lunedì 10 maggio 2010

Ite, missa est

La formula latina di congedo, pronunciata un tempo dal sacerdote al termine del rito della Messa, ha dato e dà tuttora filo da torcere ai filologi e storici del cristianesimo che hanno spuntato le loro penne facendo scorrere fiumi d’inchiostro nel tentativo di venirne a capo; ad alcuni dei quali, come ad Antonino Pagliaro, non sarei forse degno, usando un'espressione forte, nemmeno di legare i lacci delle scarpe per quanto attiene alla conoscenza della materia; egli nell’opera Altri saggi di critica semantica, ediz. G. D’Anna, Messina-Firenze, 1961, pp. 129-182, scioglie l’espressione, districandosi egregiamente tra la vasta bibliografia, in ‘Andate, (l’eucarestia) è stata inviata (agli assenti e alle chiese vicine)’: al tempo delle persecuzioni si usava così. Io, non potendo sciorinare tutte le risorse di un bagaglio culturale da maestro, posso solo sperare che le mie poche frecce a disposizione colpiscano, come quelle di Artemide, con tale forza e precisione da lasciare la preda riversa sul terreno a scalciare con i piedi in aria e chi guarda col fiato sospeso.
Ripartendo dal post precedente cerchiamo di analizzare accuratamente con lo specillo il lat. galli-cin-iu(m) ‘canto del gallo, alba’. Riflettendo sui possibili rapporti tra il membro –cin- e i diversi termini luminosi con la stessa radice citati nell’articolo precedente, comincia a balenarmi nella mente la possibilità che il significato di ‘alba’ del vocabolo in questione possa essere scaturito non per semplice metonimia, con l’estensione del significato dal ‘canto del gallo’ al periodo del giorno in cui esso canta per la prima volta dopo la notte, ma per il fatto che la radice poteva avere dietro di sè un significato diverso da quello canoro con cui si presenta a noi nella lingua latina (cfr. i composti di can-ere ‘cantare’ come con-cin-ere ‘cantare insieme, essere d’accordo’, celebrare’) che giustificava anche il significato luminoso di 'alba'. Ed abbiamo visto, sempre nel post precedente, come due idee diverse di ‘luce’ e di ‘vibrazione, movimento’ si riannodino in quella sovraordinata di ‘emanazione’. In altre parole, è solo l’abitudine, per il parlante latino, ad annettere costantemente al termine quel significato specifico composto di due concetti diversi, quello di ‘gallo’ e quello di ‘canto’, a far credere a lui e a noi che il termine fosse nato proprio e solo per questo scopo. Ma noi che seguiamo il principio saussuriano che non mi stancherò mai di ricordare (si vedano i post precedenti) vigiliamo con le orecchie tese e gli occhi ben aperti perchè diamo ormai per scontato che nelle parole si sia attuata nel corso del tempo una sorta di eterogenesi dei fini, per la quale bisogna andare molto spesso a cercare dietro i significati specifici di arrivo quelli molto più generici di partenza. Così a mio avviso si deve riconoscere che, nel caso del nostro vocabolo, ci sia stata una fase temporale in cui esso non ancora significava nè ‘canto del gallo’ nè ‘alba’ ma qualcosa come ‘ vibrazione, forza, spirito, essere vivente’ in ambo i membri (cfr. la radice kyn per ‘cane’ in greco e quella di ted. Huhn ‘pollo, gallina’, ted. Henne ‘gallina’). Pertanto non posso vedere di buon occhio la radice che i linguisti scorgono nel ted. Hahn ‘gallo’, cioè quella di lat. can-ere ‘cantare’ a meno che non se ne estenda il significato sino a comprendervi anche quello di lat. can-(um) ‘bianco, argenteo, biondeggiante’, il quale, quindi, non ha alcun bisogno di essere riportato alla voce casnar ‘vecchio’ dei dialetti sabellici. Di conseguenza anche il gr. ēї-kan-ós ‘gallo’, letter. ‘che canta all’alba (ēї-)’ va inteso come composto tautologico che all’origine poteva indicare anche solo l’alba insieme con il parallelo termine dell’a. ind. usa-kala ‘gallo’, letter. ‘che chiama(cfr. sscr. kal-as ‘sonoro’) all’alba (usa-)’, il cui secondo membro si è incrociato con gr. kalé-o ‘chiamare’, a. a. ted. hal-on ‘chiamare’, ted. Hall 'suono'. L’ingl. to call ‘chiamare’ evidentemente rimanda ad una variante della radice precedente che si incontra, ad esempio, nel ted. gell ‘sonoro’, variante a sua volta di ted. hell ‘chiaro, luminoso, sonoro, acuto’, nell’a. slavo gla-gol-iti ‘parlare’ che presenta il raddoppiamento –gol-. Queste voci per ‘gallo’ riconfermano il sacrosanto principio che la nominazione, all’origine, non obbediva alla volontà di indicare le funzioni o le caratteristiche, più o meno ornamentali, del referente da esprimere, ma unicamente alla indicazione del referente in sè. Poi, strada facendo, si direbbe che siano spuntati come funghi i significati più vari, a causa degli incroci con altri termini che del resto provenivano in genere dalla stessa radice col suo significato generico d’origine. Date queste corrispondenze come poteva, di grazia, il ‘gallo’ non diventare in Grecia sacro al sole? (cfr. R. Graves, I miti greci, Ediz. CDE spa, Milano, 1985, p.138). Per di più il suo nome usuale alek-trýōn, alék-trōn, alék-tōr non è molto diverso da gr. ēlék-tōr ‘raggiante, splendente’ e anche, come sostantivo,‘sole’.
Ora, si dà il caso che nella lingua spagnola si incontri l’espressione misa de gallo ‘messa di mezzanotte di Natale’ che nelle Filippine, le quali hanno conosciuta la dominazione spagnola, può durare fino all’alba. La missa de puddu (logud.) in Sardegna ha lo stesso significato dell’espressione spagnola, per cui si pensa che quella sarda ne sia un semplice calco, data la presenza storica degli spagnoli in Sardegna (cfr. Cortellazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998, sub voce). Ma la questione non è così semplice, perchè in sardo esistono vocaboli come im-pudd-ile (logudorese), im-podd-ile (nuorese) che significano ‘alba’ e che contengono al loro interno la voce puddu ‘pollo, gallo’ la quale però, come ho estesamente spiegato nel post Parole sarde del Duls (giugno 2009) a cui rimando, doveva aver avuto in tempi remotissimi il significato di ‘alba’, non potendo quest’ultimo d’altronde derivare, come ho in quel luogo mostrato, dal significato di ‘pollo, gallo’ a cui essa fa riferimento in superficie. Si incontra anche la forma puddile(s) (logudorese) che, oltre al significato di ‘alba’, ritiene anfibologicamente anche quello di ‘pollaio’. Allora si deve rigorosamente dedurre che la missa de puddu (l'espressione ricorre più o meno in tutta l'isola: cfr. messa di puddu in sassarese, miss'e caboni in campidanese), designando la messa di Natale che poteva arrivare in alcuni casi anche all’alba, non può mettersi in rapporto con l’espressione spagnola, anche perchè esiste nella tradizione liturgica una messa dell’alba di Natale diversa da quella di mezzanotte. Seguendo sempre la stessa linea di rigoroso ragionamento si deve dedurre che se la voce puddu va sistemata in qualche lingua del lontanissimo passato, allora anche la voce missa, ad essa legata a filo doppio, può avere un significato credibile solo se la si riconduce ugualmente ad una civiltà sfumante nella preistoria, soprattutto perchè nel periodo di tempo intorno al solstizio d'inverno non mancavano, presso tutti i popoli preistorici, feste religiose con relative cerimonie e usanze rituali che avrebbero potuto facilmente trasferire alla sopravveniente religione cristiana tratti della loro mitologia, non esclusa qualche parola sacra o qualche formula. E' un fatto, poi, che la voce puddu da sola non conserva in nessuna parlata sarda il significato di 'alba' bensì solo quello di 'pollo, gallo' che dovette oscurare l'altro significato probabilmente con l'arrivo del latino nell'isola, ben in anticipo rispetto alla diffusione in essa del cristianesimo e della parola messa della relativa funzione religiosa. A mio avviso anche qui, come per il caso simile di lat. galli-cin-iu(m), ci troviamo di fronte a venerandi reperti di parole preistoriche che avevano lo stesso significato di ‘alba, aurora, sorgere del sole’ e che nella lunga marcia per arrivare fino ai nostri giorni hanno dovuto far salire sul loro carro qualche altra parola con altri significati . Il ‘gallo’ della spagnola misa de gallo deve essere pertanto comparato con le radici luminose più sopra citate.
Illustri studiosi affermano che la festa cristiana del Natale andò a sovrapporsi ad antichissime e spettacolari celebrazioni pagane legate al ciclo del sole e al solstizio d’inverno. La gente durava fatica a staccarsi completamente da esse e pertanto la Chiesa, nella sua saggezza, attuò una politica di compromissione mirante al sincretismo e sembra certo che spostò a quella data la grande ricorrenza della nascita di Cristo, “preoccupata dalla straordinaria diffusione dei culti solari e soprattutto dal mitraismo che, con la sua morale e spiritualità non dissimili dal cristianesimo, poteva frenare se non arrestare la diffusione del Vangelo” (cfr. Alfredo Cattabiani, Calendario, Ediz. Mondolibri spa, Milano, 2003, p.70). Sembra, secondo alcuni, che la forma a raggiera dell’ostensorio, sia un chiaro simbolo del sole. D’altronde non si trattava di un accostamento innaturale perchè a partire dall’Antico Testamento Gesù veniva preannunciato dai profeti come Luce e Sole e nei primi secoli del cristianesimo il fatto era abituale come ci attesta l'apologeta Tertulliano: “Altri [...] ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perchè è un fatto notorio che noi preghiamo orientati verso il sole che sorge e che nel giorno del Sole ci diamo alla gioia, a dire il vero per una ragione del tutto diversa da quella dell’adorazione del sole” (cfr. Cattabiani, cit. pp. 70-71). Il giorno del Sole è quello che poi sarà chiamato dominica 'domenica' in onore del Signore anche se esso è rimasto consacrato al Sole nelle lingue germaniche (cfr, ted. Sonn-tag, ingl. sun-day, letter. ‘giorno del sole’) , giorno in cui si rinnovava il servizio divino della Santa Messa collegata in qualche modo a riti in onore dell’astro della luce diurna. Così stando le cose era inevitabile che, anche al livello del rito, avvenissero contaminazioni sincretistiche tra le vecchie formule e le nuove. Pertanto la mia idea è che la formula di congedo Ite, missa est ne continuasse una precedente al cristianesimo (probabilmente già fraintesa e abbastanza oscura per gli stessi pagani dediti al culto del Sole, i quali potevano averne elaborato comunque il senso erroneo di messa come ‘cerimonia religiosa’, o qualcosa di simile), con il valore originario di “Andate, è l’alba’, espressione pronunciata dall’officiante nel contesto dell’uso diffuso, non solo nell’ambito del cristianesimo, di attendere in veglia lo spuntare del nuovo e risorto Sole, dopo l’apparente sua morte protrattasi nei giorni 22, 23, 24 dicembre quando esso sembra arrestare la sua corsa nel cielo senza andare nè avanti nè indietro, subito dopo il giorno del solstizio (21 dic.). Anche presso i romani la vigilia 'veglia religiosa' era molto diffusa almeno per le festività maggiori. La formula così segnava la fine del rito e nel contempo infondeva un un senso di conforto ed ottimismo nell'animo di coloro che agli albori dell’umanità potevano veramente credere che la divinità potesse abbandonare gli uomini nel freddo, nel gelo e nella disperazione. Potè verificarsi che questa formula fosse mantenuta intatta per dare la sensazione, agli adepti della nuova religione e sopratutto a quelli che esitavano ad abbracciarla, che in fondo si trattava del vecchio rito se esso si concludeva con le stesse parole di prima. E’ certamente una singolare coincidenza quella della Santa Anastasia, che la Chiesa venera il 25 dicembre, e che, sin dai primi secoli (III-IV sec.) del cristianesimo, aveva una basilica sul Palatino, dove si celebravano tre messe e la seconda (alba) era dedicata alla Santa. Gli è che il termine aná-stasis, da cui deriva il suo nome, in greco significa 'il sorgere, il risveglio', e può così riferirsi direttamente alla resurrezione del Sole del 25 dicembre.
Il significato di ‘alba, luce’ della parola misa, missa (non può essere accettata la spiegazione che si basa sul tardo latino missa ‘il lasciare andare’ per la sua banalità: il tutto significherebbe infatti ‘Andate, questo è il congedo’) ci è garantito, oltre che dal ragionamento sopra seguito, anche dal nome di un gioco che in passato era comune nel paese di Cerchio-Aq e che era chiamato mesa-luna, letter. ‘mezza luna’, il classico gioco di testa e/o croce (cfr. Fiorenzo Amiconi, La zurla, Museo civico di Cerchio-Aq, Anno VIII 2005, Quaderno 61, pp. 30-31). Senza stare a descrivere i dettagli del gioco, esso consisteva essenzialmente nel lanciare in aria una moneta imprimendole un moto rotatorio e nello scommettere quale faccia della moneta stesse rivolta verso l’alto una volta ricaduta a terra. Ora, il significato apparente di mesa-luna ‘mezzaluna’ non ha senso alcuno nel contesto, ma se si pon mente al fatto che la moneta è legata alla dea della luna Giunone che d’altronde aveva l’appellativo di Moneta come abbiamo visto nel post precedente , allora si potrà capire che il valore originario dell’espressione poteva riguardare in ambo i suoi membri la moneta stessa, e il suo roteare nell’aria alludeva probabilmente al corso della luna in cielo e al variare della sua faccia nel giro del mese, da sempre metafora del mutare incessante della Fortuna e dell’umore negli esseri umani a tal punto che essi, sotto questi influssi celesti, potevano diventare anche folli: cfr. ingl. lunatic ‘pazzo, squilibrato’. Il nominativo dorico mēs, ionico meís ‘mese, luna’, gen. mēn-ós non è detto che provenga dal supposto *mēns ma può essere un autonomo ampliamento della radice - come anche il sscr. mās, mās-as ‘luna, mese’. Si incontra in sardo la voce mis-one (logud.) ‘fermento, lievito’, variante di miss-one (nuor.) ’fermento, lievito’ la cui idea di 'fervore' è molto simile a quella dello ‘scintillio’ . A queste voci collegherei anche il serbo-croato misao 'pensiero' (concetto che nel post precedente abbiamo visto espresso dalla radice men usata per 'luna' e 'mente') e i termini piemontesi misun-éra, meisunì-ara ‘lucciola’, letter. ‘mietitrice’, che ci riporta più direttamente alla luce. Notizia molto interessante, nell'ambito del gioco della mesa-luna, è quella che l'Amiconi ci fornisce con l'espressione testa o vacca, la quale sostituiva la universalmente nota testa o croce. E' facile notare, per chi ha frequentato il liceo classico, che la vacca era l'animale sacro a Era-Giunone e che uno degli epiteti di questa divinità suonava in greco bo-opis 'dagli occhi bovini'. Sarebbe in verità meglio intendere l'aggettivo come 'dalle fattezze di vacca' perchè nella forma di questo animale veniva probabilmente rappresentata la dea in una remota fase teriomorfa del culto. Nelle monete coniate, già dal VII sec. a. C., nell'isola di Samo, dove esisteva un famoso tempio di Era, compariva l'immagine di una vacca. Non è pertanto fuori luogo supporre che la moneta che avrà dato il nome al gioco della mesa-luna a Cerchio, in epoca da definirsi (ho l'impressione che l'inizio della monetazione nel Mediterraneo debba essere di molto retrodatato), portasse impressa in una faccia la figura della vacca e nell'altra la sua testa o quella antropomorfa della divinità. E' certamente curiosa la corrispondenza tra il nome del monte Kerk-is, il più alto della catena del Kerk-eteus che attraversa per il lungo tutta l'isola di Samo, e la base del toponimo Cerchio da Circ-ulu(m), per il quale rimando al post Il nome del paese di Cerchio (luglio 2009).
Il Pagliaro ha forse compiuto il tentativo più serio, consapevole e articolato per aprire il senso nascosto della formula suddetta con gli strumenti della linguistica tradizionale, ma naturalmente non poteva sfruttare i mezzi, semplici eppure profondi, che mi sono con dovizia offerti dalla mia certamente non canonica visione dei fenomeni linguistici. Sta ad altri, naturalmente, confermarne la validità, che a me sembra, senza falsa modestia, scontata. E’ essenzialmente l’enorme elasticità del significato di fondo della parola, a mio avviso incontrovertibile, che va a scompigliare, con l’effetto di un improvviso turbine tempestoso, quasi tutte le carte e le regole del gioco fissate da alcuni secoli di linguistica cosiddetta scientifica, la quale peraltro annovera studiosi il cui solo nome suscita in me, nonostante tutto, una sorta di timore reverenziale.

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