lunedì 4 luglio 2011

Lingue germaniche nell'Italia preistorica


Molti sono i termini italiani o dialettali di difficile etimologia che, secondo me, si inquadrano molto bene in un sistema linguistico di tipo germanico. Se si considera, ad esempio, l’it. scattare non si può non accostare il verbo ai dialettali (siciliano, salentino) scattunë, scattë ‘germoglio, pollone’ con qualche riflesso nella terminologia relativa ai rampolli umani come nel lucano (1) (Gallicchio-Pz) šcattìescë ‘bambino molto piccolo’, scazzùoppëlë ’bambino poco sviluppato, nanerottolo’, šcattùordë ‘bambino dispettoso’, perché qui la parola si è chiaramente incrociata con l’agg. šcatt-ùsë ‘dispettoso, molesto’, termine a metà strada tra il verbo scattà, con lo stesso significato di it. scattare, e il verbo corradicale con la iniziale palatilizzata šcattà ‘schiattare, scoppiare, crepare, sbocciare, germogliare’. Il bambino dispettoso è, insomma, quello dotato di una natura estremamente reattiva alla presenza degli altri, la quale convoglia i suoi spiriti ostili e sdegnosi verso chi viene preso di mira. L’it. schiattare sarà variante di un originario scattare. L’idea di fondo è quella di premere con forza, spingere, muover(si) velocemente, che si ritrova nel ted. schiess-en ‘muoversi velocemente, volare, avventarsi, sparare’, ingl. shoot ‘sparare, lanciare, tirare, scagliarsi’, ingl. scat ‘andarsene velocemente, partire in fretta’ coi loro riflessi vegetali e anche umani come in ingl. shoot ‘getto, germoglio’, ingl. off-shoot ‘germoglio, rampollo, discendente’, ted. Schöss-ling ‘rampollo, discendente’. Da notare l’inglese dial. shot ‘esserino di scarso valore, animale giovane o stentato’ che va ad affiancarsi al sopra citato scazzùoppëlë ‘bambino poco sviluppato, nanerottolo’ del dialetto di Gallichio-Pz. A me pare che si tratti della stessa radice di lat. scat-ere ‘scaturire, zampillare’ incrociatasi magari, in alcuni suoi significati e nella coscienza del parlante, con un supposto lat. *ex-capt-are ‘cercare di afferrare’, posto dai linguisti alla sua origine. Anche l’it. schizzare, considerato di origine onomatopeica, richiama invece il ted. schiess-en, sopra citato, ingl. skeet , tautologico nel nome dello sport chiamato skeet-shooting ‘tiro al piattello’, ma che significa anche, nei dialetti, ‘andarsene velocemente, far schizzare (un liquido)’. L’ingl. sketch ‘schizzo’ nel senso di abbozzo è quasi una fotocopia del termine italiano corrispondente da cui del resto è stato preso. Con una radice così stabile si spiegano bene anche le diverse Fonti Scod-ella da me incontrate qua e là.


Interessante la voce trasaccana scazz-ìgne (2)‘sperma’, che non va assolutamente avvicinata al volgare cazzo ‘membro virile’ se non fosse altro per il fatto che le parole indicano le cose direttamente senza dovervi per forza girare attorno, per cui mi pare possibile ricostruire una forma *scattin-, ampliamento delle radice scatt- di cui sopra, variante di quella di schizzo. Ma quello che mi sembra di notevole importanza è supporre che anche l’it. scaten-are , benchè si sia incontrato con lat. catena(m) ‘catena’ nel significato di ‘liberare dalla catena’ inserendosi così tra i verbi composti col lat. ex ’fuori da’, possa risalire alla suddetta radice e ne esprima tutto lo slancio e la violenza. In effetti il collegamento fra il ‘togliere la catena’ e il ‘liberar(si) delle forze’ può essere stato favorito dalla mediazione della radice suddetta. In inglese, tedesco, latino, greco i due diversi concetti sono infatti espressi in maniera diversa. Altre notevoli parole del dialetto trasaccano sono scazzà ‘fare un guadagno imprevisto e quasi immeritato’ col relativo sostantivo scazzàta. A me sembra di dover qui chiamare in causa l’it. scotto ‘prezzo pagato all’osteria, contraccambio’ , fatto derivare dal francone skot ‘tassa’, ma probabilmente stanziale in Italia da tempo immemorabile e abbastanza diffuso nel mondo germanico come nel dan. skat ‘tesoro, censo, tributo’, ted. Schatz ‘tesoro, ricchezze, persona amata’, ted. Schoss ‘dazio, tributo, censo’. Il termine trasaccano adombra una sorta di incameramento forzoso o casuale, un venir in possesso di un bene che mi fa pensare a qualcosa come ted. schatz-en ‘tassare, imporre tributi’ il quale fa il paio con ted. schoss-en ‘pagare un tributo’ ma anche ‘mettere virgulti’, riallacciandosi in questo senso alle parole sopra menzionate per i germogli. Credo che alla base dei due concetti ci possa essere l’idea di ‘spingere, produrre, protendere, dare (cfr. dazio)’ ma anche ‘tendere la mano per ricevere o prendere qualcosa’. Il ted. Schoss-er ‘ riscotitore, esattore’ mi fa supporre che anche l’it. ri-scuot-ere, nell’accezione di ‘ricevere una somma dovuta’, insieme al termine ri-scossa non nell’accezione di ‘contrattacco’ ma in quelle di ‘riconquista dei propri beni, diritti; liberazione, riscatto’, non abbia nulla a che vedere col verbo scuotere come probabilmente anche l’it. ri-scatt-are il quale deve scrollarsi di dosso quella che, a questa luce, appare come artificiosa etimologia, dal supposto lat. *re-ex-captare ‘riprendersi indietro’, con due prefissi di cui il verbo latino è invece sprovvisto : mi viene incontro la riflessione che, se è vero che una cosa o un uomo riscattato, ritorna per così dire in possesso di chi li riscatta, è anche vero però che così l’azione del riscatto non viene indicata per quello che fondamentalmente è, cioè uno scambio, un baratto tra due parti contrapposte, tra chi offre un bene o un prezzo adeguati e chi riconsegna per così dire il maltolto. A quanto pare il ragionamento che porto avanti da diverso tempo sulla tendenza della Lingua ad indicare i referenti per quello che sono, mi aiuta forse a raddrizzare le cose anche in questo caso. Con la constatazione che, appena una radice viene a trovarsi ai margini di una lingua, le parole che da essa traevano la linfa vitale cercano di adattarsi alla nuova situazione in cui radici simili ad essa, ma più diffuse, in auge ed in salute, le fanno una concorrenza spietata spadroneggiando in ogni modo, come in questi casi fanno i derivati dal lat. quat-ere ‘scuotere’(lat. in-cut-ere, per-cut-ere, ex-cut-ere, ecc.) e il lat. capt-are ‘ cercare di prendere, captare’. In effetti la parola che il greco ha per ‘riscatto’ è chiarissima: -tr-on (da -o ‘io sciolgo’) ‘mezzo di scioglimento, liberazione’ o semplicemente ‘pagamento’ come in lat. lu-ere ‘pagare, liberare, espiare’, radice di cui riparlerò più sotto. In tedesco abbiamo il verbo los-kauf-en ‘redimere, riscattare’ che, alla debole luce dei significati attuali delle due componenti, si spiega solo come fosse una creazione a tavolino, e cioè ‘comperare (kaufen) in modo da rendere sciolto (los= sciolto, staccato): ma che modo di ragionare! Quanto sarebbe più semplice la spiegazione, e più a misura d’uomo, se si potesse trovare tautologicamente un significato di kaufen simile a quello di los! Eppure a mio avviso non bisogna sudarci sopra molto perché ci viene già incontro la voce dialettale ingl. cop ‘colpire (una persona)’, spec. alla testa, per influsso del dialettale cop ‘testa’, voce che si accompagna al più o meno dialettale o arcaico cob ‘colpire, trebbiare (grano), staccare da un blocco di minerale il materiale scadente con un martello’ e ancora a chop ‘spaccare, tagliuzzare, tritare’ da cui spunta a sorpresa il significato commerciale che fa per noi ‘barattare, scambiare’ che ci riporta dritto dritto ad ingl. cheap ‘a buon mercato’, al dialettale ingl. chap ‘comprare, barattare’, dialett. cope ‘barattare, scambiare’, che sono alla base del ted. kauf-en ‘comperare’ da cui siamo partiti. Che il ted. kauf-en ‘comperare’ avesse all’origine un significato generico di ‘scambiare, barattare’ lo avevo modestamente già capito dal ted. ver-kauf-en ‘vendere’ il cui prefisso inseparabile ver- , molto attivo in tedesco, ha una funzione spesso rafforzativa del significato del verbo semplice. In questo caso è servito a determinare una leggera distinzione, anche per il significato, da kauf-en ‘comprare’. Finalmente, dunque, il significato di ted. los-kauf-en ‘riscattare’, da cui ci eravamo mossi, può essere guardato sotto la quieta e riposante luce che avvolge il ted. los-brech-en ‘staccare, rompere con forza, scatenarsi’ il quale, nonostante la violenza di questi significati, risulta composto dal solito los- (sciolto, staccato —ma vicino alla forma infinitiva ingl. lose ’perdere’) e da brech-en ‘rompere’. La stessa cosa si dica del ted. los-bring-en (e di diversi altri termini) ‘staccare, distaccare, liberare (un prigioniero)’, da ted. bring-en ‘portare, apportare, causare, produrre’, concetti riassumibili tutti da uno ‘spingere’ che può produrre anche un ‘distacco’ come in questo caso. Caratteristico il ted. los-sag-en ‘ lasciar libero’ al passivo ‘staccarsi a forza, separarsi, romperla con qlc, svincolarsi’. Letteralmente il verbo vale ‘dire sciolta, staccata qlco.’, una dichiarazione d’intenti che però non è registrata puntualmente dai vari significati i quali espongono solo il dato di fatto del ‘liberare’ o ‘liberarsi’ da qualcosa. D’altronde mi sembra quasi ridicolo pensare che uno, prima di separarsi da qlcosa o qlcuno, debba dichiarare per forza di volerlo fare! Lo fa e basta! Tanto è vero che se uno effettivamente dice di aver sciolto qualcosa usa l’espressione Ich sage, dass ich etwas gelöst habe ‘Io dico (Ich sage) di aver sciolto (dass ich gelöst habe) qualcosa (etwas)’ o simili e non Ich sage etwas los che significa ‘Io lascio libero qualcosa’, letter. ‘Io dico sciolto qualcosa’. Anche qui si nota, dunque, una discrepanza tra il significato di superficie e quello di fatto. La ragione sta tutta nel fatto che in questo caso –sag-en non significava ‘dire’ ma doveva indicare un ‘movimento, un distacco’ ed aveva quindi qualcosa da spartire con ingl. seek ‘cercare, arcaico: andare, ricorrere a, procedere contro’, ingl. sag ‘cedere, afflosciarsi, allentare, andare alla deriva’, ingl. sack ‘cacciar fuori, licenziare’, e soprattutto con a. a. ted. sahs ‘coltello’, con lat. sac-ena(m) ‘scure per sacrifici’ e lat. sec-are ‘segare, tagliare’. Del resto, secondo me, questo composto ci dà la conferma che anche sag-en ‘dire’ ricorreva allo stesso concetto di fondo di ‘spinta, emissione, liberazione, rilascio (di voce o parole)’. Nel sostantivo corrispondente Los-sag-ung, oltre ai significati di ‘distacco, separazione, rottura’ consoni con quelli del verbo, compare anche quello di ‘ritrattazione (della parola o promessa fatta)’: la Lingua, dietro la spinta del significato di superficie e nella sua indefessa operosità, cerca di dar vita a un significato combaciante in qualche modo con quello letterale. Lo stesso ragionamento va fatto per lat. red-im-ere ‘redimere, riscattare’ e per tutti gli altri verbi connessi con questo significato. Va da sè che il ted. Schoss-kind ‘figlio prediletto’ è partito come composto tautologico col valore di ‘rampollo, bambino, figlio’: il 1° costituente si allinea con la serie, sopra accennata, di ingl. shoot ‘getto, germoglio’, ted. Schöss-ling ‘rampollo, discendente’. Il 2° costituente è appunto il ted. Kind ‘bambino, figlio’ corrispondente all’ingl. kind ‘genere’, il quale ha preferito però mantenersi sul generico sempre tenendo nel cuore la vocazione alla ‘creazione, produzione, procreazione’, magari in grande stile come nel lat. gent-e(m) ’gente, stirpe’ benchè il virgiliano vigilasne, deum gens, Aenea? (sei sveglio, Enea, progenie degli dei?) tradisca il suo doppio gioco. Il significato di ‘prediletto, favorito’ è un valore aggiunto prodotto dall’incrocio con ted. Schoss ‘grembo, seno’. Il trasaccano scarda ‘pelle abbandonata dal serpente’ è tale e quale l’ingl. shard (anche sherd) ‘elitra, squama, coccio’, e inoltre combacia con la voce scarda ‘scheggia’ del dialetto di Pietraroia nel Sannio-Be, con šchèrdë ‘scheggia’ del dialetto di Gallicchio-Pz e col sardo campidanese scherda (3) ‘scheggia, scoria’. Notevole è l’abr. sciertë (4)‘deviatore d’acqua’ se lo si raffronta con l’ingl. arcaico shard ‘massa d’acqua che si separa’!


Non vedo perché anche l’it. schiaffo non possa essere confrontato con termini germanici come ingl. slap ‘schiaffo, botta’, ted. Schlappe ‘ colpo, percossa, schiaffo sonoro’, data anche la presenza nell’abruzzese della voce scëléppë (5)‘busse’, sia pure usata scherzosamente. E’ il destino che capita ai termini spinti ai margini della lingua, e sentiti così un po’ strani, buffi. Nella voce abruzzese si nota la palatalizzazione della fricativa iniziale nonché l’inserzione di una vocale anaptittica come avviene in altri casi. L’it. schiaffo, inoltre, potrebbe aver inserito dopo la fricativa alveolare una velare (*sclaffo, da cui 'schiaffo') come avviene per altri casi quali l’it. schiavo, da sclavu(m) a sua volta da slavu(m) ‘slavo’. Ma potrebbe anche direttamente connettersi con i vari abr. šcaffà, šchiaffà, šcuffà, šchiuffà ‘urtare, sbattere, inciampare, scaraventare, strappare con violenza, contendersi, schiaffarsi (in un luogo)’, abr. šcaffë ‘schiaffo’, tutti significati che possono, secondo me, essere confrontati con quelli di ted. schieb-en ‘spingere, fare scorrere, andarsene, crescere, spuntare (dente)’, ingl. shove ‘spingere, ficcare, spintonare’; ingl. shave ‘radere’, ted. schubb-en ‘grattare’, ted. schub-s-en, schup-s-en ‘spingere di qua e di là’, ted. Schub, Schupf ‘spinta’. Naturalmente io inserirei in questa serie anche i vari italiani scippare, scipare, sciupare. Il napoletano sciupa-fémmënë è il seduttore che tratta con una certa indifferenza le donne innamorate di lui, e che quindi le strapazza senza troppo rispetto oltre a scipparle, cioè a trascinarle con sé con la forza della sua seduzione. L’it. scopare nella sua accezione sessuale si inserisce bellamente nell’ambito di questa radice che indica lo ‘spingere’ e certamente si trova ad una bella distanza dalla parola scopa, ma forse a minore distanza dalla pianta della scopa che a mio avviso è il prodotto, come tutte le altre, di una spinta delle forze generatrici della Natura (cfr. ted. Trieb ‘spinta, impulso, germoglio, rampollo’). A questo punto anche l’it. scopp-ola ‘colpo violento’ reclama insistentemente il suo diritto di far parte del gruppo, e non ne vuole sapere di dare ascolto ai linguisti che ne vogliono ridurre la portata a un ‘colpo dato alla nuca (coppa)’, benchè nessuno, credo, usi il termine in questa accezione. E dobbiamo ringraziarli se non connettono la parola alla coppola che cadrebbe sotto i suoi colpi, come invece fanno generalmente per quella che è secondo me solo una variante, e cioè scapp-ell-otto, legato al cappello, anche se nessuno guarda se il malcapitato preso di mira è fornito o meno di copricapo, quando deve affibbiarne uno anche se leggero. E che dire del dial. (ad Aielli e altrove) scappëllìttë ‘a capo scoperto’ che sembra legato anch’esso mani e piedi al cappello? Io penso che qui un originario *scapulittë, o qualcosa di simile, si sia aggrappato ad un utile cappello per darsi un contegno una volta che il suo significato originario minacciava di scomparire, il quale doveva coincidere con quello di scapolo, nel senso di libero, sgombro, in movimento come nel verbo it. scapol-are ‘liberare l’ancora o la catena da un ostacolo; superare un promontorio, un’isola, un pericolo’ che mi sembra più legato ad un semplice e diretto scapp-are (il cui etimo è tutto da chiarire, a mio avviso) e ad un’idea di fuga e movimento (cfr. abr. scapëlë (6) ‘corsa’, idea ricomparente nell’ingl. shove off ‘filare, sparire, prendere il largo’) piuttosto che al suo supposto etimo *ex-capul-are, il quale ha il torto di ricorrere ad una immagine (uscire fuori dal cappio) solo metaforicamente connessa con i vari significati. Uno scapolo è essenzialmente e direttamente un uomo ‘libero, a disposizione’ e non uno che ha dovuto togliersi un cappio metaforico per arrivare alla sua felice o meno condizione! Infatti ho notato poco fa che il citato scappëllìttë ‘a capo scoperto’ ha trovato altrove in Abruzzo l’ancora di salvezza non in un cappello ma nei capelli: il Bielli riporta le voci scapillë, scapëllatë ‘a capo scoperto’ come se si trattasse di andare in giro ‘con i capelli in libertà’ (ammesso che uno ce li abbia ancora!). La libertà in effetti se la rideva indisturbata, accovacciata sotto quel paravento dei capelli. Ahimè! saremo senza dubbio costretti a sbattere, poveretti, la testa di qua e di là se in questa gran tempesta vorticosa degli elementi linguistici non riusciamo a tenere dritta la barra del timone (ed è possibile farlo)! Perché improvvisamente scapillà (7)‘scappellare, strappare il fazzoletto dal capo della ragazza, antico modo usato per far violenza alla fanciulla amata’ sembra tornare a corteggiare il cappello, più che i capelli e, così facendo, riesce nel frattempo sornionamente a tenerci ben lontani dalla sua più intima verità, di cui è gelosissimo! e che sarebbe quella di ‘spingere, togliere (il velo)’ come nel verbo consimile scuppëlà ‘staccare, scrostare l’intonaco’.


Altra parola che a me sembra una autentica meraviglia è abr. sciòppë ‘gotto, bicchiere’ che poco o nulla si discosta dal ted. Schoppen ‘ bicchiere, quartino’ il quale sembrerebbe un fresco travaso nel dialetto ad opera di qualche emigrante, ma la presenza di scuppìllë ‘cartocci della pannocchia di granturco’ mi fa ricredere e mi indica quale sia stata la sua probabile origine. Cfr. inoltre ted. Schuppe ‘squama, scaglia, forfora’, ted. Schuppen ‘capannone’. I famosi scioccàjjë, sciacquàjjë ‘pendenti, orecchini grandi’, parola diffusa in quasi tutto il meridione, non credo provengano direttamente dallo spagnolo chocallos ‘pendenti di oro’: essi fanno riferimento alle radici di ted. schuckel-n 'dondolare, tentennare', ingl. shock ‘urto’, ingl. shake ‘scossa’, presenti anche nei dialettali sciuccà ‘allontanare piccoli animali, volatili (galline)’, sciaquètë ‘sciocco (come conseguenza di un colpo ricevuto), sciaccà (8) ‘battere, percuotere, allontanare’, sciacquétta ‘donna sciatta, insulsa, da strapazzo’ desiderosa, magari, di farsi notare sculettando; sciacquìttë(9) ‘persona di poco conto, insignificante’ . Su altre parole tornerò in altra occasione, ma ora non posso perdermi l'abr. sciucche, riportato dal Bielli, che significa 'camiciotto di panno lino usato dai contadini quando lavoravano, che non può disdegnare la parentela stretta con ingl. shuck 'baccello, guscio'.


Il passaggio, in tutti questi termini, da una forma originaria con suono velare a una forma con suono palatino deve essere stato preceduto da fenomeni di dittongazione, frangimento e simili delle vocali accentate, così diffusi soprattutto nell’abruzzese adriatico, per cui una parola come casa ha potuto trasformarsi in ciésë (Pietracamela-Te), coda in chéudë (Popoli-Ch).
Interessantissime, per le conseguenze che ne derivano se messe insieme ad altre, sono le voci abruzzesi schétë (10) ‘solo, senz’altro’ e schitë (11) ‘pane senza lievito’. Essa va collegata con la simile voce šchittë ‘solo, solamente’ del dialetto di Gallicchio-Pz di cui sopra, nonché con le voci calabresi e siciliane schèttu, schittu ‘celibe, nubile’ le quali non sono da derivare di peso da un germanico slehta-(12) ‘semplice’ (la cui radice aveva però un significato fondamentale di ‘cattivo’ come in ted. schlecht ‘cattivo, semplice’) perché, oltretutto fanno sistema con le precedenti, in quanto uno scapolo è uno che è ‘solo, libero da impegni, separato da qualsiasi cosa che ne intralci il movimento’ e non deve, anche in questo caso, andare a mendicare altrove la sua ragion d’essere, in parole e concetti che lo riguardano solo di straforo. Per me è evidente il rapporto di queste parole col ted. scheid-en ‘separare, dividere’, ingl. shed ‘perdere (foglie, petali, fiori, ecc.), spogliarsi di, sbarazzarsi di, ecc.’, e anche con lat. scind-ere ‘scindere’, che al perf. fa scid-i. Il participio scissus ‘scisso’ più che essere derivato da un precdente *scid-to-s ne è, secondo me, una variante come capiremo dopo. Nel dizionario(13) approntato dallo scrittore siciliano di Gela-Cl Giuseppe Tuccio ho incontrato i lemmi scotu ‘slegato, snodato, sciolto’(ben diverso da scossu o scotutu ‘scosso’) e scota ’il dipanare, lo sciogliere’ che mi pare assolutamente da accostare alle precedenti radici per ‘scapolo’. Il significato di ‘slegato’ è secondo me secondario nella radice, essendosi sviluppato da uno precedente di ‘staccato, separato’ come dimostrano le radici germaniche e latine precedenti. Le espressioni inglesi to get shot of ‘sbarazzarsi di, liberarsi di’ , to get shut of, to get shed of dall’identico significato ci fanno capire che i tre verbi shot ‘sparare, lanciare’, shut ‘chiudere’ e shed 'perdere, spogliar(si), versare' avevano a che fare col movimento e con il ‘separarsi da qualcosa’. Faccio notare en passant che il composto ingl. scot-free ‘impune, indenne, sano e salvo’ era originariamente tautologico col significato di ‘libero’ non di ‘libero da tasse’.


Un discorso a parte merita l’abr. scat-ëllà (14) ‘1) nettare la lana dalle lappole (catìllë, catéjjë); 2) togliersi i debiti; 3) scatëllarsë da une —liberarsi da una persona noiosa’. Questi significati sono a mio avviso emblematici del modo in cui essi mutano nella lunga storia delle parole, incontrando altre radici che ne distorcono il significato originario. Il significato iniziale dovette essere quello di ‘liberare, liberarsi di’ come quasi costringe a supporre la serie delle radici consimili precedenti. Il suo incontro col termine catìllë ‘lappola’ dà la possibilità al verbo di specializzarsi ad indicare l’operazione del ‘liberare la lana dalle lappole’ trasformando la fricativa iniziale in un ex- latino con valore estrattivo (il quale ha combinato un sacco di guai, a mio parere, ai linguisti!) ; nel frattempo, senza dover ricorrere troppo comodamente ai guizzi metaforici, l’incontro con la voce scat ‘tributo’ sopra analizzata e presente a Trasacco produce l’altra specializzazione del ‘pagare i debiti’. Il risultato finale è quello di un mascheramento completo della natura originaria del verbo, che quasi ci costringe a credere che la sua storia, partita nella notte dei tempi con un valore generico della radice, sia iniziata invece, come nuova di zecca, con i significati particolari che mostra, cosa del tutto assurda secondo quelli che ora considero principi imprescindibili della mia ricerca. Proprio il 3° significato ci induce a sostenere che la base di partenza di questo verbo non può assolutamente essere quella di catéjje 'lappola'. E' come se volessimo costringere verbi italiani con s- privativa alla stessa funzione di scatellarse da une 'liberarsi da uno'; non si potrebbero in nessun modo piegare alla stessa funzione, ad esempio, i verbi it. spidocchiarsi, spulciarsi, sbucciarsi , spolverarsi usando espressioni impossibili come spidocchiarsi di uno: allo stesso modo l'espressione scatellarse da une può essersi formata solo perchè inizialmente essa non faceva perno sui catéjje 'lappole' ma su una radice *scat- col significato diretto di 'liberar(si)'. Questo è un esempio che, per la sua potente carica esplosiva e conoscitiva, dovrebbe far venire la pelle d’oca ad ogni sincero amante della pura Parola, ammesso che in questi tempi distratti, farraginosi e rumorosi, se ne possa ancora trovare davvero qualcuno. E lo grido col cuore in mano, senza voler umiliare nessuno! A pensarci bene anche gli it. scadere, scadenza, per quanto certamente incrociatisi con it. cadere, hanno tutta l'aria di sentirsi a proprio agio sotto le grandi ali della radice germanica (che a questo punto definirei germanico-italica) scat- sopra incontrata, dato il loro frequente uso in relazione ad una tassa da pagare, un'obbligazione da sciogliere, un conto da saldare: pertanto la derivazione supposta da un preteso tardo latino *ex-cadere, da taluno con tutta sicurezza nemmeno asteriscato, cade direi miseramente. Il problema, secondo me, è costituito dal fatto che troppo facilmente siamo portati a pensare alle parole di una lingua come se fossero pulcini di una stessa covata, quando esse in realtà possono provenire da qualsiasi parte ed indossare solo per l'occasione una livrea di appartenenza. Il ted. schoss-en ‘pagare un tributo’, accostato al siciliano scotu ‘sciolto, slegato’, ci suggerisce che tra i significati di scot c’era anche quello di ‘pagare’, azione che si configura anche come uno ‘sciogliere, liberare (cfr. lat. solvere ‘pagare’)’ che secondo il suo etimo risulta composto dalla particella so- (variante di se- ‘separazione’) e gr. -o ‘io sciolgo’ connesso con lat. lu-ere ‘pagare, scontare, espiare’, ted. los ‘sciolto, staccato’, ingl. lose ‘perdere’, lat. lav-are ‘lavare’, concetto che senz’altro doveva promanare dall’idea di ‘sciogliere, separare in varie particole (o staccare) una macchia o un grumo di sporcizia, ad esempio, con l’aiuto dell’acqua che le porta via’. Nel dialetto brianzolo(15) si incontra la voce scöt ‘riscuotere’ che nella frase scöt l’apetit significa ‘togiersi una soddisfazione’. Ora, questa voce richiama tutte le precedenti e nell’accezione di ‘togliersi’ (la soddisfazione) certamente non può intendersi come originata da un’idea di ‘scrollarsi (di dosso)’ qualcosa, come più o meno suppone il Pianigiani (e probabilmente tutti gli altri linguisti) per l’it. ri-scossa: dovremmo, forse, per quest’ultimo termine pensare a una situazione in cui si dà una bella e minacciosa scrollatina a qualcuno per farsi pagare il dovuto? Ancora una volta si gira intorno, col rischio di farsi venire un vero e proprio disorientante capogiro, ai significati essenziali e diretti delle parole. L’espressione brianzola scöt l’apetit è solo un altro modo di dire per ‘appagare il desiderio’, a sua volta altro modo di dire per ‘rendere pago il desiderio’, altro modo ancora di dire per ‘acquietare un desiderio’, atto per il quale si può ricevere anche un’attestazione di pagamento, cioè di ‘quietanza’, ingl. ac-quitt-ance, pagamento che è conditio sine qua non per raggiungere la pace dell’ essere liberato, affrancato, riscattato, o anche per liberarsi, sciogliersi dall’assillo di un forte desiderio, come l’ apetit della frase brianzola. E puntuale, con la sua forza di liberazione (oh! Il ricordo di un’esperienza in Grecia, alla ricerca di un bagno, ancora mi dura nella memoria, per il senso di liberazione che infine potei soddisfare), la radice ritorna nel brianzolo sciòtt ‘escremento’, tautologico nell’espressione sciòtt de merda, ma forse già con qualche tentativo di specializzazione. Si tratta di varianti di ingl. shit ‘escremento, diarrea’, ted. Scheisse ‘escremento’, dialetto abruzz. (Vittorito-Aq) scat-ozza 'sterco, escremento', sardo logudorese ischitza ‘defecazione, stilla’, sardo gallurese scuss-ina ‘diarrea, sciolta, dissenteria’, sardo logudorese iscossa ‘diarrea, scossa’ incrociato con it. ‘scossa’. Il lat. ex-cre-mentu(m) ‘escremento’ non è esattamente un ‘passare attraverso il setaccio (lat. per cri-brum cern-ere)’ come costantemente commentano i linguisti, ma più semplicemente un ‘separare (dal corpo) i rifiuti’, un ‘liberarsi’ appunto di essi. Il gr. krín-o significa ‘separare, dividere, giudicare’ come nel lat. cri-bru(m) ‘crivello’, lat. dis-cri-men ‘linea di separazione, separazione, intervallo, divario, ecc.’, lat. dis-cre-tione(m) ’separazione, discrezione’. Che il latino ex-cre-mentu(m) significhi anche ‘mondiglia, pula’ non gli dà il diritto di porsi all’origine dell’altro significato. Il fatto, di per sé di scarsa importanza, rivela a mio avviso, però, che i linguisti hanno spesso visioni minimalistiche dei fenomeni, perché vanno più in cerca dei particolari di un significato che della sua enormemente vasta portata. La radice in questione ha una sua variante con fricativa iniziale nel lat. scre-are ‘sputare, scaracchiare’ il quale richiama l’abr. scrijà (16) ‘scheggiare’ma potrebbe anche essere all'origine del precedente ex-cre-mentum, che non sarebbe allora che reinterpretazione del precedente; l’escreato e la scheggia, comunque, si incontrano nel loro staccarsi, separarsi l’una da una pietra o un legno, l’altro dal grumo di catarro accumulato nella gola. In verità in questi casi, più che di varianti, si dovrebbe parlare di somiglianza casuale di radici (se non si tratta di derivazione dell'una dall'altra come abbiamo detto sopra), le quali, a mio avviso, rimandano tutte allo stesso significato originario. L’italiano familiare sciòlta ‘diarrea’ (dial. sciòta), per quanto possa essere tratto dal significato di scioglier(si), può essere anche reinterpretazione e correzione di un precedente dialettale sciòta ‘sciolta’, della famiglia, però, del brianzolo sciott poco prima citato: in effetti mi sembrano inesistenti, che io sappia, i termini scatologici riconducibili alla radice di lat. solu-ere ‘sciogliere’, che pure indica una ‘separazione’. Ma c’è di più. A Trasacco il termine sciòta (17) significa anche ‘rapporto sessuale’ il quale dovrebbe rimandare, però, ad un’idea di ‘unione’ o, meglio, di ‘dimenamento’ o di ‘spinta’ come per il sopra citato volgare it. scopare. E in effetti l’ingl. shoot ha anche il significato di ‘protrusione, spinta, colpo’. Sempre a Trasacco -sciótë, oltre che ‘sciolto di nuovo, scavezzato’ significa anche ‘che ha avuto più rapporti sessuali’, come sciótë ‘che ha avuto un rapporto sessuale’.


Anche l’aggettivo toscano scosso, riferito a un cavallo che si è liberato della soma o del cavaliere, fa sistema col corrispondente termine siciliano scotu ‘sciolto’ nonché con tutte le altre voci connesse e in specie con lat. scissu(m), p. pass. di scindere di cui avevo accennato più sopra, che non è da considerare quindi p. pass. di it. scuotere. Nonostante tutto resta sempre nella nostra testa, a causa della ormai inveterata abitudine di preferire i significati più precisi a quelli più generici, la falsa convinzione che scosso sia, in questo caso, p.pass. di scuotere, quando pensiamo che nel Palio di Siena, ad esempio, un cavallo scosso è quello che ha scaraventato a terra il cavaliere qualche momento prima, come se l’avesse fatto apposta, ma esistono anche Palii come quello di Ronciglione-Vt in cui corrono solo cavalli senza cavalieri, chiamati ugualmente scossi sin dall’inizio della competizione, e anche così saremmo tentati di sostenere che questi cavalli sono ugualmente scossi perché è nella loro natura scuotersi di dosso i cavalieri o perché l’avere scosso o meno il cavaliere, fatto del tutto aleatorio in una corsa, sarebbe invece discriminante per il nascere di questo appellativo che sembra avere, invece, un respiro più vasto; anche i muli vengono chiamati, infatti, scossi se sono privi di carico, ed è certamente molto difficile per un mulo scrollarsi di dosso la soma se questa è legata bene alla sella: come si vede, ci infileremmo in un ragionamento piùttosto sottile e capzioso che vorremmo trasformare in robusto e vero. Ma inaspettatamente arriva a chiarire tutto il sardo gallurese scussu ‘scarico’, non necessariamente riferito ad un cavallo ma anche ad un mezzo di trasporto: ma chi fosse dannato a dire di no, troverebbe anche qui il modo per dissentire. Che la voce scussu ’scarico’ collegata alla sopra citata scussina ‘(scarica di) diarrea’ non sia da riportare ad un verbo per ‘scaricare’ mi sembra dimostrato dal fatto che simili verbi sardi, presenti nel DULS, sono lontani da una radice scut-, scus-(18). Si configura allora la possibilità di supporre uno stato della lingua, sia pure per disiecta membra, che ricalca quello connesso con la 2° rotazione consonantica che interessò le lingue germaniche meridionali, avvenuta non prima del V sec. d.C e che ebbe risultati meno univoci e stabili della prima. Per esempio il ted. schiess-en sarebbe un derivato di una forma simile a quella ingl. shoot, con la dentale sorda finale. Si deve allora concludere, come avevo sospettato da molto tempo, che il fenomeno era già avvenuto nella preistoria e che la rotazione tedesca sia da intendere come un ravvivarsi di una preferenza per forme già esistenti nei dialetti e rimesse in auge per i motivi più vari, difficili da conoscere. Si tratterebbe, insomma, della solita sostituzione più che di una vera e propria trasformazione. La ragnatela ben inserita nel tessuto dei dialetti e della lingua italiana, che questi fenomeni svelano, impedisce nel contempo di considerarli il portato aleatorio delle invasioni barbariche del Medioevo e li rinvia, a mio parere, ad epoche preistoriche.


Un altro illuminante esempio ci viene dalla voce sciurtà ‘separare, allontanare’ (a Gallicchio-Pz) accostata all’abr. sciurtà (19) ‘allontanare, finire (nel senso di ‘venire a mancare, esaurire, consumare completamente)’ che fa il paio con la stessa voce abruzzese (Aielli e altrove) senza la palatalizzazione iniziale, e cioè scurtà ‘esaurire’. Dato il significato di ‘separare’ riscontrato a Gallicchio-Pz, la voce non può che essere comparata con le voci germaniche scort, sceort (a. ingl.), scurz (a.a.ted.), skera (a. norr.), tutte imparentate con ingl. shear ‘tagliare’. Il significato di ‘tagliare’ ha generato quello di ‘corto, insufficiente’ (ingl. short), ma nel fondo operava anche quello di ‘separare, allontanare’ come si evince del resto anche dall’ingl. short ‘frollo, friabile’ e dall’ espressione ingl. short of ‘tranne, a parte, a prescindere, lontano da’ ma, per influsso di short ‘breve’, anche ‘poco prima di’. L’idea dell’ esaurirsi può essersi sviluppata da quella di ‘essere insufficiente, scemare, venire a mancare, mancare, venir meno’ ma anche da quella di ‘allontanarsi, andarsene, scomparire’. Mi domando e domando vivamente al lettore: la palatalizzazione iniziale della parola è avvenuta in terra germanica o era già esistente dalle nostre parti accanto alla forma rimasta intatta? Si può anche immaginare che la trasformazione fonetica sia avvenuta parallelamente e indipendentemente nelle diverse lingue, ma mi sembra l’ipotesi meno probabile. In effetti si incontra, nel centro e settentrione dell’Italia, anche scortare ‘accorciare’ fatto derivare da un presunto lat. parlato *ex-curt-iare da lat. curtu(m) ‘troncato, mozzato’ ma l’it. scorza, dal lat. scortea ‘oggetti di cuoio’ dimostra l’esistenza e la stabilità anche in Italia della radice SKER variante di KER (cfr. gr. keír-o ‘io scortico’). La radice è quella del sopra citato trasaccano scarda ‘pelle abbandonata dal serpente’, ‘scheggia’ (a Pietraroia nel Sannio-Be), ecc. In abruzzese scardë (20) significa anche ‘fanciulla’, inizialmente ‘tocco, pezzo (di figliola)’ se il Bielli riporta l’espressione Na bèlla scardë ‘un bel tocco di ragazza’. Il suo dizionario registra anche i verbi connessi con la radice in questione scard-illїà ‘sgraffiare’, scard-inїà ‘graffiare’, scart-ëcà ‘dividere due persone che si azzuffano, o unite con nodo d’affetto’. Per cui mi chiedo se debbo considerare genuino il tardo lat. ex-cort-ic-are ‘scorticare’ o se piuttosto esso non sia la reinterpretazione di un sottostante *scort-ic-are, dalla radice scort- sopra incontrata. Ma la cosa interessante, secondo me, è la presenza nel suo vocabolario e in vari dialetti del verbo scartare col significato, non risultante in italiano, di ‘assottigliare, diminuire lo spessore di un’asse con la pialla o l’ascia’. E’ quindi a mio avviso assolutamente da scartare l’etimo che riporta l’it. scartare ‘liberare qlco. dell’involucro di carta, eliminare una carta buttandola sul tavolo, gettare via qlco. di inservibile, ecc.’ alla parola carta facendola precedere da s- con valore privativo, il quale è solito combinare guai come abbiamo visto sopra . E a questo punto anche il toscano scartare ’lisciare con la carta vetrata’ reclama con impazienza la sua assegnazione al gruppo degli scarificatori preistorici non a quello di chi si trastulla modernamente con le carte! Così esso può andare, con un po’ di fortuna, a raggiungere finalmente i suoi antenati, anche del Paleolitico, adusi a scheggiare le pietre per ricavarne affilati strumenti da taglio (cfr. ted. Scharte ‘tacca, intaccatura, feritoia’), una manna nel duro mestiere di vivere di quei tempi! Altro che carta! venuta al mondo quando l'uomo civile e scrittore aveva dimenticato già da millenni il suo lavoro di scheggiatore di pietre che non gli concedeva tempo per le carte, ammesso che esistessero. Il progresso dell'uomo, si sa, si misura anche attraverso il tempo libero che ha nelle varie epoche a disposizione. C'è qualcuno (Russell) che ha fatto giustamente l'elogio dell'ozio, il quale comunque già nell'antichità poteva trasformarsi in bonum otium, tempo da dedicare alla scrittura e agli hobbies. Che cosa sarebbe ancora il nostro povero mondo se nel passato non vi fosse stato chi, lontano dalle preoccupazioni giornaliere dei contadini e della classe operaia (ai quali va peraltro tutto il mio rispetto), poteva dedicarsi alla ricerca e alla scienza perchè ricco o perchè disposto a fare anche una vita da cane pur di ricavarsi lo spazio per soddisfare la sua incoercibile passione artistica o scientifica che lo avrebbe ripagato comunque, se era fortunato, con soddisfazioni ignote al profanum vulgus di solito incapace di uscire fuori dalla impietosa tenaglia del massacrante lavoro, o delle piccole o grandi gioie del mangiare, bere e riprodursi, cose soddisfacenti in certa misura anche queste, ma prive di quel marchio che ne garantisca l'eccezionalità.


Un’altra interessantissima conseguenza di questo mio ragionare mi porta a dubitare che composti latini come so-cors, gen. so-cordis (o se-cors, se-cordis) ‘indolente, fiacco, pigro, ottuso, stupido’ come pure ex-cors, gen. ex-cordis ‘ dissennato, sciocco’ possano essere reinterpretazioni di forme precedenti legate alla suddetta radice scort-, scurt- se a Trasacco ed Aielli, ma anche altrove, la voce scùrtë (21) significa anche ‘deperito, morto’ da cui sarebbe potuto derivare il significato latino di ‘fiacco, indolente, stupido’ nelle corrispondenti parole. Come ogni lingua anche il latino ha dovuto fare i conti con i substrati o adstrati linguistici. La forma scùrtë ‘debole, esaurito’, ancora una volta, ha il vantaggio di essere diretta, immediata, rispetto alle forme latine che ricorrono all’idea di ‘cuore, coraggio, senno’ il quale sarebbe assente (se-, prefisso si separazione, privazione) nelle persone definite con i suddetti aggettivi. Un po’ d’artificio si sente in questa logica. Allo stesso modo noto un girare attorno al significato diretto nel lat. e-greg-iu(m) ‘egregio, illustre’ se intendiamo l’aggettivo come un ‘essere fuori dal gregge’, benchè quest’idea sia chiaramente presente nel lat. se-greg-are ‘separare dal gregge, segregare, allontanare’ per influsso di lat. greg-e(m) ‘gregge’. Ma il problema è quello di capire bene che cosa ci sia veramente dietro la radice greg- ‘adunare, raccogliere’. Perché l’agnello sacrificale che veniva sottratto al gregge per essere destinato di lì a qualche tempo al sacrificio, lungi dal costringere a convincerci della giustezza della etimologia da tutti ripetuta, ci fa invece riflettere sul fatto che esso veniva messo da parte in base alle qualità di purezza, immacolatezza, integrità e distinzione che già possedeva prima di essere separato dal gregge: l’appellativo egregiu(m), quindi, doveva riferirsi primariamente a quelle qualità e solo secondariamente all’atto materiale della separazione, favorita evidentemente dal significato superficiale dell’appellativo stesso. E’ un autentico uovo di Colombo. Io suppongo che ci sia sotto un’idea di ‘spinta’ seguendo un po’ il mio fiuto e i suggerimenti della toponomastica la quale mi offre un Monte Greco (Barrea-Aq), Monte Gricuzzo (Butera-Cl), Monte Gregorio (Valchiusella-To) che dovrebbero ricevere il nome dal loro essere ‘monti’, ciè sporgenze (cfr. ingl. crag ‘rupe’). Allora egregio potrebbe avere un etimo simile a quello di lat. e-min-ente(m) ‘sporgente, eminente, esimio, distinto’ liberandosi così di colpo dell’influsso ingombrante del gregge. Anche il lat. securu(m) ’sicuro’ sarebbe bello lasciarlo dormire indisturbato nell’alveo della sua solita etimologia che lo vuole ‘separato (lat. se-) da ogni preoccupazione (lat. curam)’ ma già l’oraziano securum holus (22) ci costringe a scuoterlo dal sonno profondo e a domandargli perché mai questo cavolo (holus) possa adornarsi della sua ‘difesa’ senza suscitare la benchè minima reazione dei critici solitamente meticolosi nelle loro esegesi di testi antichi, ma che in questo caso preferiscono spostare la sicurezza dal cavolo a chi, per caso lontano dalle solite feste e festicciole tra amici e con potenti, sempre purtroppo vivaci se non proprio chiassose, pensa di mangiarselo solo (anche se è un malcelato ripiego!), e in santa pace! Ma noi, sempre più scettici nei confronti della gente dotta, non riusciamo proprio a distogliere lo sguardo dal sardo nuorese secura ‘verità’, verità che non può dirsi proprio priva di preoccupazioni, anzi, il più delle volte essa provoca dispiaceri e risentimenti; la parola dovrebbe dare comunque una sana scossa atta a rimettere sulla giusta strada la scienza etimologica, dato che la verità, che io sappia, ama frequentare le persone schiette e sincere e disdegna la sicurezza delle persone aduse a nasconderla per non offendere il potere e vivere in tranquillità. Non la sicurezza che promana da una solida base, la quale anzi la alimenta e le dà forza. Già! Il greco hekhur-ós proveniente da *sekhur-ós ‘solido, forte, sicuro’ se ne è stato tutto solo e saldo come una roccia da lunga pezza, e forse ora trasalisce non gradendo di essere scoperto e di dover condividere il suo spazio vitale col lat. securu(m) ‘ tranquillo, sicuro’! Ma sicuro! Benchè il lat. securu(m) continui a ridersela sotto i baffi in tutta tranquillità perché potrebbe ancora opporre il veto della sua purtroppo non precisissima rispondenza alle norme dettate dalla linguistica, anche se per un pelo, per via della sua velare sorda invece che sonora. Ma bisogna, in questi casi, mettere in conto anche le esigenze degli uomini che non sono mica tutti linguisti e preferiscono addomesticare, con qualche piccolo e talvolta grande cambiamento, le parole che pronunciano tutti i giorni ricoprendole, appena possono, con una veste ritagliata secondo i propri gusti, non certo eletti. Nel frattempo abbiamo un po’ perduto di vista il cavolo di Orazio, che però poteva essere mangiato in tutta sicurezza e in santa pace (ma quest’ultima era un’ option), giacchè comunque possedeva di proprio la qualità della genuinità e schiettezza.


Un ultimo accenno all’abruzzese scassë ‘passo’ del vocabolario del Bielli, ma ‘passo lungo e rapido’ nel dialetto di Aielli. Si incontra anche a Trasacco-Aq l’espressione scass-arrètë (23)‘da capo, punto e a capo’ che il Lucarelli intende come ‘cancella (scassare=cassare, cancellare) tutto e iniziamo da capo’: la voce, scomparsa dal lessico corrente del suo dialetto, lo ha portato fuori strada. Bastava che lui si facesse una passeggiatina fuori del paese, perché i suoi orecchi potessero captarne ancora l’eco col suo vero significato; comunque, onore e gloria nei secoli a lui e alla sua ponderosa opera sul dialetto di Trasacco! Senza l’ausilio di questi indefessi, appassionati, puri ricercatori che sono capaci di lavorare in silenzio per anni e anni o per l’intera vita, lontani dal chiasso e dal bailamme dei moderni presenzialisti di ogni risma, con un senso di abnegazione e disprezzo del facile guadagno che stupisce, in esemplare contrasto con la voracità e la protervia dei sempre più numerosi e gretti arraffatori e dilapidatori del bene pubblico in ogni campo, il mio pur umile lavoro di indagatore delle radici delle parole sarebbe stato di gran lunga più lento, difficile, e forse, in molti casi, senza speranza di riuscita. E pensare che persone come Domenico Bielli o come Quirino Lucarelli e tanti altri corrono magari il rischio di essere dimenticati nei loro stessi paesi d'origine! Ora, riprendendo il filo del ragionamento, a me sembra che la precedente espressione possa allinearsi con il ted. schiess-en ‘essere in rapido movimento, volare, ecc.’ e con lo stesso it. scatto di cui sopra. L’it. scasso ‘lavoro in profondità del terreno’ è sostanzialmente un ‘rompere’, anche metaforico, che può essere separato dal lat. quass-are ‘sbattere’, da lat. quat-ere ‘scuotere’, e ricongiunto con la famiglia di it. scatt-are sopra citato.

Nunc est bibendum, nunc pede libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
ornare pulvinar deorum
tempus erat dapibus, sodales.



Ora bisogna bere, senza freno darsi
alla danza e alla pazza gioia,
ora bisogna ornare
il letto degli dei col cibo dei Salii (24) .
Era ora, o amici.



(Orazio: Carmina, I, 37)




Note



(1)M. G. Balzano, Dizionario del dialetto di Gallicchio-Pz, http://dizionariogallic.altervista.org/index.htm .


(2) Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003.


(3)Cfr. A. Rubattu, Dizionario universale della lingua sarda, http://www.toninorubattu.it/ita/DULS-SARDO-ITALIANO.htm .


(4)Treppecore, il vocabolario abruzzese, http://www.abruzzo.fm/archivio/treppecore/treppecore. html.


(5) Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.


(6) Cfr. D. Bielli, cit.


(7) Ibidem.


(8) Cfr. Q. Lucarelli, cit
(9) Ibidem.


(10) Cfr. D. Bielli, cit.


(11) Cfr. Treppecore, cit.


(12) Cfr. M. Cortelazzo/C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998.


(13) Cfr. G. Tuccio, Vocabolario siciliano-italiano, http://giuseppe-tuccio.jimdo.com/ .


(14) Cfr. D.Bielli, cit.


(15) Cfr. E. Sprea, Dizionario brianzolo-italiano, http://sprea.altervista.org/Diz.htm .


(16) Cfr. D. Bielli, cit.


(17) Cfr. Q. Lucarelli, cit.


(18) Cfr. A. Rubattu, cit.


(19) Cfr. Treppecore, cit.


(20) Cfr. D.Bielli, cit.


(21) Cfr. Q. Lucarelli, cit.


(22) Cfr. Hor., Satire, II, 7, 30.


(23) Cfr. Q. Lucarelli, cit.


(24) I Salii, che costituivano uno dei collegi sacerdotali più antichi e ragguardevoli di Roma, procedevano percuotendo con le lance dodici famosi scudi (di cui uno si credeva caduto dal cielo) e a ritmo di danza (come vuole la derivazione del nome da lat. salire 'saltare'), in occasione di processioni dedicate a Marte Gradivo nel mese di marzo. Queste manifestazioni terminavano la sera con un abbondante e raffinato pranzo, divenuto proverbiale, consumato nel tempio di Marte, appunto.

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