giovedì 13 maggio 2010

La musa Calliope

Le muse, inizialmente tre secondo Pausania, ma probabilmente anche una sola (nell’Odissea è una sola, ma nel canto XXIV diventano nove), nella mitologia greca rappresentano, come sappiamo, le divinità protettrici delle arti e di ogni opera del pensiero e della scienza. Il greco moũsa ‘musa’ è giustamente ricondotto alla radice men di lat. mente(m) ‘mente’, ad esempio, radice di cui abbiamo messo in evidenza, nei post precedenti, i vari significati promananti dalla sua idea di base di ‘movimento, agitazione, emanazione, espansione, ecc.’ che poteva concretizzarsi anche nell’idea di ‘monte’; e in effetti un’altra proposta etimologica per il greco moũsa vuole ricollegare la parola all’idea di ‘monte’, probabilmente perchè esse vivevano sull’Elicona, monte della Beozia. Solo che queste proposte che i linguisti presentano, contrapponendole di solito nettamente le une alle altre, sono in realtà, secondo il mio modo di vedere le cose, ugualmente valide perchè la radice appare in epifanie sì diverse, ma tutte tenute insieme dal loro significato generico di fondo. La voce moũsa quindi si inserisce bene nell’ambito della radice di messa che io ho riportato, nell’aticolo precedente, al valore di ‘luce, alba’, e poteva altrettanto bene esprimere proprio il concetto di ‘ispirazione, spirito, divinità (ispiratrice)’. La musa Calli-ope era invocata dai poeti epici. Il suo significato di superficie è quello di ‘(musa) dalla bella (calli-) voce(-ope)’ ma quello un po’ più profondo deve ricondursi nel primo membro al gr. kalé-o ‘chiamare’, ted. Hall ‘suono’, sicchè l’intero epiteto si scioglie nel solito composto tautologico che all’origine indicava il canto dell’aedo o della stessa musa che parlava attraverso di lui.
Questa più che legittima interpretazione non può che rafforzarsi quando si viene a sapere che l’epiteto era riservato anche alla ninfa Eco, la quale veniva chiamata anche gēru-gónē ‘figlia (gonē-) del suono (gēru-)’. Il secondo membro -gónē è variante del diffusissimo –genés, incontrato nel post precedente con valore di ‘luce’, che rispunta nel dan. gen-lyd ‘eco’ in cui -lyd significa appunto ‘suono’ (cfr. ted. Laut ‘suono’) e gen- è un prefisso corrispondente all'it. re- esplicante varie funzioni tra cui quella della ripetizione di un'azione (qui: ri-mbombo, ri-echeggiamento) . La radice deve essere la stessa dell'ingl. to be-gin (be-gan,be-gun) 'cominciare' e deve aver contenuto anche l'idea di 'movimento, avvio'. Sicchè a me pare che da questi esempi si possa ricavare una concatenazione semantica molto semplice come: movimento> produzione>generazione> emanazione> irraggiamento>propagazione sonora. Anche l’idea di bellezza dell’elemento kalli- credo debba essere inclusa nel concetto di ‘irraggiamento, luce, luminosità’.
Ritornando al concetto di ‘ispirazione’ vediamo che il greco ci presenta l’aggettivo én-theos ‘ispirato’ che viene solitamente inteso, e gli stessi Greci intendevano, come ‘che ha dentro di sè un dio (-theos)’. Oggi l’etimo più in auge per the-ós ‘dio’ rimanda al significato di ‘spirito’ e allora sarebbe bene intendere il significato originario dell’aggettivo suddetto semplicemente come ‘ispirato’ senza tirare in ballo il concetto di ‘dio’. D’altronde questo nome sarebbe potuto anche scomparire ed essere sostituito da altri nella lingua greca, non facendo in questo caso pesare la sua presenza sul significato dell’aggettivo in questione. Io credo che l’ ispirazione stessa si configuri come qualcosa di spirituale e di divino di per sè: essa è una forza che è sentita dentro di sè dall’uomo delle origini, che costituisce la sua anima la cui natura invisibile è la stessa di quella o di quelle che animano la realtà circostante e successivamente le sue divinità: questa coincidenza tra le due entità, quella umana e quella della natura (con i suoi dei) fa sì che, una volta attuata la separazione nella mente dell’uomo primitivo tra il proprio mondo umano e quello sovannaturale degli dei, gli fa credere che dentro di noi, o alcuni di noi (poeti, profeti, indovini, sacerdoti), scenda talora come dono celeste la parola divina, che era per così dire già sua prima che egli creasse l’Olimpo e i suoi dei.
Nel vocabolario abruzzese di Domenico Bielli si incontra una strana parola: ‘ntusїasme ‘enfiato prodotto da colpo di frusta’. Ognuno può notare la perfetta corrispondenza del termine con l’italiano entusiasmo, ma può esistere un rapporto di somiglianza tra di loro e tra i loro significati? Sappiamo che l’italiano entusiasmo è pari pari il greco enthousiasmós ‘entusiasmo, ispirazione, divino trasporto, frenesia, furore’ costituito dallo stesso aggettivo éntheos di cui sopra (o meglio enthousí-a ‘ispirazione divina’) e dal suffisso -asmós . Ora, secondo me le possibilità sono due. Il significato di ‘gonfiore’ del termine abruzzese citato può avere come etimo o il furore, la forza, l’energia insita in una frustata oppure nella spinta, la forza, la tensione che fa sollevare la pelle a formare un rigonfiamento, cioè in altri termini nell’idea stessa di ‘gonfiore’, il quale è sempre il prodotto di una forza, sia quella del fiato che gonfia un palloncino o quella endogena che produce un tumore, un bernoccolo, un’escrescenza. A quest’ultima mi pare più naturale avvicinare la voce abruzzese, la quale, dunque, trasforma in qualcosa di concreto (il gonfiore della pelle) tutta la forza insita nell’aggettivo greco én-the-os ‘pieno di spirito’ che non si era allontanato, per il significato, dall’ambito spirituale. Ma la voce abruzzese sta lì a testimoniare che nei trascorsi preistorici di én-the-os c'era stato anche un significato fisico del termine. Esso fu portato tra di noi da qualche popolazione preistorica greca o di lingua greca (non si potrebbe spiegare altrimenti il radicamento di alcuni chiari termini greci nei toponimi come la voce anatolia per 'sorgente' nella Marsica) la cui presenza è largamente attestata nell'Italia centro-meridionale e anche in quella settentrionale da indizi e prove diverse, non ultima quella biologica di Cavalli-Sforza basata sull'esame di campioni di sangue.
Il Bielli mette a lemma anche l’aggettivo ‘ntusecùse ‘iroso, modace’ (diverso dalla radice di ‘ntussecà ‘attossicare’, da tossico) la quale mi sembra sfruttare, attraverso un originario *enthous-ikós, la stessa radice di enthousí-a ‘ispirazione divina’ mettendone però in mostra solo l’aspetto del furore e dell’impeto che l’accompagnava.
La radice di –the-os di cui andiamo discutendo mi pare variante di quella della grande famiglia di gr. thú-ō ‘ infurio, mi agito, imperverso’ da cui thum-ós ‘spirito, animo’.
Alla luce del meccanismo dei composti tautologici i termini greci come mouso-manés 'fanatico per la musica o le muse', mouso-mantis 'che vaticina col canto' indicavano all'origine solo lo stato di ispirazione o eccitazione o la persona in quella condizione: solo col tempo questi composti hanno assunto le specificazioni che mostrano. Del resto i due membri sono costituiti da varianti della stessa radice o, meglio, da ampliamenti diversi della base originaria me-, ma- . Il termine gallurese missa-manu ' rimprovero, rabbuffo, ramanzina', composto delle stesse radici o varianti, potrebbe contenere dentro di sè il risentimento o il ribollire proprio del termine italiano fervorino di identico significato. Cfr. nel post precedente il sardo mis-one, miss-one 'fermento, lievito'.
A proposito di gen-lyd 'eco' sopra citato, mi pare di poter individuarne una variante nell'espressione idiomatica inglese to blow great guns 'fare burrasca, soffiare un vento tempestoso', letter. 'soffiare grandi cannoni' che trova a mio parere un lampante riscontro nell'espressione greca usata da Eschilo (Coefore, 1065) gonias kheimon ' vento (kheimon) violento, favorevole, ecc.', tradotta in vari modi a seconda delle interpretazioni della radice di gonias incrociatasi con quella di genos 'genere, generazione', ma che all'origine, quasi certamente sconosciuta già ad Eschilo, doveva avere un significato essenzialmente tautologico rispetto a kheimon 'vento, tempesta'.

lunedì 10 maggio 2010

Ite, missa est

La formula latina di congedo, pronunciata un tempo dal sacerdote al termine del rito della Messa, ha dato e dà tuttora filo da torcere ai filologi e storici del cristianesimo che hanno spuntato le loro penne facendo scorrere fiumi d’inchiostro nel tentativo di venirne a capo; ad alcuni dei quali, come ad Antonino Pagliaro, non sarei forse degno, usando un'espressione forte, nemmeno di legare i lacci delle scarpe per quanto attiene alla conoscenza della materia; egli nell’opera Altri saggi di critica semantica, ediz. G. D’Anna, Messina-Firenze, 1961, pp. 129-182, scioglie l’espressione, districandosi egregiamente tra la vasta bibliografia, in ‘Andate, (l’eucarestia) è stata inviata (agli assenti e alle chiese vicine)’: al tempo delle persecuzioni si usava così. Io, non potendo sciorinare tutte le risorse di un bagaglio culturale da maestro, posso solo sperare che le mie poche frecce a disposizione colpiscano, come quelle di Artemide, con tale forza e precisione da lasciare la preda riversa sul terreno a scalciare con i piedi in aria e chi guarda col fiato sospeso.
Ripartendo dal post precedente cerchiamo di analizzare accuratamente con lo specillo il lat. galli-cin-iu(m) ‘canto del gallo, alba’. Riflettendo sui possibili rapporti tra il membro –cin- e i diversi termini luminosi con la stessa radice citati nell’articolo precedente, comincia a balenarmi nella mente la possibilità che il significato di ‘alba’ del vocabolo in questione possa essere scaturito non per semplice metonimia, con l’estensione del significato dal ‘canto del gallo’ al periodo del giorno in cui esso canta per la prima volta dopo la notte, ma per il fatto che la radice poteva avere dietro di sè un significato diverso da quello canoro con cui si presenta a noi nella lingua latina (cfr. i composti di can-ere ‘cantare’ come con-cin-ere ‘cantare insieme, essere d’accordo’, celebrare’) che giustificava anche il significato luminoso di 'alba'. Ed abbiamo visto, sempre nel post precedente, come due idee diverse di ‘luce’ e di ‘vibrazione, movimento’ si riannodino in quella sovraordinata di ‘emanazione’. In altre parole, è solo l’abitudine, per il parlante latino, ad annettere costantemente al termine quel significato specifico composto di due concetti diversi, quello di ‘gallo’ e quello di ‘canto’, a far credere a lui e a noi che il termine fosse nato proprio e solo per questo scopo. Ma noi che seguiamo il principio saussuriano che non mi stancherò mai di ricordare (si vedano i post precedenti) vigiliamo con le orecchie tese e gli occhi ben aperti perchè diamo ormai per scontato che nelle parole si sia attuata nel corso del tempo una sorta di eterogenesi dei fini, per la quale bisogna andare molto spesso a cercare dietro i significati specifici di arrivo quelli molto più generici di partenza. Così a mio avviso si deve riconoscere che, nel caso del nostro vocabolo, ci sia stata una fase temporale in cui esso non ancora significava nè ‘canto del gallo’ nè ‘alba’ ma qualcosa come ‘ vibrazione, forza, spirito, essere vivente’ in ambo i membri (cfr. la radice kyn per ‘cane’ in greco e quella di ted. Huhn ‘pollo, gallina’, ted. Henne ‘gallina’). Pertanto non posso vedere di buon occhio la radice che i linguisti scorgono nel ted. Hahn ‘gallo’, cioè quella di lat. can-ere ‘cantare’ a meno che non se ne estenda il significato sino a comprendervi anche quello di lat. can-(um) ‘bianco, argenteo, biondeggiante’, il quale, quindi, non ha alcun bisogno di essere riportato alla voce casnar ‘vecchio’ dei dialetti sabellici. Di conseguenza anche il gr. ēї-kan-ós ‘gallo’, letter. ‘che canta all’alba (ēї-)’ va inteso come composto tautologico che all’origine poteva indicare anche solo l’alba insieme con il parallelo termine dell’a. ind. usa-kala ‘gallo’, letter. ‘che chiama(cfr. sscr. kal-as ‘sonoro’) all’alba (usa-)’, il cui secondo membro si è incrociato con gr. kalé-o ‘chiamare’, a. a. ted. hal-on ‘chiamare’, ted. Hall 'suono'. L’ingl. to call ‘chiamare’ evidentemente rimanda ad una variante della radice precedente che si incontra, ad esempio, nel ted. gell ‘sonoro’, variante a sua volta di ted. hell ‘chiaro, luminoso, sonoro, acuto’, nell’a. slavo gla-gol-iti ‘parlare’ che presenta il raddoppiamento –gol-. Queste voci per ‘gallo’ riconfermano il sacrosanto principio che la nominazione, all’origine, non obbediva alla volontà di indicare le funzioni o le caratteristiche, più o meno ornamentali, del referente da esprimere, ma unicamente alla indicazione del referente in sè. Poi, strada facendo, si direbbe che siano spuntati come funghi i significati più vari, a causa degli incroci con altri termini che del resto provenivano in genere dalla stessa radice col suo significato generico d’origine. Date queste corrispondenze come poteva, di grazia, il ‘gallo’ non diventare in Grecia sacro al sole? (cfr. R. Graves, I miti greci, Ediz. CDE spa, Milano, 1985, p.138). Per di più il suo nome usuale alek-trýōn, alék-trōn, alék-tōr non è molto diverso da gr. ēlék-tōr ‘raggiante, splendente’ e anche, come sostantivo,‘sole’.
Ora, si dà il caso che nella lingua spagnola si incontri l’espressione misa de gallo ‘messa di mezzanotte di Natale’ che nelle Filippine, le quali hanno conosciuta la dominazione spagnola, può durare fino all’alba. La missa de puddu (logud.) in Sardegna ha lo stesso significato dell’espressione spagnola, per cui si pensa che quella sarda ne sia un semplice calco, data la presenza storica degli spagnoli in Sardegna (cfr. Cortellazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998, sub voce). Ma la questione non è così semplice, perchè in sardo esistono vocaboli come im-pudd-ile (logudorese), im-podd-ile (nuorese) che significano ‘alba’ e che contengono al loro interno la voce puddu ‘pollo, gallo’ la quale però, come ho estesamente spiegato nel post Parole sarde del Duls (giugno 2009) a cui rimando, doveva aver avuto in tempi remotissimi il significato di ‘alba’, non potendo quest’ultimo d’altronde derivare, come ho in quel luogo mostrato, dal significato di ‘pollo, gallo’ a cui essa fa riferimento in superficie. Si incontra anche la forma puddile(s) (logudorese) che, oltre al significato di ‘alba’, ritiene anfibologicamente anche quello di ‘pollaio’. Allora si deve rigorosamente dedurre che la missa de puddu (l'espressione ricorre più o meno in tutta l'isola: cfr. messa di puddu in sassarese, miss'e caboni in campidanese), designando la messa di Natale che poteva arrivare in alcuni casi anche all’alba, non può mettersi in rapporto con l’espressione spagnola, anche perchè esiste nella tradizione liturgica una messa dell’alba di Natale diversa da quella di mezzanotte. Seguendo sempre la stessa linea di rigoroso ragionamento si deve dedurre che se la voce puddu va sistemata in qualche lingua del lontanissimo passato, allora anche la voce missa, ad essa legata a filo doppio, può avere un significato credibile solo se la si riconduce ugualmente ad una civiltà sfumante nella preistoria, soprattutto perchè nel periodo di tempo intorno al solstizio d'inverno non mancavano, presso tutti i popoli preistorici, feste religiose con relative cerimonie e usanze rituali che avrebbero potuto facilmente trasferire alla sopravveniente religione cristiana tratti della loro mitologia, non esclusa qualche parola sacra o qualche formula. E' un fatto, poi, che la voce puddu da sola non conserva in nessuna parlata sarda il significato di 'alba' bensì solo quello di 'pollo, gallo' che dovette oscurare l'altro significato probabilmente con l'arrivo del latino nell'isola, ben in anticipo rispetto alla diffusione in essa del cristianesimo e della parola messa della relativa funzione religiosa. A mio avviso anche qui, come per il caso simile di lat. galli-cin-iu(m), ci troviamo di fronte a venerandi reperti di parole preistoriche che avevano lo stesso significato di ‘alba, aurora, sorgere del sole’ e che nella lunga marcia per arrivare fino ai nostri giorni hanno dovuto far salire sul loro carro qualche altra parola con altri significati . Il ‘gallo’ della spagnola misa de gallo deve essere pertanto comparato con le radici luminose più sopra citate.
Illustri studiosi affermano che la festa cristiana del Natale andò a sovrapporsi ad antichissime e spettacolari celebrazioni pagane legate al ciclo del sole e al solstizio d’inverno. La gente durava fatica a staccarsi completamente da esse e pertanto la Chiesa, nella sua saggezza, attuò una politica di compromissione mirante al sincretismo e sembra certo che spostò a quella data la grande ricorrenza della nascita di Cristo, “preoccupata dalla straordinaria diffusione dei culti solari e soprattutto dal mitraismo che, con la sua morale e spiritualità non dissimili dal cristianesimo, poteva frenare se non arrestare la diffusione del Vangelo” (cfr. Alfredo Cattabiani, Calendario, Ediz. Mondolibri spa, Milano, 2003, p.70). Sembra, secondo alcuni, che la forma a raggiera dell’ostensorio, sia un chiaro simbolo del sole. D’altronde non si trattava di un accostamento innaturale perchè a partire dall’Antico Testamento Gesù veniva preannunciato dai profeti come Luce e Sole e nei primi secoli del cristianesimo il fatto era abituale come ci attesta l'apologeta Tertulliano: “Altri [...] ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perchè è un fatto notorio che noi preghiamo orientati verso il sole che sorge e che nel giorno del Sole ci diamo alla gioia, a dire il vero per una ragione del tutto diversa da quella dell’adorazione del sole” (cfr. Cattabiani, cit. pp. 70-71). Il giorno del Sole è quello che poi sarà chiamato dominica 'domenica' in onore del Signore anche se esso è rimasto consacrato al Sole nelle lingue germaniche (cfr, ted. Sonn-tag, ingl. sun-day, letter. ‘giorno del sole’) , giorno in cui si rinnovava il servizio divino della Santa Messa collegata in qualche modo a riti in onore dell’astro della luce diurna. Così stando le cose era inevitabile che, anche al livello del rito, avvenissero contaminazioni sincretistiche tra le vecchie formule e le nuove. Pertanto la mia idea è che la formula di congedo Ite, missa est ne continuasse una precedente al cristianesimo (probabilmente già fraintesa e abbastanza oscura per gli stessi pagani dediti al culto del Sole, i quali potevano averne elaborato comunque il senso erroneo di messa come ‘cerimonia religiosa’, o qualcosa di simile), con il valore originario di “Andate, è l’alba’, espressione pronunciata dall’officiante nel contesto dell’uso diffuso, non solo nell’ambito del cristianesimo, di attendere in veglia lo spuntare del nuovo e risorto Sole, dopo l’apparente sua morte protrattasi nei giorni 22, 23, 24 dicembre quando esso sembra arrestare la sua corsa nel cielo senza andare nè avanti nè indietro, subito dopo il giorno del solstizio (21 dic.). Anche presso i romani la vigilia 'veglia religiosa' era molto diffusa almeno per le festività maggiori. La formula così segnava la fine del rito e nel contempo infondeva un un senso di conforto ed ottimismo nell'animo di coloro che agli albori dell’umanità potevano veramente credere che la divinità potesse abbandonare gli uomini nel freddo, nel gelo e nella disperazione. Potè verificarsi che questa formula fosse mantenuta intatta per dare la sensazione, agli adepti della nuova religione e sopratutto a quelli che esitavano ad abbracciarla, che in fondo si trattava del vecchio rito se esso si concludeva con le stesse parole di prima. E’ certamente una singolare coincidenza quella della Santa Anastasia, che la Chiesa venera il 25 dicembre, e che, sin dai primi secoli (III-IV sec.) del cristianesimo, aveva una basilica sul Palatino, dove si celebravano tre messe e la seconda (alba) era dedicata alla Santa. Gli è che il termine aná-stasis, da cui deriva il suo nome, in greco significa 'il sorgere, il risveglio', e può così riferirsi direttamente alla resurrezione del Sole del 25 dicembre.
Il significato di ‘alba, luce’ della parola misa, missa (non può essere accettata la spiegazione che si basa sul tardo latino missa ‘il lasciare andare’ per la sua banalità: il tutto significherebbe infatti ‘Andate, questo è il congedo’) ci è garantito, oltre che dal ragionamento sopra seguito, anche dal nome di un gioco che in passato era comune nel paese di Cerchio-Aq e che era chiamato mesa-luna, letter. ‘mezza luna’, il classico gioco di testa e/o croce (cfr. Fiorenzo Amiconi, La zurla, Museo civico di Cerchio-Aq, Anno VIII 2005, Quaderno 61, pp. 30-31). Senza stare a descrivere i dettagli del gioco, esso consisteva essenzialmente nel lanciare in aria una moneta imprimendole un moto rotatorio e nello scommettere quale faccia della moneta stesse rivolta verso l’alto una volta ricaduta a terra. Ora, il significato apparente di mesa-luna ‘mezzaluna’ non ha senso alcuno nel contesto, ma se si pon mente al fatto che la moneta è legata alla dea della luna Giunone che d’altronde aveva l’appellativo di Moneta come abbiamo visto nel post precedente , allora si potrà capire che il valore originario dell’espressione poteva riguardare in ambo i suoi membri la moneta stessa, e il suo roteare nell’aria alludeva probabilmente al corso della luna in cielo e al variare della sua faccia nel giro del mese, da sempre metafora del mutare incessante della Fortuna e dell’umore negli esseri umani a tal punto che essi, sotto questi influssi celesti, potevano diventare anche folli: cfr. ingl. lunatic ‘pazzo, squilibrato’. Il nominativo dorico mēs, ionico meís ‘mese, luna’, gen. mēn-ós non è detto che provenga dal supposto *mēns ma può essere un autonomo ampliamento della radice - come anche il sscr. mās, mās-as ‘luna, mese’. Si incontra in sardo la voce mis-one (logud.) ‘fermento, lievito’, variante di miss-one (nuor.) ’fermento, lievito’ la cui idea di 'fervore' è molto simile a quella dello ‘scintillio’ . A queste voci collegherei anche il serbo-croato misao 'pensiero' (concetto che nel post precedente abbiamo visto espresso dalla radice men usata per 'luna' e 'mente') e i termini piemontesi misun-éra, meisunì-ara ‘lucciola’, letter. ‘mietitrice’, che ci riporta più direttamente alla luce. Notizia molto interessante, nell'ambito del gioco della mesa-luna, è quella che l'Amiconi ci fornisce con l'espressione testa o vacca, la quale sostituiva la universalmente nota testa o croce. E' facile notare, per chi ha frequentato il liceo classico, che la vacca era l'animale sacro a Era-Giunone e che uno degli epiteti di questa divinità suonava in greco bo-opis 'dagli occhi bovini'. Sarebbe in verità meglio intendere l'aggettivo come 'dalle fattezze di vacca' perchè nella forma di questo animale veniva probabilmente rappresentata la dea in una remota fase teriomorfa del culto. Nelle monete coniate, già dal VII sec. a. C., nell'isola di Samo, dove esisteva un famoso tempio di Era, compariva l'immagine di una vacca. Non è pertanto fuori luogo supporre che la moneta che avrà dato il nome al gioco della mesa-luna a Cerchio, in epoca da definirsi (ho l'impressione che l'inizio della monetazione nel Mediterraneo debba essere di molto retrodatato), portasse impressa in una faccia la figura della vacca e nell'altra la sua testa o quella antropomorfa della divinità. E' certamente curiosa la corrispondenza tra il nome del monte Kerk-is, il più alto della catena del Kerk-eteus che attraversa per il lungo tutta l'isola di Samo, e la base del toponimo Cerchio da Circ-ulu(m), per il quale rimando al post Il nome del paese di Cerchio (luglio 2009).
Il Pagliaro ha forse compiuto il tentativo più serio, consapevole e articolato per aprire il senso nascosto della formula suddetta con gli strumenti della linguistica tradizionale, ma naturalmente non poteva sfruttare i mezzi, semplici eppure profondi, che mi sono con dovizia offerti dalla mia certamente non canonica visione dei fenomeni linguistici. Sta ad altri, naturalmente, confermarne la validità, che a me sembra, senza falsa modestia, scontata. E’ essenzialmente l’enorme elasticità del significato di fondo della parola, a mio avviso incontrovertibile, che va a scompigliare, con l’effetto di un improvviso turbine tempestoso, quasi tutte le carte e le regole del gioco fissate da alcuni secoli di linguistica cosiddetta scientifica, la quale peraltro annovera studiosi il cui solo nome suscita in me, nonostante tutto, una sorta di timore reverenziale.

martedì 4 maggio 2010

La luna e la luce

Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
tra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care
mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
sembianze agli occhi miei;
(G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo,1822)



E’ dolce ricordare questi tersi teneri delicati versi con cui il Leopardi descrive, per bocca della furente disperata ardente Saffo e con tocchi da finissimo maestro, lo svanire della notte con la luna che lieve tramonta e cede pudibonda il passo, nel silenzio attonito della selva, allo spuntar della stella del mattino, Venere, mentre mi accingo a indagare con rinnovato slancio i significati di vari vocaboli per ‘luna’. Speriamo sia di buon auspicio.
Mi ha sempre lasciato dubbioso il fatto che tutti i linguisti attribuiscono ad una radice -, ‘misurare’, ampliata in modi diversi, l’origine dei molti termini germanici, e non solo, per ‘luna’ come ingl. moon, ted. Mond, a. a. ted. mano, got. mena, gr. mene, pers. maneg ‘luna’. Il loro ragionamento probabilmente parte dalla considerazione che in queste lingue non esiste una radice simile alla precedente per ‘brillare’ e che quindi la ‘luna’, già dall’origine, sia stata considerata, in questo caso, come ‘colei che misura il tempo delle stagioni’ col suo ciclo mensile. Infatti la stessa radice serve ad indicare spesso anche la nozione di ‘mese’ come in lat. mens-is, gr. men, ingl. month, ted. Monat. Questa considerazione, però, mi sembra abbastanza innaturale. Anche a voler ammettere che la misurazione del tempo sia iniziata quando l’uomo cominciava ad elaborare lo strumento del linguaggio, non si può da questo inferire che egli l’abbia vista, la luna, per la prima volta come una misuratrice trascurando la registrazione della sua natura che è quella di essere la più luminosa tra le tante facelle della notte! E in effetti tutti i termini che io conosco per ‘luna’ fanno capo alla nozione di ‘luce, luminosità’ e simili: cfr. lat. luna da* luc-na, *louk-s-na (cfr. lat. lucem ‘luce’), gr. seléne ‘luna’ da sélas ‘splendore, raggio, scintilla’, sscr candrama ‘luna’ (letter. ‘la lucente’, cfr lat. cand-idu(m) ‘candido, lucente, splendente’), a. slavo luča ‘raggio, luna’, gr. mod. phéggari ‘luna’ da phéggos ‘splendore’, alban. ghego hane ‘luna’ da gr. gános ‘splendore’, alban. hënë ‘luna’. Con questo quadro di riferimento, per quanto limitato, mi sento più che sicuro nel supporre che tutti gli altri innumerevoli appellativi per ‘luna’ nelle varie lingue e dialetti sparsi su tutta la terra debbono rimandare all’idea primordiale e costitutiva dell’astro, visto senz’altro con disinteressato stupore dai primi uomini parlanti, anche quando il significato apparente dovesse essere diverso a causa dei sempre facili incroci della radice originariamente luminosa con quella di parole con altri significati. In questo modo si confermerebbe anche l’assunto, più volte ricordato, secondo cui la lingua nomina i referenti chiamandoli per quello che sono e non per le funzioni che potrebbero svolgere, anche se importanti.
Una spina nel fianco alla tesi comune è rappresentata, a mio avviso, dal pers. mahnaksplendere della luna’, termine che ci spinge pertanto a trovare una soluzione diversa al problema etimologico della radice la quale doveva inquadrarsi così nell’ambito delle tante altre indicanti la ‘luce’ e lo ‘splendore’. Mi viene in mente l’epiteto esiodeo (cfr. Esiodo, Teogonia, 426) muno-genés ‘uni-genita (-genés)’ riferito ad Ecate, divinità della luna, chiamata talora anche Munikhía, simile a pers. maneg ‘luna’ e alle scintille chiamate in italiano monach-ine. Ma perchè mai questa divinità lunare, con poteri in cielo, in terra e in mare, doveva essere una ‘figlia unica’, come ribadisce più volte Esiodo, anche se, nata da Perse ed Asteria, doveva avere fratelli e/o sorelle, dato che secondo altre tradizioni i suoi genitori avevano avuto altri figli? Quale ne possa essere la motivazione profonda è inutile sperare di saperlo andando a scrutare tra le pieghe del mito che in questo caso, come nella maggior parte degli altri, è pronto a contraddirsi e a disperdersi in tanti rivoli. L’unica via che ci possa aprire un pertugio ed illuminarci è costituita dall’analisi dei nomi stessi. Ecate è figlia di Asteria la cui radice allude chiaramente alla luce dei corpi celesti. Asteria era a sua volta figlia di Febe (Phoíbe ‘splendente’), fondatrice dell’oracolo di Apollo a Delfi, che poi donò al nipote Apollo, divinità nota a tutti con l’appellativo di Phoíbos (Febo)‘splendente’. Tutto ruota intorno al concetto di ‘luce’ e allo stesso modo della falena che ne è attratta irresistibilmente noi dobbiamo insistere su questa linea interpretativa a costo di perderci anche nelle mere supposizioni. Ma ho fiducia che questo non accadrà, perchè è possibile trovare il bandolo di tutta la matassa.
Ritornando all’epiteto mouno-genés, mono-genés mi balza agli occhi la somiglianza del secondo costituente con le voci albanesi sopra citate hane, hënë ‘luna’ dal gr. gános ‘splendore’ (cfr. O. Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, presente in rete) e allora non resta che prendere atto, secondo me, del fatto che anche qui ci troviamo di fronte ad uno dei tanti composti tautologici col medesimo significato di ‘luce, luna’ in ambo i membri. Per il significato nascosto sotto a –genés si confronti il turco gűnes ‘sole’, l’arabo ganni ‘rosso’, l’espressione greca (Alessi, IV sec. a.C.) kýnes Hephaístu ‘scintille’, letter. ‘cani di Efesto’ cioè della divinità del fuoco che secondo Eliano (II-III sec. d.C.) aveva un tempio nella città di Etna dove si conservava il fuoco inestinguibile guardato da cani sacri, le espressioni inglesi di queen’s weathersole, bel tempo’ letter. ‘tempo della regina (queen’s)’ e di queen’s ware ‘terraglie color crema’, letter. ‘ terraglie (ware) della regina’, nonchè i seguenti nomi di pesci dalla coloritura argentea come queen-fish, chen-fish, king-fish di cui non so la traduzione in italiano. Si badi bene, probabilmente il significato originario dei primi costituenti di questi nomi dovette essere quello di ‘pesce’ nel senso di ‘animale’, incrociatosi poi con l’altro significato di ‘sole, argento, luce’ della radice e adattatosi ad aggiustamenti vari per via della sempre attiva etimologia popolare. Anche Giunone, divinità lunare moglie di Giove, aveva il suo bravo epiteto di Mon-eta ‘avvertitrice (verbo mon-ere)’ che, vedi caso, sembra però la copia del ted. Mon-at ‘mese’. L’idea di ‘mese’ a questo punto credo sia meglio considerarla come derivata da un uso estensivo della radice che indicò dapprima la ‘luna’ in quanto ‘luce’ e non ‘misuratrice’, per poi diventare, incrociandosi con la radice m e- (misura), utile strumento di suddivisione dell’anno in diversi cicli mensili corrispondenti al tempo di rotazione e rivoluzione della luna intorno alla terra. La dea aveva una figlia, Min-erva, divinità della saggezza, che col primo elemento del nome sembra richiamare la radice men di lat. mente(m). Quale potrebbe essere allora il legame fra la luce e la mente? La ‘luce’ a mio parere si profila, nella mente dell’uomo delle origini, come una ‘forza, emanazione, movimento’, segno di una vitalità insita in tutti gli esseri viventi ma specialmente in alcuni. Abbiamo visto nel post precedente come la radice in questione potesse assumere anche il significato di ‘furoreggiare, agitarsi’ nel greco main-o e nel gr. ménos ‘furia, impeto, forza vitale’; il legame tra il concetto di ‘agitazione’ e quello di ‘luce’, per quanto ora a noi sembri quasi impensabile, è dimostrato invece da alcuni termini come il lat. vibr-are ‘vibrare, brandire, scuotere, lanciare, tremare, oscillare, scintillare, splendere’, lat. corusc-are ‘vibrare, brandire, cozzare, muoversi, brillare, balenare’, gr. aíth-o ‘ardere, accendere, splendere’ confrontato con gr. aith-ýss-o ‘scuoto, suscito, mi agito, tremolo, risplendo’, gr. di-aith-ýss-o ‘scuoto, sconvolgo, soffio’, gr. par-aith-ýss-o ‘porre in movimento, eccitare, passare volando’, gr. kat-aith-ýss-o ‘faccio splendere, illumino, ondeggio, balzo su’. Ci saranno anche altri termini simili che ci fanno capire come si possa passare, con assoluta naturalezza, dal concetto di ‘movimento’ a quello di ‘vibrazione’ in tutti i sensi, compreso quello della fiamma, che rispecchia la sua natura profonda, la quale vuole essere in perenne movimento, e , per questa strada, porge all’uomo onomaturgo idee e parole per farsi nominare. Questo stretto rapporto, poi, tra il concetto di luce e quello di mente ci permette di supporre che esso sussista anche dentro il concetto di uomo più sopra abbinato a quello di mente a proposito di ted. Mann ‘uomo’( per maggiore chiarezza cfr. il post Parole sarde del Duls). Esso riceve una valida conferma dall’ant. ted. mond ‘uomo’, variante di ted. Mann, che, vedi caso, è l’esatta copia di ted. Mond ‘luna’. Ancora oggi in questa lingua si incontra l’espressione so ein trauriger Mond! ‘pover’uomo!’, letter. ‘povera luna!’(cfr. il sscr. pra-mantha ‘fiaccola, svastica’) nella coscienza del parlante medio. Quanto facilmente un significato può inavvertitamente trascolorare in un altro in apparenza del tutto diverso! A proposito delle note espressioni omeriche come ménos Alkínoio ‘la possa di Alcinoo, la persona di Alcinoo, Alcinoo’, che secondo me sono una dimostrazione del passaggio in fieri del termine ménos dal significato generico di ‘spirito vitale’ a quello di ‘uomo’ tout court si rimanda al post Fonte della Vita e fonte Vipera... Anche l’Aurora secondo Euripide (cfr. Oreste, 1004: monó-pōlon...Aō) aveva, poveretta, un cocchio trainato da un solo cavallo (põlos ‘puledro, cavallo’), anche se Omero ne indica due, Lampo e Fetonte (Splendente), i cui nomi sono già tutto un programma, ma per un’analisi più accurata delle due componenti di monó-pōlon si veda il post Parole sarde del Duls.
Nessuno, che io sappia, ha mai notato la presenza di stupefacenti coincidenze tra il nome della dea Ecate ed altri a lei connessi. Le feste in suo onore venivano celebrate in Grecia il trigesimo di ogni mese, in greco tri-ekás, tri-ekád-os ‘trenta del mese’, il cui secondo membro, combaciando col nome della dea, evidentemente determinò la fissazione della solennità in quella data. Ma l’intero nome, così inteso, andava a corrispondere anche ad un altro raro epiteto di Ecate, ossia tri-sélenos, inteso come ‘nata nella terza notte’ da G. Gemoll nel suo famoso dizionario per i licei, ediz. Sandron, Firenze, 1922. Per la verità l’epiteto si accompagnava anche ad Eracle, divinità complessa ma molto probabilmente di origine solare. Egli sarebbe nato come frutto dei teneri amplessi che avvinghiarono, in una notte artificialmente prolungata fino a raggiungere la lunghezza di tre, l’infedele Zeus e la mortale bellissima Alc-mena. Il sentore della presenza di Ecate si avverte anche in qualche festività dell’antica India come l’ Ekadasi ‘Undicesimo’, un particolare giorno di digiuno della tradizione vedica durante il quale più intenso si faceva il ricordo di Krishna, divinità suprema ! La ricorrenza cadeva appunto l’undicesimo giorno della luna crescente e della luna calante e il nome mi sembra un clone delle Ecatesie, feste celebrate in molte città greche in onore di Ecate.
A questo punto è importantissimo, a mio avviso, notare che tutto il bagaglio tradizionale di feste, ricorrenze, usanze religiose, racconti , aneddoti, e il mito stesso sono un effetto provocato dall’incrocio delle parole attraverso i millenni: non si può sostenere a cuor leggero che sia avvenuto il movimento inverso, che cioè, ad esempio, l’epiteto tri-sélenos sia stato attribuito ad Eracle in conseguenza della lunghissima notte di cui sopra, ma è molto più naturale pensare che esso fosse un antico trasparente termine di una divinità solare o lunare. D’altronde la componente tri- si ripresenta anche in lat. Tri-via, epiteto di Diana o Ecate venerata nei trivi, in lat. septem tri-ones ‘sette buoi’, cioè le stelle dell’Orsa, oltre che in gr. Tri-ópios, epiteto di Apollo nella città di Cnido in Caria, che, vedi caso, non ha acquisito un valore particolare per il semplice motivo che la radice si prestava a formare il significato di ‘dalla triplice voce’ o ‘dalla triplice vista, dai tre occhi’, significati troppo distanti dalla tradizione antichissima del dio Apollo che ne faceva un essere dall’aspetto normale. Ma Artemide, dea per molti versi simile a Diana o Ecate, aveva anche l’applellativo di tri-klãria ‘che per tre volte assegna le sorti (klãros)’, che aveva probabilmente una sua giustificazione perchè ad esempio Apollo, a Delfi, traeva a sorte, per mezzo dei suoi sacerdoti, l’ordine degli interroganti (cfr. Euripide, Ione, v. 908). Ma anche qui bisogna credere che l'uso sia scaturito dal nome e che dietro il secondo membro – klãria dorma una radice uguale a quella di lat. claru(m) ‘chiaro, squillante, lucente’. Il gr. Klários, epiteto di Zeus ed Apollo, divinità che avevano un culto nella città di Claro, nella Ionia, definita non per nulla aigláessa ‘splendida, luminosa’ nell’inno omerico ad Apollo (v.40). Infine anche le Trie (Thriaí), le tre nutrici di Apollo che insegnarono ad Ermes l’arte di predire il futuro osservando la disposizione dei sassolini (cfr. gr.thri-aí ‘sassolini, pietruzze) in un catino pieno d’acqua, debbono far parte di questa fantastica girandola che si avvita su sè stessa, e che dovrebbe richiamare l’attenzione di chi indaga. Non costituisce quindi un problema che la dea fosse chiamata anche tri-forme. Naturalmente la componente tri- è andata a coprire una precedente radice per ‘luce, fuoco’. Non ricordo se in norvegese o svedese dialettali si incontra una radice tir o tira per ‘stella’, comunque possiamo attingere al sscr. tara ‘stella’ probabilmente dalla radice tri ‘attraversare’ con l’idea del movimento che ben si attaglia all' irraggiarsi della luce. Il gr. tér-as ‘ astro, stella, presagio, mostro’ accompagnato da gr. teír-os (usato solo al pl.)‘ segno celeste, astro, costellazione’ e da quella che considero una variante, sia nella forma che nel significato, cioè gr. thér-os ‘estate, stagione calda’, gr. therm-ós ‘caldo, ardente, infocato’ sono più che sufficienti a spiegare il valore luminoso di tri-. Se si fa attenzione si nota che l’inverso di gr. tér-as dà gr. as-tér ‘astro, stella’, cfr. ted. Oester-reich 'Austria' letter. 'territorio orientale (Oester-)' . Non condivido, infatti, l’etimologia corrente di quest’ultima parola che viene collegata al ted. Stern ‘stella’, ingl. star ‘stella’ da (a)stér perchè preferisco per questi termini tirare in ballo il sscr. stri ‘ spargere’ che mi pare simile al lat. stern-ere ‘stendere, spandere’ e financo al lat. sidus, sider-is ‘stella’, oltre che all’ingl. strew ‘sparpagliare, spargere’. Pertanto io penso che l’espressione omerica (cfr. Il. XXIII, 177) relativa al fuoco che Achille appicca alla pira di Patroclo, e cioè pyrós ménos...sidēre-on, letter. ‘la forza (ménos) ferrea (sidēre-on) del fuoco (pyr-ós)’ non vada intesa come ‘la forza indomabile, implacabile del fuoco’ dando un senso figurato a ‘ferrea’, ma come ‘la forza luminosa del fuoco’, credendo che sotto l’aggettivo sidēre-on operi in questo caso la radice di lat. sidere-u(m) ‘sidereo, scintillante, lucente’ e non quella di greco sídēre-os ‘ferreo, duro, crudele’. Se vogliamo mantenere il senso di ‘durezza, ostinazione’ dobbiano vederlo come specchio dell’indole profonda della fiamma o del fuoco che, come dicevo più sopra, è tutta nella pertinace, incontenibile, irrefrenabile vitalità e mobilità degli stessi e non implica un nostro giudizio morale sulle eventuali conseguenze, talora nefaste, degli incendi. E’ vero che il senso figurato potrebbe anche essere accettato, ma nel contempo non si può negare che l’altro è più naturale e non suscita, a ben riflettere, quel sottile stridore che mi sembra di notare nella volontà di indicare una qualità del ‘fuoco’ ricorrendo all’idea di ‘ferro’, ben presente nell’aggettivo in questione, anche nella coscienza del locutore medio. Abbiamo visto che ménos è termine generico per qualsiasi tipo di ‘forza, vitalità’, compresa quella della luce lunare, ed è proprio questa luminosità che l’aggettivo sidēre-on voleva all’origine sottolineare. Il lat. sider-is coinvolge altri termini interessanti come lat. con-sider-are ‘considerare, osservare’, lat. de-sider-are ‘desiderare’, it. as-sider-are per i quali, va da sè, non mi soddifano le solite proposte, ma ne rimando l’interpretazione ad altra occasione. La forma sider-is a mio avviso può benissimo essere variante della radice di ted. Stern ‘stella’ alla quale si potè arrivare forse del tutto naturalmente se l’accento tonico si fosse spostato, per qualche motivo a me ignoto, dalla terzultima alla penultima, con successiva normale caduta della vocale -i- e trasformazione della dentale sonora in sorda –t-, per assimilazione alla spirante sorda –s-. Qualcosa di simile è accaduto, per l’accento, tra il lat. luna ‘luna’ da *lùcna e lat. Lucìna , dea della luce, ed epiteto di Diana e Giunone, divinità lunari. Forse di lat. sider-is esisteva una variante con la –e- lunga sidēr-is, come nel termine greco ad esso da me collegato, e per la legge della penultima l’accento andò a posarsi su di essa. Per la difficoltà rappresentata dal fenomeno del rotacismo della sibilante –s-, presente ancora nel nominativo, si potrebbe prospettare la seguente soluzione. La parola in origine presentava una radice non con la sibilante ma con la liquida –r-: la forma non rotata del nominativo sarebbe solo la conseguenza di un fenomeno analogico, di allineamento con i tanti altri termini come vellus, veller-is; vulnus, vulner-is; opus, operis ecc. D’altronde io sono propenso a credere che il fenomeno del rotacismo sia in gran parte dovuto o per lo meno sia stato innescato da semplici sostituzioni di radici simili già ad esso preesistenti e non presupponga, quindi, la trasformazione automatica della sibilante in liquida alveolare, giacchè esso non coinvolge ogni –s- intervocalica, ma presenta diverse eccezioni, non sempre, o difficilmente, spiegabili. Il termine lat. aura ‘soffio, aria’ di provenienza greca (aúra) presenta, ad esempio, anche il significato di ‘scintillio’ (cfr. Virgilio, Aen., VI, 204) nell’espressione aura auri ‘scintillio dell’oro’, di ‘eco’, di ‘vampa (del sole)’, il che mi fa pensare che circolasse anche una radice con la –r- oltre a quella con la –s- di ausom ‘oro’, attestata presso i Sabini. E infatti i vari significati sopra indicati di aura in latino costringono a pensare che i concetti di ‘aria’, ‘luce’, ‘eco’ rientrano tutti in quello sovraordinato di ‘emanazione’. E non è un caso che il titano Astreo, il cui nome ridesta l’idea di ‘luce’, generasse da Eos i Venti, che più frequentemente sono detti figli di Eolo (gr. Aíolos), il cui nome è veramente tutto un programma se si compara con l’aggettivo gr. aiólos ‘agile, veloce, astuto, cangiante, scintillante’, cosa che conferma quello che dicevo testè sulla corrispondenza segreta (ma non tanto) tra concetti che possono a prima vista sembrare poco o molto diversi tra loro. Il greco aúri-on ‘di mattina’ è una garanzia, insieme al lat. aur-a ‘scintillio’ di cui sopra, che il lat. aur-ora ‘aurora, alba’ possa fare a meno del rotacismo che la vuole derivata da un precedente *aus-osa. Il gr. aúra aveva anche il significato specifico di ‘brezza del mattino’ con questo valore aggiunto di mattino che quindi, data la circolazione di una radice sosia col valore di ‘luce, alba’, non era assolutamente immotivato. Si direbbe che nulla è senza spiegazione nella lingua. A conclusione di questo articolo, una volta per me assodato che le parole sono legate a filo doppio da rapporti profondi di sinestesia, mi pare bello leggere il famoso sonetto Correspondences, tratto dalla raccolta Les fleurs du mal, di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, Charles Baudelaire.


La Nature est un temple où de vivant piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfumes, les couleures et les sons se répondent.

Il est des parfums frais comme de chairs d’enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
-Et d’autres, corrompus, riches et triomphant,

Ayant l’expansion de choses infinies,
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens.
Qui chantent les transports de l’esprit et des sens
.