martedì 17 maggio 2011

Intermezzo poetico, un poco triste

Fràtëmë

Senza ‘ttë uardë ajju quatrë appisë alla parétë
chë të facìttë tu quand’ivë giovanë i béjjë
sta’ sembrë déndr’a mmi: të védë nda stassàmm’ a mmètë
u quandë la sera rësallavàmmë pë lla costa ad Aéjjë.

Mo è tandë témbë chë stenghë solë, sembrë più solë,
i nën tira n’alëtë dë véndë pë rranëmà stu célë
ammussìtë; mo chë purë fijjëtë së n’è itë, senza sòlë
më parënë a vvòtë lë jurnatë, i amarë nda u fèlë.

Oh, së ppë ‘nna vòta sòla të putéssë rëvëdé
lochë addó të truvë i sëndìttë ridë, i nnó piagnë!
së, chë ‘nnë mumendë solë, putéssë sapé nda è

la vita, së cë sta, dóppë mórtë, u së ju ranghë
ch’alla tela n’acchiappa tuttë quandë, nda lë moschë,
në së surpa purë l’alma chë llë sanguë!





Mio fratello

Senza che ti guardi nel quadro appeso alla parete,
che ti facesti da te quando eri giovane e bello,
stai sempre dentro a me: ti vedo come se stessimo a mietere
oppure quando la sera risalivamo su per la costa ad Aielli.

Ora è da tanto tempo che sto solo, sempre più solo,
e non tira un alito di vento a rianimare questo cielo
immusonito; ora che anche tuo figlio se n’è andato, senza sole
mi sembrano a volte le giornate, e amare come il fiele.

Oh, se per una volta sola ti potessi rivedere
lì dove ti trovi e sentirti ridere, non piangere!
Se, in un solo momento, potessi sapere come è

la vita, se c’è, dopo che si è morti, o se il ragno
che ci acchiappa tutti quanti nella tela, come mosche,
ci si succhia pure l’anima col sangue!

venerdì 13 maggio 2011

La celebrazione della Pasqua (ebraica)si svolgeva in Abruzzo, e probabilmente altrove, millenni prima dell'avvento del Cristianesimo. Sbalorditivo !!!






In alcune parti dell’Abruzzo si registra l’usanza di andare a passà l’ácquë ‘passare l’acqua’  in occasione della scampagnata del lunedì successivo alla Pasqua.  L’espressione vale anche come sostantivo maschile (a Colonnella-Te) che indica comprensivamente la gita del lunedì dell’Angelo, nota altrimenti come pasquetta. Il linguista abruzzese Ernesto Giammarco[1] sostiene che l’espressione deriva appunto dal fatto che il lunedì di Pasqua era di rito attraversare, saltando, un ruscello.

Ora, chi mi segue negli articoli del  blog ricorderà che in molti casi simili ho mostrato come bisogni ragionevolmente pensare che siano il rito, la costumanza, il mito a dover essere spiegati dalle relative espressioni, normalmente generate da automatiche reinterpretazioni di sostrati linguistici precedenti,  e non il contrario, tanto che ormai io considero questo un metodo sperimentato, efficace ed insostituibile.  In mancanza di esso a mio parere si cade purtroppo in banalità interpretative che lasciano intatto, a pochi centimetri dalla superficie, il tesoro linguistico, e non solo, sottostante.  E’ come se si fosse muniti di un detector  inadatto a scoprire l’oggetto che si vuole trovare, ma di cui ci si fida ciecamente con la inevitabile conseguenza di chiudere di fatto negativamente e definitivamente la ricerca, abbagliati da quello che il detector rileva  e che peraltro sembra possedere tutti i crismi di una  verità self-evident. E’ superfluo dire che è stato per me un gioco facilissimo, oltre che gradevolissimo, scoprire anche in questo caso il luccicante tesoro a portata di mano se non di detector.  Naturalmente vorrei che chi la pensa diversamente al riguardo avesse anche la compiacenza di propormi un suo ragionamento altrettanto credibile, in modo che io possa rivedere il mio.

Scartata quindi la praticabilità della spiegazione del rito basandosi sul significato attuale dell’espressione che sembra essere l’immagine riflessa del rito, non resta che tentare la strada inversa di cercare, entro i limiti formali della stessa espressione, un significato più profondo che rovesci il rapporto suddetto facendo diventare il rito una naturale conseguenza di quella. 

A me che pure non sono un cattolico praticante, ma che comunque conosco qualcosa sulle origini della Pasqua cristiana, la quale per il nome rimanda a sua volta a quella ebraica, è balenato subito nella mente che sotto quella espressione si nascondesse il termine dell’antico ebraico pesach, pesah (aramaico pasha) da cui deriva il nome delle festività in questione e che significa ‘passaggio’ o meglio ‘saltare oltre’.  La Pasqua ebraica, come illustri studiosi affermano[2], era certamente una remotissima festività legata alla primavera (mese di Nisan) e probabilmente alla transumanza di tribù semitiche preistoriche già millenni  prima delle storicizzazioni della festa nei modi e nei fatti di cui narra la Bibbia, i quali ne fanno il ricordo a) del presunto passaggio del popolo ebraico attraverso il  mar Rosso, b) del passaggio di Yahweh  che punisce gli Egizi uccidendone i primogeniti maschi ‘passando oltre’ le case degli Ebrei marcate dal sangue dell’agnello pasquale, e c)del raggiungimento della libertà dalla schiavitù.

Passando ad altro, a me pare che sia molto verosimile che tribù semitiche nomadi, ancor prima forse  che si formasse il nome ebraico e avesse origine la storia di questo popolo, siano giunte da noi per espansione naturale, anno dopo anno, a partire dalla cosiddetta Mezzaluna fertile, portando con sé i propri usi, costumi e festività i cui nomi, col favore del caso e della impagabile tradizione, sono potuti talora  arrivare fino ai nostri giorni anche se i loro significati sono stati più o meno stravolti per l’incrocio con altre parole di strati linguistici successivi.

Il semitologo Giovanni Semerano, morto una ventina di anni fa, sosteneva che le lingue europee, lungi dal discendere dall’abbastanza congetturale ed astratto indoeuropeo comune, avessero stretti rapporti con antiche lingue semitiche dell’area mesopotamica di circa 5000 anni fa.  La sua visione a mio avviso va certamente corretta ma è indubbio che contiene molti aspetti veritieri, checché ne pensi la maggior parte degli studiosi.

A dire il vero avevo avuto sentore della presenza di parole semitiche nei nostri dialetti già nell’articolo intitolato Le categorie aristoteliche ostacolano la comprensione dei concetti generali all’origine del linguaggio (giugno 2009) a proposito di due parole del dialetto di Lecce nei Marsi- Aq  che mi sembravano mostrare un gioco di gradazione vocalica simile a quello che normalmente caratterizza le parole semitiche.  In alcune di queste lingue, come l’arabo, il gioco apofonico interno alla radice, costituita dall’impalcatura semantica delle consonanti, è sfruttato al massimo per piegarla a svolgere varie funzioni morfologiche.  La radice araba qtl  ‘colpire’, ad esempio, dà il perfetto attivo qatala, passivo qutila, imperfetto attivo ya-qtulu, passivo yu-qtalu.  Questi fenomeni si rintracciano più o meno cospicuamente in varie lingue arioeuropee in cui essi comunque erano in fase di decadimento come il greco, le lingue germaniche, l’antico indiano e anche il latino.

Ora, tornando all’espressione passà l’acquë di cui sopra, mi sembra che essa possa e debba essere agganciata alle parole ebraiche  pesach, pasach ‘passaggio, saltare oltre’  non solo per l’evidente somiglianza fonetica della espressione dialettale e del termine pas-ach, specie se si toglie l’articolo all’espressione abruzzese con concomitante  elisione di una delle due –a- (compiendo in sostanza l’operazione inversa rispetto a quella che aveva generato l’espressione), ma anche per la precisazione che Ernesto Giammarco dà dell’uso di passare, saltando, un ruscello come se fosse presente, nella coscienza di coloro che già nella notte dei tempi eseguivano dalle nostre parti questo rito, il significato (o uno dei significati) della radice che costituiva il nome della loro festa primaverile, celebrata anche con una danza cultuale da tutte le religioni semitiche, come del resto invitava a fare il significato del nome stesso della festa[3]. Se si vuole  essere pignoli bisogna notare anche la voce abruzz. acchë ‘acqua’, sovrapponibile perfettamente all’-ach di pas-ach ‘passaggio’[4].  A chi  nutrisse qualche dubbio circa la possibilità di sopravvivenza del rito e della relativa parola da un’epoca così lontana, ricordo che quasi sicuramente si trattava di una delle feste più importanti delle comunità primitive, e che almeno per gli ultimi duemila anni circa il rito ha potuto sopravvivere senza sforzo alcuno perché è rimasto agganciato alla festa cristiana della Pasqua e alla radice di questo nome.  Inoltre la tradizione della gita fuori le mura assurge secondo me a simbolo del nomadismo delle le tribù primitive, le quali, dopo la sosta del periodo invernale, riprendevano la marcia verso altre terre o magari, se erano divenute stanziali, verso pascoli montani. 

  E non è tutto.  Sintomi della presenza di questa radice si avvertono, a mio avviso, anche nella voce abruzzese pasahà[5] ‘girellare’ e nel dialetto di Trasacco-Aq dove l’espressione passà l’àcqua[6]  , oltre al significato letterale di ‘passare l’acqua’ significa ‘essere presuntuoso, arrogante’  con un passaggio semantico abbastanza rintracciabile che parte dall’idea originaria di ‘passare o saltare oltre’ per toccare quella di ‘eccedere’ ed arrivare all’ultima di ‘esagerare, esaltarsi, inorgoglir(si), in-superb-ire, ecc.’. Non è quindi da credere che quest’espressione trasaccana sia nata in riferimento agli emigranti che nei secoli scorsi si recavano in America o in Australia i quali, appropriandosi di essa, le davano un significato del tutto positivo esprimente l’orgoglio, l’esperienza e le capacità che avevano acquisito con il coraggio di abbandonare il luogo natio per cercare di fare fortuna altrove: l’antichità della corrispondente espressione indicante, anche se con significato alquanto diverso, il rito della scampagnata del lunedì dell’Angelo impedisce, a mio avviso, la praticabilità di simili scorciatoie esplicative. Del resto mi pare realistico immaginare il senso di orgoglio che doveva nascere e forse nasce ancora nell’animo degli ebrei quando celebrano la Pasqua, e meditano sulle grandi imprese e capacità di resistenza dei loro antenati che fuggirono dalla schiavitù dell’esilio e tornarono alla terra promessa, guidati da Mosè.
  
  Le parole sono molto più antiche di quanto talora si possa supporre.  Lo stesso inglese passage (mutuato dal francese) nel significato di ‘spostamento, scarto laterale (del cavallo)’  sembrerebbe resuscitare lo slancio contenuto nell’espressione rituale abruzzese di cui sopra.  Ma l’exploit  finale la radice semitica lo raggiunge nella passac-àglia o passag-àglio  o passag-allo ‘antico ballo popolare di probabile origine spagnola o italiana’  il cui etimo supposto è piuttosto banale ed infelice, a mio avviso, giacchè lega la parola alla sua veste  spagnola pasacalle intesa come composta di pasar ‘passare’ e calle ‘strada’[7]Passare per la strada, dunque, in riferimento a gente allegra e a suonatori di chitarra che accompagnavano chi andava a cantare la serenata alla sua bella, dato che la pura origine ballerina  della passacaglia era via via scaduta a favore di questa o quella usanza nei vari paesi in cui il termine si ritrovava.  Nel siciliano la sua variante passagagghi  indica ‘damerini che ronzano per le strade a corteggiare’ (con influsso di –gallo a quanto pare) oppure il semplice ‘viavai’,  ribadendo uno dei significati di fondo della parola, cioè quello di ‘passaggio, passeggio, passeggiatore’.  Ma l’altro antico significato di ‘ballo’, che è un saltare, lega il termine a filo doppio col pesach, pasach ‘saltare oltre’ di cui abbiamo parlato.  Si deve aggiungere ad esso solo un suffisso –alia, -ale o simili per ottenere il sostantivo che ha provocato la confusione etimologica, essendo d’altronde la sua radice semitica non propriamente a portata di mano mentre la calle ‘strada’  spagnola era lì in evidenza per portare fuori strada.

Ora, nel napoletano, passag-àglio significa ‘passero solitario’, cosa che riapre l’interessantissimo capitolo sulla estrema plasticità o elasticità dei significati delle radici, secondo il mio ormai sperimentato modo di vedere.  In effetti un significato probabile , ricavabile dalla Bibbia, dell’ebr. pesach, pascha (il valore di ‘salto’ attiene propriamente ad ebr. pesichà)  potrebbe essere stato ‘agnello’ in tempi lontani, significato che a mio parere non fu tratto per metonimia dal nome della festa ma che dovette costituire una sorta di variante semantica della stessa radice di quel nome, specializzatasi ad indicare gli esseri viventi, gli animali, esseri cioè dotati di anima, soffio, respiro e che vivono grazie al sostentamento fornito dal Sole e dal suo calore.  Un’altra radice simile alla precedente è il lat. passer ‘passero’ che secondo me alterna semiticamente con gr. psár, ion. psér ‘storno’. Nel dialetto di Castellafiume-Aq si incontra poi la singolare parola pasqu-arella [8]‘farfalla’ che aveva attratto naturalmente la mia attenzione da tempo e che ora posso capire in profondità, credo.  Essa per il significato richiama il gr. psykhé ‘farfalla’ ma anche ‘soffio, alito, anima, vita’, gr. psák-al-os ‘animale nato da poco, cucciolo’. 

  Le tre parole finiscono col coincidere non solo nel significato ma anche nel significante, se le si inquadra nell’ottica della spesso sbrigliata variabilità apofonica delle vocali all’interno di parole semitiche di cui ho parlato più sopra, che del resto vengono individuate semanticamente solo dalla nuda struttura consonantica.  E fanno anche indovinare con buona approssimazione quale dovette essere il significato originario del nome della festa primaverile: quello di forza, di luce, di calore vitale, di rinascita  e di gioia che la Natura e il Sole a primavera ricominciano ad offrire  ai poveri mortali infondendo in essi un rinnovato spirito di fiducia in sé e di slancio ottimistico verso la vita (cfr. ingl. Spring ‘primavera’, ma anche salto, balzo, significato che ci riporta onomasiologicamente  all’ebr. pesach ‘salto’, parola che indicava però anche la festa primaverile). E’ facile così collegare i due concetti e farne scoccare tutta l’energia, il turgore, lo slancio, l’impulso e l’ardore caratteristici del risveglio della Natura a primavera. Alla luce di queste osservazioni si può pensare, a mio avviso, che anche l’italiano arcaico pascóre ‘primavera’ unito all’aggett. provenzale pascor ‘di Pasqua’, da cui deriverebbe, potrebbe essere il risultato di un preesistente termine per ‘primavera’ incrociatosi con la voce Pasqua portata dal Cristianesimo. A questo punto il significato nascosto del nome della festa che più sopra individuavo con ‘buona approssimazione’, diventerebbe  certezza: primavera!

Che il racconto biblico relativo alla Pasqua ebraica si sia formato attraverso i millenni per accumulo lento ma inesorabile e continuo di incroci di termini di parlate e lingue varie che sono andati ad interferire e ad arricchire a mano a mano la narrazione partendo da un nucleo originario, ce lo chiariscono ormai anche le poche osservazioni da me fatte in merito alla festa: il suo nome stesso spiega perché i pastori eseguivano la danza  durante la sua celebrazione; perché la festa sia anche un memoriale del vero o piuttosto presunto passaggio del Mar Rosso, episodio a mio avviso (ma anche la stragrande maggioranza degli studiosi ne nega la veridicità) originatosi come corollario non solo del nome della festività ma anche dell’altro presunto (non esiste nessun documento storico che lo attesti) episodio dell’esilio degli Ebrei in Egitto e della loro fuga verso la Terra promessa; perché l’Angelo del Signore passò oltre le case o le tende degli Ebrei  portando la morte in quelle degli Egizi; perché – se si vuole prendere per buona la mia supposizione fatta più sopra-  un agnello veniva sacrificato in onore del Signore da ogni famiglia ebraica.

Sono andato per curiosità a rileggere il brano (Esodo, 19 ss.) del passaggio del Mar Rosso e sono stato attratto dal passo seguente:  «[...] e il Signore con un forte vento orientale fece ritirate il mare tutta la notte, rendendolo asciutto. Allora i figli di Israele entrarono in mezzo al mare all’asciutto […]».  Ho fatto le seguenti osservazioni:  1.  L’idea di ‘vento’ è inclusa in quella di gr. psykhé ‘soffio, alito, respiro’; 2.  L’idea di ‘asciutto’ è inclusa nel corradicale verbo greco  psýkh ‘io soffio, respiro, raffreddo, secco, asciugo’.  Persino l’idea di ‘notte’ si può abbastanza agevolmente ricavare dal gr. pséph-os ‘oscurità, tenebre’, se una pronuncia che mantenga solo il soffio dell’aspirazione nella labiale aspirata di questa parola (cioè *pséh-os) va ad incrociarsi con una pronuncia simile della velare aspirata nel sempre presente psykhé (cioè *psyh). Mi si obietterà che la Bibbia era scritta in ebraico. Rispondo asserendo che  alle origini lontane dell’ebraico, come abbiamo in qualche modo mostrato più sopra, potevano esserci state parole che condividevano la radice con quelle greche corrispondenti.

Naturalmente bisognerebbe conoscere l’ebraico per un’analisi più dettagliata e profonda di tutto il racconto, ma in ogni modo mi pare che la scampagnata del lunedì dell’Angelo o Pasquetta,  in uso in Italia e non altrove, si configuri proprio come uno spostamento, una trasmigrazione della comunità oltre i limiti del centro abitato, come avveniva quando le comunità preistoriche si spostavano a primavera per motivi di transumanza o di nomadismo.  Interessante sarebbe appurare se simili usanze, oltre che nei paesi abruzzesi di cui sopra donde avrebbero potuto diffondersi altrove, esistevano anche in altre località.  Una volta arrivato il Cristianesimo, la scampagnata, un tempo forse elemento centrale e rituale della ricorrenza preistorica, si secolarizzò trasformandosi in una gaia gita informale fuori porta. Ritornando, in chiusura, al brano del libro dell’Esodo mi chiedo perché mai il Signore fece spirare il vento per tutta la notte, se poteva all’istante aprire le acque e asciugarle ipso facto. Per rendere tutto più naturale  nascondendo la sua maestà?  E prendendo per buona questa considerazione che, pure, deve lasciare qualche spazio a tratti irrazionali e mitici del racconto, dovrei io forse non fidarmi delle scoperte del mio intelletto che, sia pure a fatica, ha modestamente rintracciato con qualche rigore scientifico una strada che conduce ad una soluzione del problema che a me sembra a dir poco altrettanto naturale e concreta?



 

   
 




[1] Cfr. M. Cortelazzo/C. Marcato,  I dialetti italiani,  UTET, Torino 1998, p. 323, s.v.

[2] Cfr. Alfredo Cattabiani, Calendario, Edizione Mondolibri S.p.A, Milano 2004, p. 167

[3] Cfr. Alfredo Cattabiani, cit., p.  167

[4] Cfr. Domenico Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq  2004.

[5] Cfr. Domenico Bielli, cit..

[6] Cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, p. 545.

[7] Cfr. M. Cortelazzo/ C. Marcato, cit., p. 323.

[8] Cfr.  Dante Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq  2007, p. 215.