martedì 4 maggio 2010

La luna e la luce

Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
tra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care
mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
sembianze agli occhi miei;
(G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo,1822)



E’ dolce ricordare questi tersi teneri delicati versi con cui il Leopardi descrive, per bocca della furente disperata ardente Saffo e con tocchi da finissimo maestro, lo svanire della notte con la luna che lieve tramonta e cede pudibonda il passo, nel silenzio attonito della selva, allo spuntar della stella del mattino, Venere, mentre mi accingo a indagare con rinnovato slancio i significati di vari vocaboli per ‘luna’. Speriamo sia di buon auspicio.
Mi ha sempre lasciato dubbioso il fatto che tutti i linguisti attribuiscono ad una radice -, ‘misurare’, ampliata in modi diversi, l’origine dei molti termini germanici, e non solo, per ‘luna’ come ingl. moon, ted. Mond, a. a. ted. mano, got. mena, gr. mene, pers. maneg ‘luna’. Il loro ragionamento probabilmente parte dalla considerazione che in queste lingue non esiste una radice simile alla precedente per ‘brillare’ e che quindi la ‘luna’, già dall’origine, sia stata considerata, in questo caso, come ‘colei che misura il tempo delle stagioni’ col suo ciclo mensile. Infatti la stessa radice serve ad indicare spesso anche la nozione di ‘mese’ come in lat. mens-is, gr. men, ingl. month, ted. Monat. Questa considerazione, però, mi sembra abbastanza innaturale. Anche a voler ammettere che la misurazione del tempo sia iniziata quando l’uomo cominciava ad elaborare lo strumento del linguaggio, non si può da questo inferire che egli l’abbia vista, la luna, per la prima volta come una misuratrice trascurando la registrazione della sua natura che è quella di essere la più luminosa tra le tante facelle della notte! E in effetti tutti i termini che io conosco per ‘luna’ fanno capo alla nozione di ‘luce, luminosità’ e simili: cfr. lat. luna da* luc-na, *louk-s-na (cfr. lat. lucem ‘luce’), gr. seléne ‘luna’ da sélas ‘splendore, raggio, scintilla’, sscr candrama ‘luna’ (letter. ‘la lucente’, cfr lat. cand-idu(m) ‘candido, lucente, splendente’), a. slavo luča ‘raggio, luna’, gr. mod. phéggari ‘luna’ da phéggos ‘splendore’, alban. ghego hane ‘luna’ da gr. gános ‘splendore’, alban. hënë ‘luna’. Con questo quadro di riferimento, per quanto limitato, mi sento più che sicuro nel supporre che tutti gli altri innumerevoli appellativi per ‘luna’ nelle varie lingue e dialetti sparsi su tutta la terra debbono rimandare all’idea primordiale e costitutiva dell’astro, visto senz’altro con disinteressato stupore dai primi uomini parlanti, anche quando il significato apparente dovesse essere diverso a causa dei sempre facili incroci della radice originariamente luminosa con quella di parole con altri significati. In questo modo si confermerebbe anche l’assunto, più volte ricordato, secondo cui la lingua nomina i referenti chiamandoli per quello che sono e non per le funzioni che potrebbero svolgere, anche se importanti.
Una spina nel fianco alla tesi comune è rappresentata, a mio avviso, dal pers. mahnaksplendere della luna’, termine che ci spinge pertanto a trovare una soluzione diversa al problema etimologico della radice la quale doveva inquadrarsi così nell’ambito delle tante altre indicanti la ‘luce’ e lo ‘splendore’. Mi viene in mente l’epiteto esiodeo (cfr. Esiodo, Teogonia, 426) muno-genés ‘uni-genita (-genés)’ riferito ad Ecate, divinità della luna, chiamata talora anche Munikhía, simile a pers. maneg ‘luna’ e alle scintille chiamate in italiano monach-ine. Ma perchè mai questa divinità lunare, con poteri in cielo, in terra e in mare, doveva essere una ‘figlia unica’, come ribadisce più volte Esiodo, anche se, nata da Perse ed Asteria, doveva avere fratelli e/o sorelle, dato che secondo altre tradizioni i suoi genitori avevano avuto altri figli? Quale ne possa essere la motivazione profonda è inutile sperare di saperlo andando a scrutare tra le pieghe del mito che in questo caso, come nella maggior parte degli altri, è pronto a contraddirsi e a disperdersi in tanti rivoli. L’unica via che ci possa aprire un pertugio ed illuminarci è costituita dall’analisi dei nomi stessi. Ecate è figlia di Asteria la cui radice allude chiaramente alla luce dei corpi celesti. Asteria era a sua volta figlia di Febe (Phoíbe ‘splendente’), fondatrice dell’oracolo di Apollo a Delfi, che poi donò al nipote Apollo, divinità nota a tutti con l’appellativo di Phoíbos (Febo)‘splendente’. Tutto ruota intorno al concetto di ‘luce’ e allo stesso modo della falena che ne è attratta irresistibilmente noi dobbiamo insistere su questa linea interpretativa a costo di perderci anche nelle mere supposizioni. Ma ho fiducia che questo non accadrà, perchè è possibile trovare il bandolo di tutta la matassa.
Ritornando all’epiteto mouno-genés, mono-genés mi balza agli occhi la somiglianza del secondo costituente con le voci albanesi sopra citate hane, hënë ‘luna’ dal gr. gános ‘splendore’ (cfr. O. Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, presente in rete) e allora non resta che prendere atto, secondo me, del fatto che anche qui ci troviamo di fronte ad uno dei tanti composti tautologici col medesimo significato di ‘luce, luna’ in ambo i membri. Per il significato nascosto sotto a –genés si confronti il turco gűnes ‘sole’, l’arabo ganni ‘rosso’, l’espressione greca (Alessi, IV sec. a.C.) kýnes Hephaístu ‘scintille’, letter. ‘cani di Efesto’ cioè della divinità del fuoco che secondo Eliano (II-III sec. d.C.) aveva un tempio nella città di Etna dove si conservava il fuoco inestinguibile guardato da cani sacri, le espressioni inglesi di queen’s weathersole, bel tempo’ letter. ‘tempo della regina (queen’s)’ e di queen’s ware ‘terraglie color crema’, letter. ‘ terraglie (ware) della regina’, nonchè i seguenti nomi di pesci dalla coloritura argentea come queen-fish, chen-fish, king-fish di cui non so la traduzione in italiano. Si badi bene, probabilmente il significato originario dei primi costituenti di questi nomi dovette essere quello di ‘pesce’ nel senso di ‘animale’, incrociatosi poi con l’altro significato di ‘sole, argento, luce’ della radice e adattatosi ad aggiustamenti vari per via della sempre attiva etimologia popolare. Anche Giunone, divinità lunare moglie di Giove, aveva il suo bravo epiteto di Mon-eta ‘avvertitrice (verbo mon-ere)’ che, vedi caso, sembra però la copia del ted. Mon-at ‘mese’. L’idea di ‘mese’ a questo punto credo sia meglio considerarla come derivata da un uso estensivo della radice che indicò dapprima la ‘luna’ in quanto ‘luce’ e non ‘misuratrice’, per poi diventare, incrociandosi con la radice m e- (misura), utile strumento di suddivisione dell’anno in diversi cicli mensili corrispondenti al tempo di rotazione e rivoluzione della luna intorno alla terra. La dea aveva una figlia, Min-erva, divinità della saggezza, che col primo elemento del nome sembra richiamare la radice men di lat. mente(m). Quale potrebbe essere allora il legame fra la luce e la mente? La ‘luce’ a mio parere si profila, nella mente dell’uomo delle origini, come una ‘forza, emanazione, movimento’, segno di una vitalità insita in tutti gli esseri viventi ma specialmente in alcuni. Abbiamo visto nel post precedente come la radice in questione potesse assumere anche il significato di ‘furoreggiare, agitarsi’ nel greco main-o e nel gr. ménos ‘furia, impeto, forza vitale’; il legame tra il concetto di ‘agitazione’ e quello di ‘luce’, per quanto ora a noi sembri quasi impensabile, è dimostrato invece da alcuni termini come il lat. vibr-are ‘vibrare, brandire, scuotere, lanciare, tremare, oscillare, scintillare, splendere’, lat. corusc-are ‘vibrare, brandire, cozzare, muoversi, brillare, balenare’, gr. aíth-o ‘ardere, accendere, splendere’ confrontato con gr. aith-ýss-o ‘scuoto, suscito, mi agito, tremolo, risplendo’, gr. di-aith-ýss-o ‘scuoto, sconvolgo, soffio’, gr. par-aith-ýss-o ‘porre in movimento, eccitare, passare volando’, gr. kat-aith-ýss-o ‘faccio splendere, illumino, ondeggio, balzo su’. Ci saranno anche altri termini simili che ci fanno capire come si possa passare, con assoluta naturalezza, dal concetto di ‘movimento’ a quello di ‘vibrazione’ in tutti i sensi, compreso quello della fiamma, che rispecchia la sua natura profonda, la quale vuole essere in perenne movimento, e , per questa strada, porge all’uomo onomaturgo idee e parole per farsi nominare. Questo stretto rapporto, poi, tra il concetto di luce e quello di mente ci permette di supporre che esso sussista anche dentro il concetto di uomo più sopra abbinato a quello di mente a proposito di ted. Mann ‘uomo’( per maggiore chiarezza cfr. il post Parole sarde del Duls). Esso riceve una valida conferma dall’ant. ted. mond ‘uomo’, variante di ted. Mann, che, vedi caso, è l’esatta copia di ted. Mond ‘luna’. Ancora oggi in questa lingua si incontra l’espressione so ein trauriger Mond! ‘pover’uomo!’, letter. ‘povera luna!’(cfr. il sscr. pra-mantha ‘fiaccola, svastica’) nella coscienza del parlante medio. Quanto facilmente un significato può inavvertitamente trascolorare in un altro in apparenza del tutto diverso! A proposito delle note espressioni omeriche come ménos Alkínoio ‘la possa di Alcinoo, la persona di Alcinoo, Alcinoo’, che secondo me sono una dimostrazione del passaggio in fieri del termine ménos dal significato generico di ‘spirito vitale’ a quello di ‘uomo’ tout court si rimanda al post Fonte della Vita e fonte Vipera... Anche l’Aurora secondo Euripide (cfr. Oreste, 1004: monó-pōlon...Aō) aveva, poveretta, un cocchio trainato da un solo cavallo (põlos ‘puledro, cavallo’), anche se Omero ne indica due, Lampo e Fetonte (Splendente), i cui nomi sono già tutto un programma, ma per un’analisi più accurata delle due componenti di monó-pōlon si veda il post Parole sarde del Duls.
Nessuno, che io sappia, ha mai notato la presenza di stupefacenti coincidenze tra il nome della dea Ecate ed altri a lei connessi. Le feste in suo onore venivano celebrate in Grecia il trigesimo di ogni mese, in greco tri-ekás, tri-ekád-os ‘trenta del mese’, il cui secondo membro, combaciando col nome della dea, evidentemente determinò la fissazione della solennità in quella data. Ma l’intero nome, così inteso, andava a corrispondere anche ad un altro raro epiteto di Ecate, ossia tri-sélenos, inteso come ‘nata nella terza notte’ da G. Gemoll nel suo famoso dizionario per i licei, ediz. Sandron, Firenze, 1922. Per la verità l’epiteto si accompagnava anche ad Eracle, divinità complessa ma molto probabilmente di origine solare. Egli sarebbe nato come frutto dei teneri amplessi che avvinghiarono, in una notte artificialmente prolungata fino a raggiungere la lunghezza di tre, l’infedele Zeus e la mortale bellissima Alc-mena. Il sentore della presenza di Ecate si avverte anche in qualche festività dell’antica India come l’ Ekadasi ‘Undicesimo’, un particolare giorno di digiuno della tradizione vedica durante il quale più intenso si faceva il ricordo di Krishna, divinità suprema ! La ricorrenza cadeva appunto l’undicesimo giorno della luna crescente e della luna calante e il nome mi sembra un clone delle Ecatesie, feste celebrate in molte città greche in onore di Ecate.
A questo punto è importantissimo, a mio avviso, notare che tutto il bagaglio tradizionale di feste, ricorrenze, usanze religiose, racconti , aneddoti, e il mito stesso sono un effetto provocato dall’incrocio delle parole attraverso i millenni: non si può sostenere a cuor leggero che sia avvenuto il movimento inverso, che cioè, ad esempio, l’epiteto tri-sélenos sia stato attribuito ad Eracle in conseguenza della lunghissima notte di cui sopra, ma è molto più naturale pensare che esso fosse un antico trasparente termine di una divinità solare o lunare. D’altronde la componente tri- si ripresenta anche in lat. Tri-via, epiteto di Diana o Ecate venerata nei trivi, in lat. septem tri-ones ‘sette buoi’, cioè le stelle dell’Orsa, oltre che in gr. Tri-ópios, epiteto di Apollo nella città di Cnido in Caria, che, vedi caso, non ha acquisito un valore particolare per il semplice motivo che la radice si prestava a formare il significato di ‘dalla triplice voce’ o ‘dalla triplice vista, dai tre occhi’, significati troppo distanti dalla tradizione antichissima del dio Apollo che ne faceva un essere dall’aspetto normale. Ma Artemide, dea per molti versi simile a Diana o Ecate, aveva anche l’applellativo di tri-klãria ‘che per tre volte assegna le sorti (klãros)’, che aveva probabilmente una sua giustificazione perchè ad esempio Apollo, a Delfi, traeva a sorte, per mezzo dei suoi sacerdoti, l’ordine degli interroganti (cfr. Euripide, Ione, v. 908). Ma anche qui bisogna credere che l'uso sia scaturito dal nome e che dietro il secondo membro – klãria dorma una radice uguale a quella di lat. claru(m) ‘chiaro, squillante, lucente’. Il gr. Klários, epiteto di Zeus ed Apollo, divinità che avevano un culto nella città di Claro, nella Ionia, definita non per nulla aigláessa ‘splendida, luminosa’ nell’inno omerico ad Apollo (v.40). Infine anche le Trie (Thriaí), le tre nutrici di Apollo che insegnarono ad Ermes l’arte di predire il futuro osservando la disposizione dei sassolini (cfr. gr.thri-aí ‘sassolini, pietruzze) in un catino pieno d’acqua, debbono far parte di questa fantastica girandola che si avvita su sè stessa, e che dovrebbe richiamare l’attenzione di chi indaga. Non costituisce quindi un problema che la dea fosse chiamata anche tri-forme. Naturalmente la componente tri- è andata a coprire una precedente radice per ‘luce, fuoco’. Non ricordo se in norvegese o svedese dialettali si incontra una radice tir o tira per ‘stella’, comunque possiamo attingere al sscr. tara ‘stella’ probabilmente dalla radice tri ‘attraversare’ con l’idea del movimento che ben si attaglia all' irraggiarsi della luce. Il gr. tér-as ‘ astro, stella, presagio, mostro’ accompagnato da gr. teír-os (usato solo al pl.)‘ segno celeste, astro, costellazione’ e da quella che considero una variante, sia nella forma che nel significato, cioè gr. thér-os ‘estate, stagione calda’, gr. therm-ós ‘caldo, ardente, infocato’ sono più che sufficienti a spiegare il valore luminoso di tri-. Se si fa attenzione si nota che l’inverso di gr. tér-as dà gr. as-tér ‘astro, stella’, cfr. ted. Oester-reich 'Austria' letter. 'territorio orientale (Oester-)' . Non condivido, infatti, l’etimologia corrente di quest’ultima parola che viene collegata al ted. Stern ‘stella’, ingl. star ‘stella’ da (a)stér perchè preferisco per questi termini tirare in ballo il sscr. stri ‘ spargere’ che mi pare simile al lat. stern-ere ‘stendere, spandere’ e financo al lat. sidus, sider-is ‘stella’, oltre che all’ingl. strew ‘sparpagliare, spargere’. Pertanto io penso che l’espressione omerica (cfr. Il. XXIII, 177) relativa al fuoco che Achille appicca alla pira di Patroclo, e cioè pyrós ménos...sidēre-on, letter. ‘la forza (ménos) ferrea (sidēre-on) del fuoco (pyr-ós)’ non vada intesa come ‘la forza indomabile, implacabile del fuoco’ dando un senso figurato a ‘ferrea’, ma come ‘la forza luminosa del fuoco’, credendo che sotto l’aggettivo sidēre-on operi in questo caso la radice di lat. sidere-u(m) ‘sidereo, scintillante, lucente’ e non quella di greco sídēre-os ‘ferreo, duro, crudele’. Se vogliamo mantenere il senso di ‘durezza, ostinazione’ dobbiano vederlo come specchio dell’indole profonda della fiamma o del fuoco che, come dicevo più sopra, è tutta nella pertinace, incontenibile, irrefrenabile vitalità e mobilità degli stessi e non implica un nostro giudizio morale sulle eventuali conseguenze, talora nefaste, degli incendi. E’ vero che il senso figurato potrebbe anche essere accettato, ma nel contempo non si può negare che l’altro è più naturale e non suscita, a ben riflettere, quel sottile stridore che mi sembra di notare nella volontà di indicare una qualità del ‘fuoco’ ricorrendo all’idea di ‘ferro’, ben presente nell’aggettivo in questione, anche nella coscienza del locutore medio. Abbiamo visto che ménos è termine generico per qualsiasi tipo di ‘forza, vitalità’, compresa quella della luce lunare, ed è proprio questa luminosità che l’aggettivo sidēre-on voleva all’origine sottolineare. Il lat. sider-is coinvolge altri termini interessanti come lat. con-sider-are ‘considerare, osservare’, lat. de-sider-are ‘desiderare’, it. as-sider-are per i quali, va da sè, non mi soddifano le solite proposte, ma ne rimando l’interpretazione ad altra occasione. La forma sider-is a mio avviso può benissimo essere variante della radice di ted. Stern ‘stella’ alla quale si potè arrivare forse del tutto naturalmente se l’accento tonico si fosse spostato, per qualche motivo a me ignoto, dalla terzultima alla penultima, con successiva normale caduta della vocale -i- e trasformazione della dentale sonora in sorda –t-, per assimilazione alla spirante sorda –s-. Qualcosa di simile è accaduto, per l’accento, tra il lat. luna ‘luna’ da *lùcna e lat. Lucìna , dea della luce, ed epiteto di Diana e Giunone, divinità lunari. Forse di lat. sider-is esisteva una variante con la –e- lunga sidēr-is, come nel termine greco ad esso da me collegato, e per la legge della penultima l’accento andò a posarsi su di essa. Per la difficoltà rappresentata dal fenomeno del rotacismo della sibilante –s-, presente ancora nel nominativo, si potrebbe prospettare la seguente soluzione. La parola in origine presentava una radice non con la sibilante ma con la liquida –r-: la forma non rotata del nominativo sarebbe solo la conseguenza di un fenomeno analogico, di allineamento con i tanti altri termini come vellus, veller-is; vulnus, vulner-is; opus, operis ecc. D’altronde io sono propenso a credere che il fenomeno del rotacismo sia in gran parte dovuto o per lo meno sia stato innescato da semplici sostituzioni di radici simili già ad esso preesistenti e non presupponga, quindi, la trasformazione automatica della sibilante in liquida alveolare, giacchè esso non coinvolge ogni –s- intervocalica, ma presenta diverse eccezioni, non sempre, o difficilmente, spiegabili. Il termine lat. aura ‘soffio, aria’ di provenienza greca (aúra) presenta, ad esempio, anche il significato di ‘scintillio’ (cfr. Virgilio, Aen., VI, 204) nell’espressione aura auri ‘scintillio dell’oro’, di ‘eco’, di ‘vampa (del sole)’, il che mi fa pensare che circolasse anche una radice con la –r- oltre a quella con la –s- di ausom ‘oro’, attestata presso i Sabini. E infatti i vari significati sopra indicati di aura in latino costringono a pensare che i concetti di ‘aria’, ‘luce’, ‘eco’ rientrano tutti in quello sovraordinato di ‘emanazione’. E non è un caso che il titano Astreo, il cui nome ridesta l’idea di ‘luce’, generasse da Eos i Venti, che più frequentemente sono detti figli di Eolo (gr. Aíolos), il cui nome è veramente tutto un programma se si compara con l’aggettivo gr. aiólos ‘agile, veloce, astuto, cangiante, scintillante’, cosa che conferma quello che dicevo testè sulla corrispondenza segreta (ma non tanto) tra concetti che possono a prima vista sembrare poco o molto diversi tra loro. Il greco aúri-on ‘di mattina’ è una garanzia, insieme al lat. aur-a ‘scintillio’ di cui sopra, che il lat. aur-ora ‘aurora, alba’ possa fare a meno del rotacismo che la vuole derivata da un precedente *aus-osa. Il gr. aúra aveva anche il significato specifico di ‘brezza del mattino’ con questo valore aggiunto di mattino che quindi, data la circolazione di una radice sosia col valore di ‘luce, alba’, non era assolutamente immotivato. Si direbbe che nulla è senza spiegazione nella lingua. A conclusione di questo articolo, una volta per me assodato che le parole sono legate a filo doppio da rapporti profondi di sinestesia, mi pare bello leggere il famoso sonetto Correspondences, tratto dalla raccolta Les fleurs du mal, di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, Charles Baudelaire.


La Nature est un temple où de vivant piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfumes, les couleures et les sons se répondent.

Il est des parfums frais comme de chairs d’enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
-Et d’autres, corrompus, riches et triomphant,

Ayant l’expansion de choses infinies,
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens.
Qui chantent les transports de l’esprit et des sens
.

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