Si sa che le parole, di epoca in epoca, cercano di adattarsi a questo o quel significato, sotto la pressione di altre voci, ma spesso il loro tentativo non riesce a pieno, come in questo caso. Nel vocabolario del Bielli[1] la voce verdë-sécchë significa ‘vanume’ sorta di malattia del grano e altri cereali che fa seccare una parte di essi prima che giungano a maturazione. Anche qui il termine ha cercato e realizzato un adattamento: immaginiamo un campo di grano affetto da questa malattia: vedremo delle chiazze secche sparse qua e là tra altre, forse più vaste, verdeggianti: in questo caso però il termine si è adattato quasi perfettamente alla situazione, anche se esso qui indica non esclusivamente la malattia di per sé, ma come l’intero campo appare agli occhi. Si deve pensare quindi che esso viene da molto lontano, forse prima della diffusione del latino nelle varie regioni italiche, e indicava anche con verde, il significato di rovina, distruzione, malora. Che Dio ci salvi dai molti inganni delle parole!
venerdì 27 dicembre 2019
Una stranissima espressione aiellese: vérdë i missë
Si sa che le parole, di epoca in epoca, cercano di adattarsi a questo o quel significato, sotto la pressione di altre voci, ma spesso il loro tentativo non riesce a pieno, come in questo caso. Nel vocabolario del Bielli[1] la voce verdë-sécchë significa ‘vanume’ sorta di malattia del grano e altri cereali che fa seccare una parte di essi prima che giungano a maturazione. Anche qui il termine ha cercato e realizzato un adattamento: immaginiamo un campo di grano affetto da questa malattia: vedremo delle chiazze secche sparse qua e là tra altre, forse più vaste, verdeggianti: in questo caso però il termine si è adattato quasi perfettamente alla situazione, anche se esso qui indica non esclusivamente la malattia di per sé, ma come l’intero campo appare agli occhi. Si deve pensare quindi che esso viene da molto lontano, forse prima della diffusione del latino nelle varie regioni italiche, e indicava anche con verde, il significato di rovina, distruzione, malora. Che Dio ci salvi dai molti inganni delle parole!
martedì 24 dicembre 2019
Ambiguità di una espressione dialettale.
Credo che in quasi tutti i dialetti abruzzesi ricorra
l’espressione (chë) scì mbìsë! la quale viene solitamente spiegata come che tu sia impiccato! Ma siccome
l’espressione è usata in tono bonario e scherzoso (come tutti sottolineano
nelle loro spiegazioni), ed è rivolta solitamente a qualche ragazzo, essa ha bisogno, a mio avviso, di ulteriori
indagini. Ma perché mai, in effetti,
dall’idea forte di impiccare si passa
ad indicare un qualcosa di molto meno grave? Non mi pare che la frase possa
avere un valore antifrastico e significare che
tu non sia impiccato! Perché semplicemente non avrebbe senso.
Esiste anche l’espressione chë sci mbìsë chi t’à fattë! intesa come che sia impiccato chi t’ha fatto! Sembra un voler far ricadere la colpa di un
comportamento di un ragazzo maleducato sui suoi genitori! Ma anche qui mi pare
eccessiva l’impiccagione richiesta. Io
suppongo, tagliando la testa al toro,
che quel mbìsë non sia il participio passato del verbo mbènnë,
mpènne ‘appendere’, in uso anche a Trasacco-Aq[1],
dal lat. im-pend-ēre ‘appendere’, ma sia la forma dialettale abruzzese
dell’aggettivo lat. in-vis-u(m) ‘inviso,
odiato, odioso, sgradito’, coincidente col participio passato di lat. in-vid-
ēre ‘invidiare, essere mal disposto
(verso qualcuno)’. Nel vocabolario del
Bielli l’aggettivo-participio mpisë significa infatti, oltre ad
‘impiccato’ anche ‘malizioso, briccone, impertinente’. In dialetto il nesso
consonantico –nv- si trasforma in –mm-
per cui da lat. invidi-a(m) si passa a mmìdia e quindi da invis-u(m) si dovette avere *mmisë
e poi mb-isë per influsso
di mpìsë, mbìsë
‘appeso’ dal verbo im-pend-ēre ‘appendere’.
Secondo me, allora, il significato di (chë) scì mbìsë chi t’à fattë doveva significare
all’origine ‘che sia odiato, maledetto chi t’ha fatto’ e successivamente,
usandosi essa in modo incompleto nei riguardi di un ragazzo, il participio mbìsë si caricò di un valore negativo riferito al
ragazzo, tanto è vero che nel Bielli il termine in questione ha anche il
significato, come ho detto sopra, di ‘malizioso, briccone, impertinente’. In diversi dialetti scì è anche la seconda pers. dell’indicativo presente tu sei, sicchè l’espressione poteva anche significare
semplicemente ‘tu sei impertinente, briccone, maleducato’ . Una volta scomparso
dal vocabolario dialettale il lat. invis-u(m) ‘odiato, odioso, malvisto,(maledetto)’ era fatale che la forma
dialettale corrispondente cadesse in braccio a mbìsë ‘appeso’. Destino di un termine!
L’altra
espressione indicante, come la precedente, un blando rimprovero verso un
ragazzo è “chë scì mmallìttë!”, letteral. ‘che tu sia maledetto!’.
sabato 21 dicembre 2019
Un’altra espressione aiellese-abruzzese da conservare come un cimelio: “të chënόscë pirë!”
L’espressione è usata (era usata)
da parte di chi, di fronte a qualcuno che vuole sembrare diverso da come
effettivamente è, esclama ,invece, di ‘conoscerlo bene’. Ma la traduzione letterale dà lo strano ‘ti
conosco pero!’. Cosa c’entra il pero?
Nulla, a mio avviso. Infatti, dietro di
esso, si deve nascondere il gr. perí ‘intorno’, gr. péri,
avverbio-preposizione, talora in anastrofe, anche col significato di molto,
assai, grandemente, in sommo grado. La
radice è la stessa di quella del lat. per ‘attraverso’, usato talora in
anastrofe come nel lat. parum-per ‘per
poco (tempo)’. In latino la preposizione
per,
preposta all’aggettivo, ne formava anche il superlativo in
alternativa alla forma normale col suffisso issimus, a , um. La forma per-ralt-us ‘altissimo, molto alto’, ad esempio, equivaleva ad alt-issim-us
‘altissimo, molto alto’. Quel per-
, insomma, assumeva in questi casi il valore di ‘molto’. Nei molti verbi a cui si premetteva
aggiungeva l’idea di perfezione, completamento, oltre che di durata. Non poteva mancare il lat. per-cognosc-ĕre, lat. per-nosc-ĕre ‘conoscere bene, alla perfezione’
che fa al caso nostro, in qualche modo.
Nel Bielli[1] leggo questa frase: t’ajjë cunusciùtë pérë! rivolta a chi per un po’ di fortuna si fa
grande quando invece era stato abbastanza misero per l’innanzi. Anche qui, secondo me, si esprime lo stesso
concetto di “bene, alla perfezione” con il termine pérë. Solo che ci deve essere stato anche l’incrocio
con un aggettivo *pérë che doveva significare ‘povero’ e che corrisponde alla
seconda parte del lat. pau-per ‘povero’. Secondo i
linguisti, però, questo –per aveva la stessa radice del lat, par-ĕre ‘produrre, partorire’, e l’aggettivo significherebbe ‘che
produce poco’, perché il pau- sarebbe, ed è vero, lo stesso di lat. pau-c-u(m) ‘poco’, lat. pau-l-u(m) ‘poco, piccolo’, gr. paύ-ein ‘smettere, cessare’, gr. paû-r-os ‘piccolo, poco, scarso’. Ma c’è
anche il lat. par-u(m) che secondo
me, non è metatesi dal suddetto gr. paûr-os > lat. parv-u(m) ‘piccolo’ > lat. par-u(m) ‘poco’, ma forma autonoma variante di –per di lat. pau-per ‘povero’ il quale ripeteva
tautologicamente nei due membri il valore di ‘piccolo, poco, scarso’. E questo
conferma quello che ho detto già in altro articolo di cui non ricordo il
titolo. Faccio notare che la radice pau-
è presente anche nell’ingl. few ‘poco, pochi’. La radice par, per col valore di ‘scarso’ credo sia presente
anche nel verbo lat. par-c-ĕre ‘risparmiare’, lat. parc-u(m) ‘parco, moderato, spilorcio, taccagno’ e nel dialettale
(abruzzese-meridionale) pìr-chië ‘gretto, spilorcio,
tirchio’ oppure piérchië da un precedente *pirc-ul-u (m) ‘spilorcio’ o pierc-ul-u(m) (cfr.perfetto lat. pe-perc-i
). In abruzzese abbiamo anche li fiche[2]
‘i faggi’ (non gli alberi del fico, il quale veniva e viene in genere chiamato ficura come il frutto), probabilmente
dal lati. fag-u(m), che in
greco era phēg-όs ‘faggio, quercia’, dorico phag-όs. Io preferisco pensare che si trattasse di forme indipendenti,
che invece erano considerate derivanti l’una dall’altra.
Interessante è l’espressione luchese
a ttì të conoscë da quandë ivë pirë [3]letter.
‘ti conosco da quando eri pero’ per
significare ‘ ti conosco bene, non mi inganni’.
Il Proia riferisce quanto segue per spiegare il significato della frase:
“ (detto del contadino che aveva tagliato un albero di pero perché a lungo
infruttuoso e non aveva alcuna fiducia di ricevere grazie dal crocefisso che
era stato ricavato dal legno di quell’albero)”.
E’ evidente che la frase in questione aveva dato il via, all’epoca
lontana del suo originarsi, ad una storiella in cui l’albero era diventato un crocifisso: in abruzzese pirë significa
‘piolo, cavicchio’ ma anche ‘grosso bastone’[4];
si può pensare allora che un’idea di
”palo” fosse insita in quella voce, idea da cui scaturì il significato di croce , allo stesso modo in cui dal gr. staur-όs ‘bastone, palo’ si ebbe il
significato di ‘croce’. La storiella, con qualche variante, è nota anche nel
napoletano, dove il piro ‘pero’ si trasforma
in statua da tutti pregata tranne dal contadino che
l’aveva conosciuta come pero improduttivo nel suo orto. La statua, secondo l’etimo, è
un qualcosa che si erge dritto: la
parola in latino vale anche ‘colonna’, molto vicina a ‘palo’. Credo che anche
il valore di ‘attraverso’ della radice per abbia contribuito a formare l’idea di traversa, il palo incrociato con quello
di sostegno in una croce. Sempre a
proposito dell’alternanza a/i in
abruzzese faccio notare che ad Aielli-Aq, il mio paese, esisteva il termine parë
‘paletto’ (ribadito nell’abr. par-acchi-àtë[5]
‘bastonatura’) che si usava soprattutto come sostegno delle viti. Si dirà che questa forma sia un allotropo di it.
palo
, dato il frequente scambio l/r nei
dialetti, ma sta di fatto che nel nostro dialetto esiste anche palë ‘palo’;
che quest’ultimo sia antichissimo è dimostrato , a mio avviso, dalla
palatalizzazione della –l- di questo vocabolo nel dialetto di Luco dei
Marsi, dove si ha pajë ‘palo’. La palatalizzazione è fenomeno antichissimo,
addirittura prelatino.
Ora
che ci penso, anche l’infruttosità
dell’albero del pero nell’aneddoto citato è un altro aspetto del concetto di
“avarizia, scarsezza, spilorceria, povertà’ insito nella radice per,
perc,
par, parc, di cui sopra, e nella frase
abruzzese del Bielli più sopra citata: t’ajjë
cunusciùtë pérë! diretta a chi si vantava e si fa grande per un po’ di
fortuna senza ricordarsi di quando se la passava invece male; questo è la
conferma che tutti i racconti mitici o leggendari sono il risultato
dell’incrociarsi delle radici fondamentali di ogni racconto con altre uguali o
simili avvenuto nel corso dei millenni precedenti.
L’it. par-ecchio deve essere un prodotto della stessa radice di
cui sopra col valore iniziale di ‘poco, non molto, pochi, non molti’, ma che,
come l’ingl. a few ‘qualche, alcuni’ se preceduto dall’avverbio quite
‘completamente, addirittura, proprio, ecc.’ assume il significato di
‘parecchi (cfr. a few people ‘poca gente’
ma quite a few people ‘molta gente, un bel po’ di gente’) così esso è
passato da ‘qualche, qualcosa, qualcuno’ al significato di ‘una qualche
quantità, una certa quantità, una più
che sufficiente quantità di uomini o cose’.
C’è chi sostiene che par-ecchio sia dal lat. par-e(m) ‘pari, paio’ pensando, forse, al ted. Paar ‘paio, coppia, che
ha anche il valore di ‘alcuni’, come in ein paar Tage ‘alcuni giorni’. Ma in
questo caso , secondo me, o si è avuto un incrocio col germanico bar ‘nudo,
scoperto’, ingl. bare ‘nudo, scoperto, scarso, sprovvisto, povero’ o, all’origine,
paar
significava ‘poco’ incrociatosi con ted. Paar ‘paio’, proveniente forse
da antica data dal latino. A me sembra che
anche l’ingl. pare ‘spuntare, pareggiare, sbucciare, pelare, assottigliare,
ridurre’ ricondotto, attraverso il francese, al verbo lat. par-are ‘preparare, adornare’
sia invece una forma della radice
di cui si discute: soprattutto il significato di ‘sbucciare’ non riesco
a farlo rientrare in quello di ‘adornare’ bensì in quello di ‘denudare,
spogliare’ dell’allotropo ingl. bare ‘nudo’. Certamente sarà avvenuto l’incrocio col medio francese par-er ‘preparare, ornare’.
Anche
l’it. par-eggiare nel significato, ad esempio, di pareggiare
l’erba d’un prato credo che debba ricondursi al significato iniziale di ridurre, tagliare prima che si incrociasse con il lat. par-e(m) ‘pari’, come
nell’ingl. pare the nails
‘spuntare le unghie’, ad esempio.
Ma non
ho finito. In greco esiste l’aggettivo pēr-όs ‘ storpio, mutilo, privo di qualche organo o senso’ (sostantivo:
pêros,
eolico pȃros) che doveva avere il significato di fondo di ‘manchevole,
monco, privo, debole, scarso, difettoso’ e quindi passibile di rientrare nel
concetto di ‘povero, impotente, ecc.’.
Ma non
ho finito. E’ straordinario! Nel
dialetto di Gallicchio-Pz si incontra l’espressione scì péra pérë ‘barcollare’,
letter. ‘andare pera pera’[6]. Che cosa è questo pera pera? Secondo me si tratta della stessa radice del gr. pēr-όs di cui sopra dal significato di
‘storpio, manchevole’ e quindi il significato originario della frase
gallicchiese doveva essere ‘andare, procedere da storpio, ciondolando’ (la
ripetizione di uno stesso aggettivo o avverbio è comunissima nel linguaggio
soprattutto dialettale e parlato, come ad esempio nelle espressioni ricchë ricchë
‘molto ricco, ricchissimo’, léstë léstë ‘molto lestamente,
lestissimamente’). Il composto greco pēro-mel-ḗs vale, infatti, ‘rilasciato nelle
membra (mélos=membro)’, esso è quindi
prossimo al valore di ‘con le membra ciondoloni, flosce, cascanti’. Non si scappa. La radice in questo caso equivaleva al
concetto di “dinoccolato”, quasi spezzato,
rotto nelle membra, allo stesso modo
in cui un frutto molto maturo si corrompe, si disfa, si guasta: questo è il motivo per cui il lat. per-coqu-ĕre secondo me aveva all’origine
il significato di ‘rendere morbido, molle, maturo’ (il cibo) in ciascuno dei
due elementi tautologici (per- e coqu-). Ma, una volta scomparso nella coscienza del parlante
questo significato originario di per, non mantenuto con chiarezza
nella lingua, il valore durativo o perfettivo di per ‘attraverso’ subentrò
al suo posto. La cosa è confermata dal lat. per-ire con i suoi vari significati di ‘perire, andare in malora o in
rovina, scomparire, disfarsi, morire’ che traevano la loro linfa dal
significato primordiale di ‘divenire maturo, fatto, sfatto, marcio, guasto’. Allora
il lat. per-ire non è altro
che la versione latina, appunto, di un antico italico ire per, con l’aggettivo-avverbio in anastrofe. Naturalmente a Gallicchio pensano che
l’espressione derivi proprio dal frutto della pera , che quando è matura cade facilmente, come una pera
cotta, come si dice appunto, nel senso di mela morbida, maturata dal sole. Esiste a Gallicchio anche
l’altra espressione sta péra pérë ‘sta malissimo,
gravemente ammalato’, “sul punto di cadere come una pera dall’albero” chiosa,
un po’ artificiosamente, la curatrice del dizionario dialettale di
Gallicchio. Anche qui io vedrei dietro
l’espressione sempre la stessa radice che indicava il disfarsi dei frutti e, figurativamente, degli uomini. Usiamo anche oggi l’espressione è
cotto riferendoci ad un uomo stremato
e distrutto.
E’
curioso, ma il lat. pir-u(m) ‘pera’
veniva quasi a coincidere con questa radice per ‘morbido, molle, maturo’,
comunque sta di fatto che le pere mature cadono dai rami più
facilmente di altri frutti maturi.
With this paper I think I’ve outdone myself!
[1] D.
Bielli, Vocabolario abruzzese,
A.Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004
[2] Cfr.
Bielli, cit.
[3] G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche
Cellini,A vezzano-Aq, 2006
[4] Cfr.
Bielli, cit.
[5] Cfr.
Bielli, cit.