sabato 25 giugno 2011

Salvadanaio delle parole




Le parole, se si è in grado di rispettarle e di osservarle senza pregiudizi e senza fretta, rivelano spesso grandi pacifiche verità .
Mettiamo insieme queste due voci del dialetto abruzzese (1) e guardiamole:


1) Rinàle 'orinale'
2) Rinaròle 'salvadanaio'


Che ci sia una forte somiglianza formale è evidente, specie se si considera che in rinaròle si è consumata una probabile dissimilazione tra le due /l/ delle due sillabe finali di un originario *rinalòle. Poi notiamo che i due significati hanno molto in comune, anche se la cosa può passare inavvertita o suonare irrilevante: si tratta di due recipienti, due cavità. Se siamo convinti di ciò, allora possiamo fare con calma un altro passo che sarà quello decisivo, e cioè notare che l'etimo che comunemente e concordemente si dà per rinàle o orinale, non è così sicuro come sembra. L' urina, insomma, non può essere la causa della sua origine se nel rinaròle 'salvadanaio', che pure è composto con quasi le stesse sillabe dell'altro termine, non si ha l'abitudine di versare e conservare urina, pur essendo sostanzialmente un 'vaso'. Allora ecco che scocca nel nostro cervello la scintilla della possibilità che l'uno e l'altro termine traggano i loro natali dalla radice di lat. urna(m) 'urna', ad esempio, attraverso una forma *urnale(m) simile a quella di urinale(m) posta all'origine di it. orinale. Ci convinciamo, poi, che non può essere diversamente soprattutto se diamo il giusto rilievo al principio altre volte da me dichiarato e verificato, secondo cui la Lingua non ama indicare gli oggetti in base alle loro funzioni o caratteristiche particolari, come è abituata a pensare una mente del XXI secolo portata ad apprezzare le cose in quanto dotate di tutti i sofisticati optionals messi a disposizione dalla società industriale avanzata, ma solo in base alla loro nuda essenza, in questo caso quella di un 'recipiente'.


Il principio può sembrare in contrasto con quello saussuriano più volte ricordato, secondo cui è vano pensare che le parole siano nate in vista dei concetti da esprimere, ma non lo è, perchè quello saussuriano è applicabile ai significati di superficie non a quello più profondo.


Prendiamo altre due parole abruzzesi (1) come:


1) Ranga-sècche 'magro'


2)Rregnichìte, detto di persona 'molto magra', pettegola e poco socievole.


Stante il fatto più e più volte sottolineato della composizione tautologica, che doveva essere una caratteristica comune delle lingue preistoriche, è da dedurne che il significato della componente ranga- è uguale a quello di -sècche 'secco, magro'. Infatti esso è esplicitamente riconfermato nella voce rregnichìte 'molto magro' -è presente anche una variante metatetica gnirrichìte (2)-, la quale, ripulita dalle escrescenze sviluppatesi intorno al radicale (raddoppiamento espressivo della -r- iniziale, doppio suffisso -ich-ite, di cui l'ultimo sembra formare il p. p. di un verbo *rregnich-ìre) mette in chiara evidenza una radice regn-, metatesi di reng-, variante indiscutibile del precedente ranga- 'magro'. Gli altri significati di 'pettegolo, poco socievole' debbono essere valori aggiunti naturalmente addossati alle persone macilente, in una società in cui l'essere 'magri' coincideva con l'idea di povertà e bisogno, se non addirittura di malattia. Ma non è tutto. Il termine in questione rispunta nel genovese(2) réncio, emiliano reng', reing', ecc. col significato di 'stecchito', che è un modo diverso per sottolineare l'eccessiva magrezza di qualcuno. L'etimo che se ne dà (dal lat. rigidus) , nel libro citato, è assolutamente inaccettabile, visto che nelle nostre parlate non avremmo mai storpiato in questo modo il supposto originario lat. rigidu(m) 'rigido'. A me pare proponibile una radice corrispondente al ted. rank ' svelto, snello'. Una cosa è certa: la radice è talmente incarnita nei nostri dialetti da poter raggiungere facilmente strati preistorici. Forse il fascino dei suoni metallici e scattanti del tedesco mi inganna. Ma più ci si lascia prendere dalla voglia di parlare e teorizzare e meno si rimane attaccati all'essenziale della Lingua che disdegna le parole sicure dei saccenti di tutte le risme, amando piuttosto -non si crederebbe!- il silenzio delle balze deserte irte di cardi irrigiditi, che sopportano a malapena, di tanto in tanto, un nudo refolo monotone et sauvage.


L'abruzzese rehe (1) 'vicolo' è un altro termine che aggiusta diverse cosette. Non se ne può più di sentir dire da dotti e meno dotti in Abruzzo che l'altro termine dialettale molto diffuso rua, ruella, ecc. 'strada, stradina, vicolo' proviene dal fr. rue 'strada': è colpa della cultura linguistica piuttosto anemica, fin nei nostri Licei un tempo per lo meno luoghi sacri e silenziosi di menti pensanti e appassionate, ora invasi perennemente dall'onda montante di una massa studentesca a dir poco rumorosa e indolente, che detta sue leggi, che non vuole alzare il muso al di sopra del francese (una volta) e ora di uno sbiadito inglesuccio, se è vero che anche le persone dotte ora ignorano che spagnolo, provenzale e portoghese non disdegnano la rua 'via'. I linguisti, che per lo meno così sprovveduti non sono, usano però riportare queste voci ad un basso lat. ruga(m) 'ruga' , diventata forse 'solco', e quindi 'via'. Ma quando la finiremo, Dio buono!, di correre basiti dietro questo o quel fantasma ammiccante nella notte scura che ci fa vedere lucciole per lanterne distogliendoci dalla retta strada? Sarebbe ora di ritornare padroni delle redini del nostro destino e di guidare a miglior corso le nostre menti imbambolate! Questo rehe 'vicolo' opportunamente ci induce a tornare con i piedi per terra e a gettare finalmente lo sguardo sulla radice di lat. reg-ere 'guidare, dirigere', la quale può certamente raddrizzare le distorte vie etimologiche se il suo valore essenziale è quello di 'movimento (in linea retta)': e che cosa è mai una 'strada' se non un movimento fattosi realtà concreta? Le varianti latine di reg-ere, e cioè rog-are 'chiedere (indirizzarsi a)', e-rog-are 'concedere, distribuire(acqua)', ir-rog-are 'proporre, concedere' ecc. ci assicurano che le varie rue 'strade' delle lingue romanze attingono a buon diritto da esse o da varianti, pur essendosi inserite comodamente nel solco di ruga. Interessante l'ingl. rogue 'canaglia' ma arcaicamente anche 'vagabondo'.


Ma chi salverà il salva-danaio? questo bel prodotto nuovo di zecca dotato efficientemente degli attributi giusti per agganciare una clientela sempre più esigente, anche se ora, data l'avversa congiuntura, con scarsi denari da salvare? Che ci sia aria di truffa lo si annusa dal fatto che uno strumento che dovrebbe aiutare la gente a risparmiare denaro in realtà può solo rinviare di qualche tempo un'altra spesa per munirci di altro oggetto divenuto indispensabile nella moderna corsa alla conquista della felicità. Ed è gia grande avventura se non dobbiamo ridurre in mille pezzi il nostro bel salvadanaio per riappropriarci delle nostre monetine tintinnanti. Un guadagno comunque lo possiamo mettere al nostro attivo, capendo che quella di salvare è semmai una capacità dell'uomo, non dell'oggetto cui pertanto faremmo bene a togliere questa etichetta, se la cosa non fosse di per sè risibile, dato che la Lingua non ci darebbe ascolto e seguirebbe sue strade, indifferente alla validità di questo ragionamento.


Forti di questa riflessione ci accingiamo ora a dare uno sguardo il più possibile neutrale all'oggetto linguistico. Esso è composto di due parti saldate insieme alla perfezione, tanto da ingannare gli esperti più esperti circa la loro natura. Ma non noi, che abbiamo fatto dello scetticismo razionale la nostra arma segreta, miracolosa in un mondo di truffatori incalliti e di abili venditori di fumo; e così, arricciando il naso, volgiamo l'occhio clinico all'elemento salva-, un ibrido, per quanto riguarda il significato, tra quello di 'sano' e quello di 'al sicuro, protetto': senza dubbio, come accade quasi sempre in questi casi, vi si è consumato un incrocio con un'idea di 'avvolgimento, copertura' che aleggia nello sfondo ambiguo. Non si può in effetti accettare l'idea che l'ingl. salver 'vassoio', derivato attraverso il fr. salve, dallo sp. salva col significato di 'campione di cibo per scoprire il veleno, piccolo vassoio) esprima nel fondo un'idea di salvezza e che pertanto debba pagare un tributo di somma riconoscenza al verbo sp. salvar 'salvare'! Sappiamo che in certe epoche come nello splendido Rinascimento italiano e tra certa gente era molto apprezzata l'opera di chi riusciva ad evitare che un certo bocconcino prelibato finisse nello stomaco del principe o del sovrano con l'intenzione di spedirli direttamente all'altro mondo, ma ormai trascinati dai nostri principi linguistici, assodati peraltro da una continua verifica, non ci beviamo, senza nemmeno un preventivo e salutare assaggio, l'idea che sia giusto accoppiare, senza interventi soprannaturali, la salvezza col vassoio. Quest'ultimo fa parte della categoria dei vasi o delle cavità che, al massimo, ci forniscono un'idea di 'avvolgimento, copertura'. Già! l'ingl. arcaico to salve, significava proprio coprire, nascondere ma anche, purtroppo, ungere, facendoci così credere che tutto sia cominciato dall'idea di 'unguento' (cfr. ted. Salbe 'unguento') e non da quella di 'stendere sopra, coprire'. E la cosa continua -la Lingua ha il ritmo lento dei pluricentenari biblici, ma che dico!, dello Spirito dei popoli che aleggia per decine di migliaia di anni al di sopra di quei singoli e strani aggregati di carbonio e acqua chiamati uomini che strisciano per alcun tempo sulla terra e poi scompaiono- anche nel gr. olpe (da *solpe) 'ampolla d'olio' ma anche solo 'brocca': a questo punto sfodero però i miei bravi principi, conquistati con sudore e tenacia, e con un colpo ben assestato rompo il malefico incanto: la lingua nomina le cose per quello che sono, non per le funzioni che esse sono di epoca in epoca, di lingua in lingua, chiamate a svolgere. In questo caso l'idea del 'recipiente' la spunta su quella dell' 'olio', il quale interviene solo ad intorbidare le acque.


A questo punto non possiamo non accennare, per la contiguità dei significati, al serbo-croato e sloveno zaljev, zaliv (con la -z- pronunciata come -s- sonora) 'golfo, insenatura, vallone', i quali si affiancano ai numerosi toponimi e madonne che portano il nome di Porto Salvo in Italia (Sicilia: Palermo, Cefalù, S. Teresa di Riva-Me, Barcellona Pozzo di Gotto-Me; Calabria: Melito di Porto Salvo, Porto Salvo-Vv; Campania: Amalfi, Sorrento; Lazio: Gaeta, Terracina; Toscana: Porto di Marina di Salivoli-Li; ecc.). Da non dimenticare, naturalmente, la radice germanica di termini come sala, sal-one che rimandano ad una nozione di 'camera, casa'. Ma anche l'ingl. safe 'cassaforte' può rivendicare, sempre in base al sopra ricordato principio, un'origine separata dall'aggettivo safe 'sicuro, al sicuro, salvo' (che potrebbe essere arrivato successivamente nella lingua inglese) benchè la parentela sia stretta, e avvicinarsi così ai suoi lontani precursori più simili a normali casse e pignatte e vasi dove i nostri lontani antenati ponevano i loro sudati beni e le loro derrate. Lo spagnolo salv-ado 'crusca' rientra ugualmente nel novero dei significati che 'avvolgono, ricoprono, incrostano' come anche l'it. salpa 'similpelle' usata nella rilegatura dei libri. Non sarà un caso se in zoologia si incontra il genere Salpa (il cui nome rimanda al gr. salpe 'tipo di pesce') del phylum dei Tunicati, così chiamati perchè rivestiti da una tunica coriacea o un guscio gelatinoso trasparente in genere di forma cilindrica. Non sarà nemmeno un caso se un altro nome del genere Salpa è Tàlia, dal latino scientifico Thalia, a sua volta dal gr. Thalìa, nome di una delle Muse, le quali ci entrerebbero come i cavoli a merenda. Molto probabilmente coloro i quali misero questo nome partirono da qualche denominazione volgare dell'animaletto o del guscio assonante con quello della Musa, e il gioco fu inevitabile. In sardo, ad esempio, la crusca porta il nome di thalàu/thàlau /thelàu/thélau/talau/telau e nel campidanese tela significa 'cateratta dell'occhio, tartaro, gromma' . Anche il gr. salp-inks 'tubo, tromba' poteva essere usato (Aristotele) ad indicare il pesce suddetto. E così si può spiegare anche la strana espressione registrata da Domenico Bielli nel suo Vocabolario abruzzese che suona salvareggina nella frase Pare na salva-reggine 'persona assai magra, tutt'ossa'. Il primo elemento salva- potrebbe richiamare la durezza del guscio di questi animaletti o del 'guscio' tout court, mentre il 2° elemento rimanda alle voci ranga-secche, rregnichite sopra analizzate.


Una volta assodato quanto sopra per il primo elemento del composto, è giocoforza, a causa del principio tautologico, che anche il secondo, -danaio (da danaro, denaro), trovi la sua origine lungi dalla tintinnante moneta, al riparo dei molti pericoli della vita che, come abbiamo visto sopra, non si svolge proprio in uno dei luoghi più sicuri dell'universo: e che cosa può esservi di più sicuro di una tana? o, se vogliamo usare l'inglese, di una den 'tana, covo' che possono essere poste all'origine di -danaio, -denaro? Le radici vanno a braccetto, a mio avviso, con lat. tina(m) 'bottiglia', it. tino, it. tinello, ingl. tunn-el 'galleria', fr. tonneau 'botte' e, probabilmente, con ingl. tank 'sebatoio, cisterna, vasca' , dan. dunk 'bidone', sardo tanca 'terreno chiuso da siepi o muriccioli', catalano tanca 'parete, barriera che chiude orti, campi, ecc.'. Nella mia tana di Aielli io dormo ora tranquillamente, altri non avranno forse nè la voglia (data la mia insignificanza) nè il coraggio di venirmi a disturbare.


A questo punto anche il gommone salva-gente pencola pericolosamente, in mare, minacciando di por termine alla sua esistenza e a quella delle persone che porta, urlando magari eroicamente muoia Sansone con tutti i Filistei ! Ma, come l'Ulisse di Omero (Od. 5, 334 segg.) che, in una zattera in balia della tempesta, vide spuntare, sfiorando le onde leggera come un gabbiano, la bella Ino Leucotea, la dea dalle bianche braccia, che gli porgeva una sacra fascia, velo, benda di salvataggio (già allora si usavano provvidenziali life-belt, come dice il nome, 'fascia, cintura salvavita'!), la gente nel salvagente si salva, perchè, come per miracolo, si sente sollevare e si accorge che il salvagente avvolge tutte le persone in un sicuro abbraccio come di una cinta, dial. cénta (Aielli), cènte (vocab. abr. del Bielli) similissima a gente con cui il termine antico, per l'incuria degli uomini, venne confuso. E credo che non serva a molto la tarda sua prima attestazione, il 1866: è impossibile pensare che prima di quella data le persone finite in mare venissero impietosamente abbandonate o che fossero salvate solo da forzuti marinai senza nemmeno l'ausilio di qualche fascia o qualche fune per issarle a bordo. A conferma della mia supposizione, il gallurese salva-ghjenti 'salvagente' rifiuta di essere posto a stretto contatto con gallurese genti 'gente': esso protesta con tutte le sue forze la mantenuta fedeltà alla pronuncia velare di lat. gente(m) 'gente', tradita invece dal semplice gallurese genti 'gente'. E così la sua esistenza almeno dall'epoca latina è al di fuori di ogni dubbio! E' presumibile, quindi, che anche lo sp. salva-vidas 'salvagente' debba il secondo costituente non al lat. vita(m) 'vita' ma al lat. vitta(m) 'benda, fascia' dalla radice del verbo vi-ere 'piegare, legare, intrecciare'.


Una volta arrivata al suo porto Salvo la nostra nave ripartirà, salpando l'ancora per altre avventure. Ah! Dimenticavo proprio il misterioso verbo salp-are che non può che indicare -che sbadato!- l' avvolgersi intorno all'argano delle funi che tirano su l'ancora, avvolgimento che ripete, senza che ce ne avvediamo, quello del salva-gente intorno al corpo del naufrago. Eh, cari amici, nel mondo tutto si tiene! E la Lingua di sicuro ci dà una lezione di geniale sobrietà, in insanabile contrasto con la moderna mania dell'abbondanza, dello spreco e della mancanza di rispetto per le cose (lasciando da parte quello per le persone!). Oh, mio padre che invitava con piglio severo me ragazzino sbadato a porre sul tavolo nel verso giusto la pagnotta! Altri tempi, che sembrano lontani anni-luce!






Note


(1) Cfr. sito internet: Treppecore, vocabolario della lingua abruzzese, http://www.abruzzo.fm/archivio/treppecore/treppecore.html .


(2) Cfr. M. Cortelazzo/C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998, s. v.









































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