animale castrato diventa pingue e  grasso ma solitamente continua ad essere designato come castrato. L’etimo primo di lat. maial-e(m) resta comunque ignoto; esso potrebbe indicare solo il concetto di “animale”.

    E questo è quanto. In simili storie nulla è dovuto al caso, ma è semmai la nostra ignoranza che ce lo fa credere.



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-AQ, 2004.

 

[2] Cfr.Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003. 

   




Credo che tutti gli etimologi sostengano che l’it. maiale, lat.  maial-e(m), sia stato forse così chiamato perché a Roma si era soliti, in genere il primo giorno di maggio, sacrificare un maiale a Maia, dea della fecondità. Il nome, insomma, deriverebbe da quello di Maia.

   Noi però sappiamo che i nomi non nascono in genere in questo modo perché essi dovrebbero fare riferimento, invece, alla natura del referente e non agli accidenti che possono riguardarlo.

    Dico subito che non conosco il vero etimo della parola in questione, ma mi preme comunque sottolineare alcuni fenomeni che la toccano e che illuminano i fatti linguistici in genere con la loro complessità.

   Si narra, infatti, fin dall’antichità, che il primo di maggio, come ho accennato or ora, si sacrificava a Maia un maiale il quale, stando ad alcune delle fonti, doveva essere castrato, mentre secondo altre si trattava di scrofa gravida, pregna. Sono forse questi dei fatti casuali su cui non vale la pena soffermarsi? Non credo, dato che essi possono essere spiegati puntualmente.

    Una scrofa pregna, infatti, è appunto una maiala gravida, grossa: due aggettivi i cui concetti possono essere espressi anche dal lat. mag-n-u(m) ‘grande, grosso, ecc.’ la cui radice mag- abbiamo visto (nell’art. precedente intitolato La maésa) che si ritrova nel nome Maia<*Mag-ia,e nel comparativo ma-ior-e(m) ’maggiore’ con la caduta della velare /g/.  E’ dunque questo il motivo per cui dietro il termine mai-al-e(m) è stato visto, dagli antichi, non un semplice maiale o porco, ma una maiala grossa, nel senso di pregna. Nel greco moderno la voce magiá, pronunciata majà, significa ‘lievito’, la sostanza che fa fermentare, crescere, gonfiare la materia organica.

    E il senso di porco castrato?  Il fatto è che il lat. maial-e(m) significa in genere proprio porco castrato. Ma perché questo avviene?  Come mai al semplice significato di porco deve aggiungersi anche la qualità dell’essere castrato? Anche in questo caso è il dialetto che ce ne svela il motivo.

    In Abruzzo[1], e anche in alcuni paesi della nostra Marsica come Trasacco[2], ricorre la voce majà, majjà ’castrare’.    Ora, la cosa importante è notare, secondo me, che questa voce molto probabilmente esisteva già, anche nel latino parlato, ai tempi della nostra Maia e del nostro maial-e(m) sicchè potè avvenire l’incrocio che fornì a maial-e(m)anche il significato di castrato: altrove ho già ricordato che questi fenomeni erano già presenti nel latino classico.

      Qualunque sia l’etimo di majà ‘castrare’, di cui comunque ho già parlato nell’articolo del mio blog La gramola e i suoi vari nomi dialettali (1 settembre 2012),  resta il fatto che esso si è  incrociato con il lat. maial-e(m): anche l’abr. maial-éschë, infatti, ne ha mantenuto intatto il significato di ‘scrofa castrata’ accanto a quello generico di ‘maiala’.  C’è anche da ricordare che l’espressione usata in latino per indicare il porco sacrificato a Maia era sus Maialis intesa come ‘porco dedicato a Maia’ ma in realtà essa, prima che si incrociasse col nome della dea, doveva indicare proprio un ‘porco(sus) castrato (maialis, con la /m/ minuscola perché inizialmente non riferita a Maia)’. E’ chiaro che un animale castrato diventa pingue e  grasso ma solitamente continua ad essere designato come castrato. L’etimo primo di lat. maial-e(m) resta comunque ignoto; esso potrebbe indicare solo il concetto di “animale”.

    E questo è quanto. In simili storie nulla è dovuto al caso, ma è semmai la nostra ignoranza che ce lo fa credere.



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-AQ, 2004.

 

[2] Cfr.Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003. 

   


sabato 4 dicembre 2021

La maésa.

 


 

 

   La voce femminile aiellese ma-ésa corrisponde al termine maschile (talora femminile) it. magg-ése, il quale indica generalmente un terreno messo a riposo per essere lavorato l’anno seguente, secondo una pratica agricola antichissima che ristabiliva la fertilità di un campo divenuto poco fecondo negli anni.

    La forma ma-ésa si riscontra anche nel dialetto di Luco dei Marsi[1] con la /è/ grave, in alternativa, però, alla forma ma-jèsa, la più comune in Abruzzo, benché in genere con la /é/ acuta.   In internet la voce ma-ésa  ‘terreno arato in attesa delle piogge’ è diffusa anche nelle Marche.  

    Ora, urge una importante precisazione: la forma in uso ad Aielli presume senz’altro la velare, non la palatale, /g/ (come succede nella stessa voce del nostro dialetto Aéjjë ‘Aielli’ < lat. classico Agell-um di cui ho trattato altrove) presente in una forma *mag-ésa immediatamente  precedente all’attuale,  e pertanto in forte contrasto con l’aggettivo latino Mai-u(m) ’di maggio’ da cui tutti i linguisti derivano l’it. magg-ese di cui sopra, dando una spiegazione che in effetti è poco convincente: la lavorazione del terreno avverrebbe nel mese di maggio. Ma, come leggo, La forma classica del maggese prevede quattro lavorazioni del terreno (arature) che si susseguono da marzo ad agosto, e possiedono profondità variabile: molto leggera l'ultima e più profonde la prima e la terza.  Dopo queste lavorazioni tese a ripulire e preparare l’appezzamento, si procede, verso ottobre-novembre, alla nuova aratura per la seminagione.

   A mio parere, quindi, il mese di maggio  non c’entra nulla, come confermato d’altronde dalla forma aiellese ma-ésa <*mag-ésa che ci spinge a procedere  verso altra direzione. Quale?  Secondo me anche l’aggettivo e sostantivo lat. Mai-u(m) ‘di maggio’ o  ‘mese di maggio’ poteva avere in precedenza una velare, poi caduta, in una forma *Magi-u(m).  Il mese di maggio era così chiamato perché dedicato a Maia, divinità che a Roma rappresentava la fecondità in generale e il risveglio della natura a primavera.  Ma allora non dovrebbero esserci dubbi! Il maggese, termine che certamente esisteva già nel latino parlato nella forma *mag-ens-e(m), o simile, indicava il terreno sottoposto a questa pratica e la pratica stessa che ne ristabiliva la fertilità compromessa, naturalmente sotto la protezione della dea Maia come avveniva in genere per ogni attività agricola, ciascuna legata a qualche divinità come  ad esempio Messor , dio delle messi; Puta, dea della potatura; Semo, dio della semina. Una pratica importante come quella del maggese poteva svolgersi senza la protezione di qualche divinità che, nel nome stesso, ne indicasse lo scopo?  Senz’altro no, giacchè secondo me è valida l’equazione: Maia<*Magia (fertilità, fecondità) = magg-ese (terreno reso fecondo, fertile –e pratica relativa).

    Nei nostri dialetti il significato di ma-ésa  e simili indica genericamente il ‘terreno  lavorato più o meno in profondità’ (magari per dissodarlo),  nonché la ‘profondità, più o meno marcata, di qualsiasi aratura (ad Aielli-Aq)’ senza riferimento alla pratica del maggese.

    Così stando le cose quale potrebbe essere il significato della radice mag- all’origine di magg-ese e di Maia? Essa dovrebbe essere la stessa di lat. mag-n-u(m) ‘grande, numeroso, molto’.  Nel comparativo di maggioranza di questo aggettivo la velare /g/ cade ugualmente dinanzi alla desinenza –ior: infatti si ha ma-ior ‘maggiore, più grande’.  Ma un termine così antico da arrivare senz’altro al neolitico non poteva, a mio avviso, non incrociarsi con altri termini simili nella forma.  Io penso che questa radice si sia incrociata con quella dell’ingl. magg-ed ’logoro, consunto’ derivato probabilmente dall’ingl. dialett. magg-ed ‘stanco, esausto’ considerato, del resto, di origine ignota. Un terreno esausto, impoverito è proprio quello su cui si  applica la pratica del maggese per la quale sono necessarie da una parte la presenza di un terreno sfruttato, poco fertile, dall’altra una serie di lavorazioni che lo maggiorino, lo riportino alla fecondità perduta: qui si dà il caso che le due radici, che indicano le due cose, combacino nella forma eguale  mag- anche se il loro significato è in qualche modo opposto. 

    Chiudendo, ribadisco con forza che la voce ma-ésa del dialetto di Aielli e di altri mi costringe a constatare che l’it. maggese non deriva il nome dal mese di maggio, in latino Ma-iu(m) ’maggio’, ma semmai dal nome della dea Maia  alla quale  esso era dedicato, nome che aveva il significato di ‘abbondanza, fecondità’, ed era collegato alla radice indoeuropea di lat. mag-n-u(m)  ‘grande, numeroso, molto’.  In somma l’it. maggese non scaturisce direttamente dala forma storica lat.  Ma-iu(m) ‘maggio’, ma da una precedente forma *Mag-iu(m) anche se non attestata: l’aiellese ma-ésa ne è in qualche modo una prova.

    C’è ancora da sfatare un altro dubbio, cioè che nella forma maj-ésa la semivocale  /j/ sia la continuazione della semivocale /i/ di lat. Ma-iu(m) ‘maggio’Essa invece è dovuta alla caduta della consonante velare /g/ che  tra due vocali nei nostri dialetti spesso scompare, come in fràula ’fragola’ < lat. fragul-a(m), oppure lascia per così dire un segno trasformandosi  in /j/ come nella voce del dialetto cerchiese Ajéjjë ’Aielli’ che ad Aielli suona invece, come abbiamo detto, jjë, con la caduta totale della velare.  Molto istruttiva è la voce abruzz. arcaica pajé ‘paese’ dal lat. pag-ens-e(m) (cfr. lat. pag-um ‘villaggio, paese’), la quale normalmente si affianca all’altra  psë, in cui si ha la lenizione totale della velare /g/ come del resto nell’it. paese. Anche all’inizio di parola avvengono queste trasformazioni come in abruzz.[2] nërë ’genero’, nèstrë ‘ginestra’, ecc.   

     I dialetti smentiscono abbastanza di frequente le false supposizioni dei linguisti. 



[1] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei MarsI, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq.  2004.