sabato 21 novembre 2009

Commento dell'articolo di Riccardo Regis su alcuni fitonimi di area piemontese

Ho letto il saggio di Riccardo Regis apparso in RIOn, XV (2009), 1, pp. 41-70 e sono rimasto ammirato della sottile e puntuale classificazione deonomastica dei numerosi fitonimi presi in esame. Debbo però dire che a me dilettante di linguistica, sia pure molto appassionato, sono sorti forti dubbi circa la bontà degli etimi di svariati nomi e perciò mi permetto di fare la seguente osservazione prima di passare all’analisi di casi singoli.

A me pare che la scienza etimologica commetta un grande errore nel far risalire, di fatto, la stragrande maggioranza dei fitonimi al medioevo o al massimo all’ evo antico, perdendo di vista la probabilità che essi affondino invece le radici nello sterminato lasso di tempo della preistoria. Io penso, in effetti, che la più parte di essi ostenti in superficie vesti ingannevoli che offrono un’apparente chiarezza etimologica, mentre la loro vera identità se ne sta a giacere nel profondo.

Io sono del parere, ad esempio, che non si possa accettare ad occhi chiusi l’etimo comunemente proposto, dagli antichi e dai moderni, per il Prunus persica, (it. pesca e persica) che riporterebbe al presunto paese d’origine della pianta, cioè la Persia, mentre risulta che essa è originaria della Cina. Credo in effetti che il nome possa contenere dentro di sé un riferimento alla entità che esso esprime, un frutto rotondeggiante, e che la Persia sia solo il risultato di un incrocio abbagliante. La parola andrebbe divisa nelle due componenti per-sica di cui la prima (cfr. greco perí ‘intorno’) è a mio avviso variante della seconda di greco diós-pyros ‘diospiro, loto’, genere di pianta di cui fa parte anche il Diospyros kaki, originario del Giappone. In greco pyrós valeva ‘grano, frumento’: anche qui si tratta di una ‘rotondità, chicco’. Probabilmente anche il lat. pr-unum ’prugna’ alludeva, nel nesso consonantico iniziale, alla stessa radice: nel mio dialetto di Aielli-Aq la parola è pronunciata, infatti, con un suono intermedio tra le due consonanti, e cioè për-una, pur non accadendo lo stesso fenomeno in tutte le altre parole con le stesse consonanti iniziali. E non è detto che il latino debba servire per forza come paradigma perché potrebbe essere stato proprio esso ad innovare facendo cadere un eventuale suono vocalico originario, in una parola che poteva esistere autonomamente in area italica (cfr. greco pérna ‘prosciutto’ probabilmente dall’idea di ‘rotondità, massa’, it. perla, greco per-óne ‘ardiglione della fibbia, spillone, caviglia, tumore, escrescenza, ecc.’). Da notare che sia l’idea di “punta” come quella di “tumore, escrescenza” fanno capo, secondo me, ad una stessa idea più generica di “spinta, sollevamento, rigonfiamento” entro la quale rientra anche quella di “arbusto, cespuglio, pianta” come nel ted. Trieb ‘spinta, impulso, germoglio’. Va da sé che altra variante della radice in questione possa essere il lat. pirum ‘pera’, un’altra rotondità. La seconda componente di lat. per-sica dovrebbe richiamare il greco sŷkon ‘fico’ ma anche ‘porro sulle palpebre, orzaiolo, tumore’, greco síkyos ‘cocomero’: questi termini potrebbero spiegare anche la seconda componente del fitonimo martin-sec di cui il Regis parla a p. 63, noto anche come pruss ‘peruzza’. Per la prima componente di diós-pyros penserei, oltre che al greco dios-bálanos ‘castagna, lett. ghianda di Giove’, anche all’ungher. dió ‘noce’. Il piem. persi ‘pesca’(p. 55) potrebbe essere il continuatore di greco perséa ‘albero con frutto simile alla pera’ e non forma accorciata di persica.

Si trova in greco anche il termine syko-basíleia ‘fichi reali’ che in realtà doveva richiamare, nella seconda componente, qualche variante di greco pháselos ‘fagiolo, battello’ nonché la seconda componente di gotico weina-basi ‘uva, acino d’uva’, la quale ritorna anche in un nome volgare del frutto della Rosa canina, e cioè caca-vascë per cui cfr. lat. vas ‘vaso, capsula’, it. vascello, dial. aiellese vascéjjë ‘botticella, barile’. Non è azzardato sostenere, a mio avviso, che per la prima componente di caca-vascë sia da tener presente anche il giapponese kaki, frutto ben noto, oltre alle voci caca-fugnë ‘vescia, lett. caca-funghi’ nel dialetto di Ovindoli-Aq, caca-mmàni ‘ciclamino’ nel dialetto di Rocca di Botte-Aq, caca-malune ‘ciclamino’ nel nuorese. Il termine cicla-mino, greco kykláminos, credo tragga la sua motivazione dalla radice tuberosa di forma sferica. La componente –mino sarà variante della seconda di caca-mmani e fa venire in mente il lat. minae ‘sporgenze, merli’. In abruzzese esiste il termine cìcëlë (cicele) ‘ciottolo, endice’ (cfr. Domenico Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq., 2004 –ristampa della edizione Nicola De Arcangelis , Casalbordino, 1930) di cui ho scoperto recentemente la forma chichil-one ‘pietra grossa, grandine’ nel dialetto di Lanciano (Chieti) che è la quasi diretta fotocopia del greco kýklos ‘cerchio, globo, bulbo dell’occhio’. A Paganica–Aq la voce caca-vascë indica il ‘ventriglio, grecile’ rimanendo sempre nell’ambito delle ‘rotondità’, le quali includono anche le ‘cavità’.

Alcune volte anche Regis (p. 48) si accorge che i fitonimi non sono sempre credibili: l’aggettivo grech ‘greco’ che si accompagna ad alcuni di essi quali piem. erba greca, fagn grech ‘fieno greco’ per la Cuscuta campestris, oppure műs-c grech ‘muschio greco’ per l’Erodium ciconium moschatum (it. beccho di gru maggiore, becco di gru aromatico) non trova giustificazione plausibile. Ed a ragione, perché dietro di esso credo di vedere qualche base greca ampliata rispetto a quella comparente nel termine kalli-kéra che, oltre a significare ‘dalle belle corna’, designa anche il ‘fieno greco’. Allora, secondo me, si infittisce il dubbio sulla genuinità dell’aggettivo anche per quelle denominazioni per le quali esso sembra credibile come per il fen grech ‘fieno greco’ (Trigonella monspeliaca) già nota in età classica col nome di faenum graecum. Il fatto è che l’idea che sorregge il concetto di ‘corno’ deve essere simile a quella che sorregge l’idea di ‘stelo, erba, escrescenza’. Lo stesso gioco dei travestimenti è messo in opera da uno dei nomi correnti per la Calluna vulgaris, cioè quello di crecchia, grecchia il quale rimanda ad un precedente *grec-ula. Il gioco si ripete alla grande con l’ornitonimo Anas crecca , riferito ad un’anatra nota anche come crec-ola, grec-orello, nomi la cui base è presente già nel lat. querque-dula ‘alzavola’.

La ciresa greca (p. 48) per il Celtis australis (it. bagolaro) il cui frutto già i latini chiamavano faba graeca mi offre il destro per importanti osservazioni. Intanto non è azzardato in questo caso accostare l’aggettivo graeca al grecile degli uccelli, noto anche come cipolla, che è tutto dire. Inoltre non credo che ciresa stia qui come normale metafora di it.ciliegia (greco kérasos). Purtroppo l’abitudine inveterata di riportare quasi tutti i termini ai più recenti strati linguistici non tenendo conto della loro preistoria, che pure può essere in qualche modo avvertita e ricostruita attraverso l’analisi profonda dei significati, ci costringe ad errori di prospettiva notevoli. Fin tanto che restiamo convinti, ad esempio, che il significato di kérasos ‘ciliegio’ sia stato l’unico ad accompagnare la parola fin dai primordi lontanissimi nella preistoria, e che esso non ne avesse invece uno più generico di ‘frutto, rotondità’ o anche ‘germoglio, albero’, non potremo evitare di subordinare a quel significato specializzato nello strato linguistico greco-latino, anche tutti gli altri che a quanto pare esistevano come cercherò di mostrare con gli esempi che farò, e che non accettavano lo status di sudditi rispetto all’altro. A conforto di questa mia tesi mi viene incontro la nota parola dialettale di ascendenza greca crësòmmëla (con varianti) ‘albicocca, pesca’. Solitamente si afferma che essa derivi dal greco chrysó-melon ‘mela d’oro, probabilmente cotogna’ ma nel greco moderno la si ritrova ad indicare l’ ‘arancia’. Ora, si dà il caso che nel dialetto di Torano-Ri crisò-mmola designa la ‘testa, capo’, il che mi aiuta a sostenere che il significato profondo della prima componente del termine dovesse essere quello corrispondente alla radice indoeuropea per ‘testa’, e cioè *keras di greco kéras ‘corno, testa’, greco kára ‘testa’, greco krás ‘testa’, la cui radice è in fondo simile alla prima di chrysó-melon. Non si può pensare ad un uso metaforico di crësommëla ‘albicocca’, data la grandezza della ‘testa’ rispetto a quella del frutto. E’ utile citare, a ribadire la cosa, anche il serbo-croato krs ‘roccia’, istriano krasa ‘terra sassosa’ donde il topon. Carso, ma ci viene incontro anche il calabrese grasciò-mulu ‘albicocca’ nonché l’espressione ingl. Carson peach ‘pesca di Carson’ in cui probabilmente la radice si è ammantata del personale Carson. Ma c’è di più. Nel mio dialetto di Aielli le crësommëlë avevano anche il significato di sassi, sassate (Arrëvévanë cèrtë crësòmmëlë! –Arrivavano certe sassate!). Da questo ampio quadro di riferimento si può agevolmente desumere che il significato preistorico della radice non poteva essere quello specializzato di ‘albicocca’, di ‘pesca’, di ‘ciliegia’, di ‘mela cotogna’ o di ‘testa’ ma quello più generico di ‘corpo tondeggiante’ compresa la ‘pietra’ la quale, anche quando è irregolare, mantiene sempre una qualche idea di ‘rotondità, corpo, massa’. Credo inoltre che appartengano alla stessa radice, o sue varianti, i vocaboli lat. grossus ‘fico che non matura’, greco króssai ‘sporgenze di pietra, merli’, greco kórsion ‘bulbo del loto’, ted. Kreis ‘circolo, cerchio’. Così stando le cose il greco chrysó-melon è da considerare un bell’esempio di rietimologizzazione e specializzazione di parola più antica formata da due componenti tautologiche di cui la seconda corrisponde alla seconda di greco tróch-malos ‘ciottolo, sasso’ il quale, per la prima, rimanda a sua volta a greco troch-ós ‘disco, ruota, cerchio, pillola,ecc.’.

A questo punto è lecito sospettare che anche il lat. prae-coqua ‘specie di albicocche’ sia la reinterpretazione di un termine precedente composto di una prima radice per, pri, ecc. già analizzata per per-sica e di una seconda radice mediterranea kok, kuk,ecc. col significato di ‘punta’ o ‘rotondità’. In alcuni dialetti infatti il frutto in questione è chiamato per-cocca (con la seconda /c/ geminata), in linea col corrispondente nome del sardo nuorese marra-cocco ‘albicocca’. La precocità cui il nome latino accenna in superficie avrà naturalmente indirizzato il sottostante significato generico di ‘ frutto’ verso la designazione di qualche varietà precoce della specie. La componente marra- rispunta nell’it. marr-one ‘castagna’ e nell’abruzzese marr-occa ‘ pannocchia, mais’.

L’erba maroca (p. 48), come si avvede il Regis, non dà un’informazione di carattere geografico ma rimanda alle bacche nere della morella. Solo che egli vede l’origine del nome nell’ it. marocca ‘rifiuto, scarto’ forma alterata di marra, con la spiegazione che quelle bacche venivano “scartate” in quanto velenose. A me sembra invece più naturale riagganciare il termine all’abruzzese marrocca prima citato, anche perché l’altro nome della pianta, morella, presenta una base che è variante di marra ‘mucchio, branco’ e non allude al colore delle bacche. L’abruzzese morra, morrë, infatti, significa ‘branco, gregge’ ma anche ‘spiga del frumento o altre graminacee’ perché anche questa è composta da più elementi (chicchi) come se si trattasse di un ‘mucchio, ammasso’. Come si può ben notare, i nomi spessissimo denotano direttamente la sostanza, la natura del referente e pertanto, ogni volta che si va a pescare l’ origine del suo nome in parole variamente ed indirettamente ad esso connesse, senza aver prima tentato questa strada, si commette a mio parere un grave errore di metodo. La forma occitanica paternostre (pp.50-51) per Cholchicum autumnale (it. colchico d’autunno, zafferano falso) non può trovare la sua origine nell’usanza di trasformarne per gioco i bulbi in piccoli grani da rosario o in quella contadina di infilarli al collo dei bambini malati recitando un Padre Nostro ad ogni bulbo. Semmai è il contrario: questi usi sono il riflesso diretto della suggestione esercitata negli uomini del passato, spesso impotenti e disperati dinanzi alla fame e alle malattie, proprio dal nome della pianta, di cui ora non so dare una chiara spiegazione, ma sento che esso potrebbe realmente essere il risultato di un abbaglio: le sue componenti, infatti, potrebbero essere state tre e non due, cioè pat-ern-ostro. L’ipotesi acquista più consistenza se si trae in ballo il nuorese pat-illa ‘pietra’, il gallurese pat-accia ‘sasso’, gallurese pat-ecca ‘cocomero’, ingl. pate ‘testa’; la componente –ern- potrebbe richiamare, ad esempio, il marso-sabino herna ‘pietra’, e –ostro il greco óstreion ‘ostrica, conchiglia’. Anche il nome Colch-icum ‘della Colchide’, affiancato alla denominazione friulana cidiv-oc dal lat. Cilic-us ‘della Cilicia’ (p. 51, n. 21) fa balenare l’idea che si tratti di varianti di parole assonanti preistoriche in rapporto ad un unico concetto di ‘rotondità, bulbo’: cfr. greco kýliks ’coppa, calice, bicchiere’, greco kyllós ‘curvo’, greco kólliks ‘pane d’orzo, pastiglia’, greco kályks ‘calice, bocciolo, cerchietto per capelli’, greco kálche, chálke, chálche ‘murice, conchiglia,voluta’, greco cháliks ‘selce, pietra’. Per l’ Actaea spicata (p. 51 e n. 23) con le varie denominazioni (piem. cristoforiana, it.barba di S. Cristoforo, fr.Herbe de Saint Christophe, ingl. herb Christopher, ted.Christophskraut) non bisogna ugualmente prestare orecchio alle spiegazioni tendenti a collegarne i nomi a S. Cristoforo, protettore dei tesori nascosti e contro la peste, e proporrei invece il confronto con l’abruzz. (cfr. vocabolario del Bielli) fuojjë dë Cristë (foglie di Cristo)‘senape selvatica’, abruzz. cristorë ‘scopa, realizzata legando piante di ginestra’ e farei nel contempo riferimento al lat. crista 'cresta, pennachio’, logudorese cristas ‘sopracciglia’. La seconda componente di Cristo-foro, credo abbia relazione con lat. fur-unculus ‘protuberanza, getto (nella pianta)’, parola che ancora una volta rifiuta, a mio avviso, l’interpretazione metaforica secondo cui queste escrescenze sarebbero come “ladruncoli” che succhiano linfa sottraendola alla pianta. Questo san Cristoforo è a mio avviso una figura mitica i cui contorni si erano probabilmente delineati già in epoca precristiana presso popolazioni orientali. Egli avrebbe subito il martirio in Licia nel 250 come leggo in un sito internet (wikipedia). Secondo una leggenda sarebbe stato un uomo, per taluni un gigante, che faceva il traghettatore su un fiume. Viveva solo in un bosco di cui era padrone. Una notte gli si presentò un fanciullo che gli chiese di portarlo all’altra riva. Se lo mise sulle spalle e, pur grande e robusto, si piegò sotto il peso di quell’esile creatura, che sembrava ad ogni passo pesare sempre più. In alcune versioni della leggenda cresce anche il fiume. Il gigante alla fine, stremato, raggiunge l’altra riva. Il bambino gli rivela di essere il Cristo, dicendogli anche che egli aveva portato sulle spalle il peso di tutto il mondo. Ho messo in evidenza le parole in corsivo per sottolineare che esse, a mio avviso, si possono spiegare tutte con una radice greca, quella del verbo korýssō ‘eccitare, far gonfiare, elevarsi, armarsi,ecc.’ E’ inoltre molto comprensibile, dato il nome del Santo (portatore di Cristo), che in epoca cristiana si formasse una simile leggenda, ma a me pare anche evidente che essa non si sia originata dal nulla ma da precedenti credenze o almeno sfruttando la radice di quel verbo che assuona con la parola Cristo: d’altronde k(o)rystés ‘armato, guerriero, fornito di elmo’ ne è un derivato, e potrebbe giustificare il fatto che il personagggio è considerato uno dei quattordici santi ausiliatori invocati in occasione di gravi calamità naturali o di pericoli vari, come quello della peste. In altra leggenda, in effetti, egli è considerato un guerriero antropofago (cfr. greco koré-nnymi ‘mi sazio di cibo’ che è quindi un ‘gonfiarsi’, della stessa radice di korýsso). Il gigante è il riflesso del ‘crescere, elevarsi’ significato dal verbo, come pure il crescere, ingrossarsi del fiume e l’aumento del peso del fanciullo. Il bosco di cui era padrone mi pare ancora strettamente legato al significato di ‘crescere’ del verbo nonchè ai nomi delle piante nominate precedentemente, in specie il logudorese cristas ‘sopracciglia’. Ora, tornando alla funzione di protettore dalla peste, mi pare di poterne sufficientemente capire il motivo: la forma più comune di peste, quella bubbonica, era caratterizzata dalla apparizione, appunto, di numerosi rigonfiamenti in varie parti del corpo. Secondo alcune versioni della leggenda, infine, il nome originario dell’uomo prima della conversione era Reprobus o Reprobatus: la quasi esatta traduzione in latino del partic. passato passivo ch(ō)ristheís ‘separato, respinto, ripudiato’ del verbo greco chōrízō, da cui sarà derivato anche il suo vivere da solo della leggenda. Questo, secondo me, significa che tutto il patrimonio di racconti, leggende, tradizioni popolari non può essere utilizzato per derivarne l’etimo di un nome: casomai è vero l’inverso: è proprio il nome che spiega la nascita del folclore ad esso relativo.

Ci sarebbero altre interessanti osservazioni relative a molti fitonimi di cui parla Riccardo Regis nel saggio, ma mi fermo qui, anche per non approfittare troppo della bontà del Direttore della rivista.
In ordine al significato di gigante c'è da notare che in diversi paesi della Marsica, tra cui Aielli e Luco dei Marsi, la voce Criste significa anche 'uomo grande e grosso'.



Oggi, 17 agosto 2012, ho incontrato il termine craeso-maelae del dialetto di Spinazzola-Ba che significa 'grossa defecazione'.  La parola è la stessa  di criso-mmola 'albicocca, pesca, testa' anche se è finita ad indicare il prodotto, il frutto di una abbondante defecazione.  Non tutti i cloni di uno stesso termine purtroppo sono fortunati!  ma il prodotto della defecazione può rientrare anche nel concetto di 'mucchietto, grumo, cumulo ecc.' prossimo a quello di 'rotondità, pietra, ecc.'.


Oggi, 5 settembre 2012, ho incontrato un altro splendido termine che suona carasò-mmeli e che significa 'testicoli del toro'.   La parola appartiene al dialetto del paese di Magliano Romano e riconferma il valore generico di 'rotondità, palla, protuberanza, cumulo' del termine che certo non può continuare ad essere ricondotto impunemente al greco chryso-melon 'mela d'oro', quando il greco stesso rietimologizzava un composto tautologico col valore generico suddetto che di volta in volta ne assumeva uno particolare.  Chi continua a farlo, e sono anche  grossi nomi della linguistica, non ha il diritto, a mio avviso, di risentirsi se si osserva che, così facendo, egli sembra appartenere alla preistoria della scienza etimologica.  Nel caso della parola di Magliano Romano si assiste anche ad un altro importante fenomeno: come in moltissimi composti germanici, il primo membro caraso-, che inizialmente aveva lo stesso valore del secondo e cioè 'testicolo' o 'palla'(cfr. napolet. carus-iello 'salvadanaio, palla di creta' che non deriva, quindi, dalla voce carus-are 'tosare' per via della somiglianza con una "testa rapata"! Bello fantasticare!), deve essersi incrociato con altro termine significante 'bue, toro' che ha prodotto la specializzazione del significato dell'intero composto.  In nuorese, infatti, la parola carasu vale 'bue vecchio, macilento', ma anche qui c'è stato l'incrocio col verbo carasare 'abbrustolire, rinsecchire' che ha aggiunto all'originario significato di 'bue' la qualità del rinsecchimento, e della macilenza (cfr. nuorese carasà-mene 'macilenza').  Questo termine carasu 'bue vecchio' è senz'altro in rapporto con un'altra voce dialettale diffusa nel meridione, quella di caruso nel significato di 'puledro' e anche di 'ragazzo', ma ne parlerò in uno dei prossimi  post.   

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