Quante stagioni
sono trascorse da quando mio padre, un uomo dall’aspetto segaligno, lavorava i
campi ed io ero un garzoncello, prima di scuola elementare e poi di scuola
media, scherzoso ma anche incline alla pensosità e agli studi che seguivo con
viscerale passione, soprattutto l’amato latino!
Ricordo che mia madre era solita al mattino preparare la spesa
per mio padre in partenza per il lavoro. ―Che cos’era questa spesa? ― si chiederà giustamente oggi
qualcuno non più aduso alla vita contadina di un tempo. La spesa era il cibo che il contadino portava con sé,
consistente generalmente in alcune spesse fette di pane spalmate d’olio e farcite
con companatico che variava di volta in volta: peperoni lessi, formaggio,
ventresca, prosciutto,frittata, lardo ecc.
Il tutto veniva avvolto nel fazzoletto della spesa legato per i quattro capi, a due a due[1]. Essa costituiva l’indispensabile
sostentamento e rifocillamento per il contadino che spesso affrontava,
nell’arco della giornata, fatiche che facevano venire una gran fame. Il
perderla sarebbe stato oltremodo increscioso, tanto è vero che, quando uno
appariva abbattuto e scuro in volto, si usava in paese apostrofarlo con
l’espressione: Cu të s’è magnatë lë panë
(la spésa) j’asënë? (forse che l’asino ti si è mangiato il pane?). A volte capitava effettivamente che la povera
bestia, compagna assidua del contadino, scioltasi fortunosamente la fune che la
teneva legata ad un piolo conficcato nel terreno che le concedeva solo un limitato
spazio per il pascolo, venisse attratta dal buon odore proveniente dalla spesa la quale, se non era stata
nascosta in luogo sicuro, finiva così in pochi bocconi nello stomaco dell’innocente
animale.
Iniziato
l’apprendimento del latino avevo già cominciato a notare alcune somiglianze tra
parole latine e parole dialettali, ma naturalmente non avevo ancora la
scaltrezza per notare la quasi contraddittorietà intrinseca del termine spesa usato nel senso che ho detto. Perché lo si impiegava anche nell’altro senso
che esso ha in italiano, di ‘esborso di denaro per il pagamento di qualche
merce acquistata’. Nel primo senso,
parola più adatta sarebbe dovuta essere quella di risparmio se si vuole mantenere questo linguaggio commerciale, dato
che la preparazione della spesa era
improntata a completa economia: il pane lo si produceva in proprio come in
genere il companatico, tranne i peperoni che attecchiscono sotto climi più
caldi dei nostri. In passato anche l’olio usato come condimento era di
produzione locale, prima del prosciugamento del lago del Fucino che mitigava di
molto il clima delle nostre zone, rinfrescandolo d’estate e mitigandolo d’inverno.
In paese esistevano alcuni trappìtë ‘frantoi’,
vocabolo proveniente dal lat. trapetu(m)
‘frantoio’, a sua volta di ascendenza greca.
Ora leggo, in
un sito web, che nei paesi dei monti Lepini divisi tra le province di Roma,
Latina e Frosinone si usava in passato l’espressione rimettersi la spesa per indicare quello che era il pensiero
costante di ogni famiglia contadina: mettere al sicuro in casa o in edifici
adeguati i cereali necessari per il sostentamento di tutta la famiglia
nell’arco di un anno. Anche qui un
termine più acconcio sarebbe dovuto essere non la spesa ma il ricavo o prodotto del duro lavoro dei
contadini. E’ strano, poi, che questo
termine spesa, nel significato diretto
di ‘cibo, viveri’, e non di ‘spesa per l’acquisto giornaliero di generi
alimentari’ ricorra specialmente nelle campagne dove in passato quasi tutto
veniva prodotto autarchicamente e non si incontri, magari, nelle città dove
invece le famiglie comprano, e compravano in passato, in genere tutto per il
proprio sostentamento e dove, quindi, si sarebbe potuto avere più facilmente il
passaggio semantico da ‘spesa’ a ‘viveri’. Queste considerazioni alimentano il sospetto
che la voce dialettale spesa ‘cibo,
cereali, nutrimento’ non abbia la stessa origine dell’omonimo italiano spesa, dal tardo lat. expensa(m) [pecunia(m)]
‘denaro speso, spesa, pagamento’. Anche se i linguisti alimentano questa
credenza, tanto da sostenere[2] che
anche il ted. Speise ‘nutrimento,
pietanza’, danese spise ‘mangiare’
sono debitori del termine del tardo latino.
La soluzione di
questo problema etimologico non è semplice ma uno spiraglio di luce può aprirsi
col secondo significato del ted. Speise,
in apparenza del tutto diverso dal primo, che è quello di ‘lega metallica,
bronzo’. Anche l’ingl. speiss significa ‘miscela di arseniuri
metallici’ ribadendo, quindi, il concetto di ‘lega, congiunzione, coagulo’ ed
accostandosi così, a mio vedere, al significato e al significante dell’agg.
lat. spissu(m) ‘spesso, denso, compatto,
compresso, solido,ecc.’ e lituano spis-ti ’pressare’. Questo concetto si presta bene ad esprimere anche
quello di ‘robustezza, sanità, prosperità’, tutte qualità fornite da una buona alimentazione e nutrimento. Lo conferma ad
esempio, il gr. tréph-ein ‘ ispessire, rendere grande e grosso, far coagulare,
dar da mangiare, nutrire, crescere, ecc.’.
Il ted. Speise ‘lega metallica’ è una variante di dan. svejse ‘saldare’, ted. schweiss-en ‘saldare (a fuoco)’, ingl. tecn. sweat ‘fondere, saldare’.
Un termine con una base simile a lat. spissu(m) ‘spesso, denso’ può essere
considerato il ted. Speck ’lardo,
grasso’. a. ingl. spic ‘lardo’ e
l’abruzzese spitë ‘lardo’[3], da
accostare quest’ultimo all’ingl. speed
ma nel senso antiquato di ‘favorire, far
crescere, prosperare’ e non in quello di ‘velocità’, per quanto i due
significati siano, a mio parere, specializzazioni di quello di spinta. Sembra incredibile! ma questa
radice speed la si riscopre
nell’espressione abruzzese A’ spëzzatë la
vitë che significa ‘E’ cresciuto, sviluppato’, lett. ‘Ha elevato la vita,
la statura’[4]. Anche l’italiano Spezzare una lancia a favore di qualcuno non può significare
‘Rompere una lancia scontrandosi con l’avversario in un torneo sostenuto in
difesa di qualcuno (talvolta la lancia si spezzava)’ ma semplicemente
‘Scagliare una lancia’ nel senso di ‘dare un colpo’ in difesa di qualcuno. E, puntualmente, l’ingl. speed ha anche il significato di ‘scagliare, emettere’: cfr. la
frase Sped arrows from their
heavy war bows ‘scagliavano frecce dai loro pesanti archi di guerra’ di
F.V. W. Mason.
Altra voce esattamente
corrispondente, per il significato, al dialettale spesa ‘cibo (che il contadino portava con sé in campagna)’ in uso
nel mio paese (non nella mia famiglia) era mmutìna,
ricorrente anche in altri centri della Marsica, ed altrove, nelle forme mmutìna, mmëtina, mmotìna. Da notare il raddoppiamento della labio-nasale
iniziale, cosa che avviene abbastanza spesso in dialetto. Qui mi pare che non
possano esserci dubbi sulla sua derivazione o, meglio, sui termini con cui
confrontarla: ingl. meat ‘carne, arc.
cibo’, a.ted. maz ‘cibo’, got. mats ‘cibo’ dan. mad ‘cibo’, fr. mets
‘vivanda, cibo’. La forma mmut-ìna e le altre presentano il suffisso
diminutivo –ina. Questo nome conferma, tra l’altro, che
probabilmente anche il primo, spesa,
doveva indicare direttamente, e non attraverso il concetto di “spendere”, il
proprio referente, come più e più volte mi è capitato di far notare.
Come ho
mostrato in altri articoli io non credo che queste radici germaniche siano
state portate a noi dalle invasioni barbariche del Medioevo, ma che
probabilmente esse fossero preistoriche. Sono anche abbastanza numerose. Nella
zona dei monti Lepini summenzionata i fusti del granturco vengono chiamato stavi, chiara variante di ted. Stab ‘asta, stecca, bastone’, ingl. staff ‘asta, bastone, palo, ecc.’, ingl.
stave ‘piolo, stecca, doga’. Nel mio dialetto
erano chiamati stamm-ùcchë, voce con
un suffisso diminutivo confrontabile col ted. Stamm ‘tronco d’albero, fusto, ceppo’, ingl. stem ’gambo, stelo, fusto, tronco, ecc.’. Dato che il granturco si è diffuso tra noi
molti anni dopo la scoperta dell’America, qualcuno potrebbe chiedersi donde
siano potuti spuntare questi termini di colore germanico. Il fatto si spiega
agevolmente riflettendo, ad esempio, che
la voce stammόcche, stammùcche significava in Abruzzo anche
‘tronco d’albero invecchiato con pochi o senza rami, osso spolpato, sagginale,
tibia’[5] e che
pertanto il termine era preesistente all’arrivo del mais in Europa: la voce, nel
mio paese, si è semplicemente adattata ad esprimere il fusto, senza pannocchie e senza foglie, della nuova coltura,
facendo cadere nel dimenticatoio gli altri significati. Nel dialetto di Avezzano la parola si è
specializzata per lo stelo secco di ortaggi, tuberi, fagioli[6]. Tutti questi esempi confermano, se ce ne fosse
bisogno, il principio più volte da me ribadito e di ascendenza saussuriana,
secondo cui è vano presumere che le parole siano state inventate per indicare
il referente di cui si caricano solo nel corso di una lunghissima storia, che
ha solitamente specializzato in svariati modi il generico significato iniziale
delle radici. Per la Lingua, ad esempio, un filo
d’erba, uno stelo, un palo, un tronco, un albero, un pilastro, un pinnacolo,
ecc. sono concetti subordinati di uno più generale che li comprende tutti,
anche se di volta in volta essi possono essere indicati con radici formalmente
diverse: è il concetto sovraordinato di “protuberanza, escrescenza” e simili
che si può allargare, a mio parere, a designare alture, colli, montagne: questo
è il motivo per cui spesso i monti portano nomi di piante. Non perché esse crescano sulle loro pendici (la
cosa è indifferente), ma perché il concetto di “pianta” (entro cui rientrano le
varie specie: ciliegio, pioppo, olmo, ecc.), in qualche parlata del lontano
passato si era prestato ad indicare quello di “monte”: si trattava sempre di escrescenze. Bisognerebbe tenerlo sempre
presente questo principio, perché esso è spesso risolutivo per individuare
l’etimo più probabile delle parole.
Oggi, 18
settembre 2013, ad oltre tre mesi dalla stesura di questo articolo, mi sono
accorto che l’etimo che ho dato della voce dialettale mmutìna ‘cibo che il contadino portava con sé in campagna per
rifocillarsi durante la giornata’ molto probabilmente non corrisponde al
vero. Credo che mi abbia tratto in
inganno il raddoppiamento della nasale bilabiale iniziale /m/ che avevo creduto uguale a quello che si ha in molte parole
dialettali come mmëtà ‘metà’, mmatónë ‘mattone’, mmatìna ‘mattina’, ecc.
Pare invece più esatto considerarlo uguale all’esito che si ha nei
nostri dialetti in parole che iniziano in italiano o latino col gruppo inv-
come in mmerne ‘inverno’, mmìdia ‘invidia’, mméggë ‘invece’, ecc. Questo fatto permette di interpretare il
dialettale mmutìna, mmotìna come
esito, con la perdita della liquida /l/,
di una forma uguale all’it. involt-ino, con riferimento al fazzoletto con cui si avvolgeva la spesa.
Ma, sorpresa delle sorprese, questo etimo molto probabilmente non è
neppure esso quello originario: proprio in virtù del ragionamento di ascendenza
saussuriana di cui parlavo più sopra, secondo cui bisogna dubitare degli etimi
che sembrano fatti apposta per l’oggetto da esso indicato, che qui sarebbe il
concetto di “involto”. Ma questo
concetto, a ben riflettere, non è nemmeno fondamentale per il nostro referente. E’ come se, dovendo indicare una penna, noi ricorressimo all’idea di
“astuccio”, il suo contenitore. Ora,
siccome le parole all’origine solitamente indicavano, anche se con concetto
generico, il referente nudo e crudo, io sono propenso a suggerire che dietro il
concetto di “involto” si debba in questo caso vedere quello di “cibo,
nutrimento, sostentamento” come nel caso di spesa
di cui ho parlato. E me ne dà
l’occasione la radice del verbo lat. fulc-ire ‘sostenere, puntellare, rianimare, ristorare’ nella forma del
part. pass. fult-u(m) che ha dato
l’it. folto anche se in latino non è
attestato in questo significato. Il
dialettale futë (che, come spesso
avviene in questi casi, perde la liquida /l/)
significa anch’esso ‘folto, denso, fitto’ ma anche ‘forte’ riferito a qualcuno
pieno di risorse, di abilità e di ingegno.
Si adombra così dietro questa radice una situazione similissima a quella
di gr. tréph-ein di cui sopra che
significa ‘ispessire, rendere grande e grosso, far coagulare, dar da mangiare,
nutrire, crescere, ecc.’. In effetti il
verbo lat. in-fulc-ire ‘inserire, cacciar giù, far ingoiare’ potrebbe aver
avuto anche il significato di ‘nutrire, sostentare’ e, in una forma sviluppata
dal part. pass. in-fult-(m), quello di ‘nutrimento, cibo’. Da questa forma sarebbe poi derivato il
concetto di “involto” formalmente simile al precedente che vien da lat. in-volut-u(m)
‘avvolto, involuto, inviluppato’. Nei
nostri dialetti in genere il gruppo inf- ha dato mb-
come in mbérnë ‘inferno’, ma è anche probabile che in
questo caso, in conseguenza di un possibile incrocio con la forma dialettale simile
di *in-volt-u(m) (da cui l’it. involto) al posto del classico in-volut-u(m), si abbia avuto il risultato di mmot-ìna, mmut-ìna. Da
ricordarsi sempre che nei nostri dialetti la liquida /l/ scompare senza lasciare generalmente tracce.
[1] La spesa era anche il ‘cibo’ fornito agli
operai a giornata, diversa dalla paga
giornaliera. La parola era diffusa
certamente nel centro-meridione d’Italia.
Non so se essa lo fosse ugualmente nel settentrione. Cfr. anche G.
Proia, La parlata di Luco dei Marsi,
Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006, p. 163.
[2] Cfr. O. Pianigiani, Dizionario etimologico, presente in
rete.
[3] Cfr.D.
Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo
Polla Editore, Cerchio-Aq 2004. Del
resto i linguisti fanno derivare il lat. spissu(m)
‘denso,spesso’ da una radice in dentale SPID-, come lat. fossu(m) ‘scavato’ da fod-ere ‘scavare’, lat. sessu(m)
‘il sedersi’ da sed-ere ‘sedere’,
ecc.
[4] Cfr. D.Bielli, cit.
[5] Cfr, D.Bielli, cit.
[6] Cfr. U. Buzzelli-G.
Pitoni, Vocabolario del dialetto
avezzanese (Il libro non reca alcuna indicazione sulla stampa e sull’anno
di pubblicazione).
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