Da quando abbiamo fatto
conoscenza nel precedente post, il diavolo
non vuole staccarsi da me che pure lo tengo, guardingo, a debita distanza. Egli
in verità, pur sentendosi un po’ offeso, non ha intenzione di farmi del male perché
sa che, nonostante io sia in fondo un povero diavolo come lui, tengo molto alla
mia indipendenza di solitario che è diventata, ormai alle soglie dei 70, una
mia esigenza vitale. E ad essa non
rinuncio, pena la mia tranquillità, per quanto avara, e la mia stessa
vita. Egli è prodigo di attenzioni nei
miei riguardi e mi ha messo a parte di molti dei suoi meravigliosi segreti ma
ha capito che le mie decisioni sono irremovibili e pertanto non insiste, da logico
sopraffino quale sempre è stato, con atteggiamenti collerici o sfide
bibliche, a tirarmi dalla sua. Comincio a pensare che proprio la mia
indifferenza inattaccabile lo abbia conquistato e ora si lascia andare persino
a sorridermi, senza secondi fini, scodinzolandomi vicino o cercando di
accoccolarsi nei paraggi, socchiudendo gli occhi, come a voler finalmente riposare
dopo la lunga vita da disperato e reietto.
Io, dico la verità, dovrei venerarlo con devozione per il resto della
mia vita (se non sussistessero le condizioni irrinunciabili di cui ho parlato)
dovendolo molto ringraziare della condivisione dei suoi stupendi segreti, anche
se si trattasse solo di questo che sto rivelando prima degli altri.
Secondo il più volte
ricordato Vocabolario Abruzzese del
Bielli i termini ciàvele, ciàvule, ciàule (tutte le –e- sono mute) significano ‘gramola’ cioè quell’attrezzo di legno
chiamato anche maciùlla con cui
ricordo che negli anni lontani della mia fanciullezza le donne dirompevano ancora
la canapa per ricavarne le fibre utili alla filatura. E’ curioso che le tre varianti con cui viene
indicato il congegno corrispondano a quelle con cui in tutto il Centro-meridione,
ma anche in zone del Settentrione, si designa un uccello o, meglio, vari tipi
di uccelli simili, come la ‘cornacchia’, la ‘taccola’, il ‘gracchio’, ecc. Ora, si dà il caso che, col termine devil ‘diavolo’ si indichino in inglese[1]
vari tipi di macchine o strumenti atti a lacerare, dirompere o macinare
qualcosa come legno, lana, ecc. sicchè non mi sembra affatto azzardato
richiamare uno dei significati di gr. dia-bállo
‘disunisco, separo’ che potrebbe spiegare l’origine della parola unitamente
agli elementi appuntiti, taglienti, affilati di cui queste macchine debbono
essere dotate e che, come abbiamo visto nel post precedente, sono
caratteristici di alcuni strumenti col nome di diavolo. Ciò assodato mi
sembra di conseguenza abbastanza credibile che la voce ciàvele ‘gramola’ di cui sopra provenga da un originario *dia-volo o *dia-vola (o il tià-ulë di
certe parlate) come del resto l’italiano giorno
deriva da lat. diurnu(m) ‘diurno’. Ma, secondo me, è cosa di notevole peso
linguistico il dover constatare che anche l’uccello ciàvëla, ciàula, nome per
il quale i linguisti sanno al massimo indicare un’origine onomatopeica, sfrutta
la stessa radice di diavolo, in uno dei
suoi significati originari (come più sotto vedremo), cioè quello di ‘soffio, spirito,
vento’ che poteva servire a designare qualsiasi animale, cioè etimologicamente un ‘essere che respira e vive’. Anche un pesce è chiamato in alcuni dialetti ciàula (più comun. menola), della classe degli Attinotterigi a cui del resto
appartiene la maggior parte dei pesci: il nome scientifico fa riferimento alla
caratteristica comune costituita dalle pinne sostenute da raggi (gr. aktís, inos ‘raggio’). Anche il nome scientifico della famiglia dei centr-acantidi (gr. kéntron ‘pungolo, pungiglione’ e gr. ákantha ‘spina’) cui appartiene la ciaula non lascia dubbi sulla sua caratteristica principale. Ma si badi bene, all’origine il suo nome dialettale
indicava l’ ‘animale, essere vivente’ incrociatosi evidentemente anch’esso col
significato di ‘raggio’ che, come abbiamo visto nel precedente post, la radice dia-bolos poteva avere. L’ingl. devil-fish ‘polipo’ lett. ‘pesce-diavolo’ conferma secondo me l’incrocio
con l’idea di “tentacolo”, una sorta di raggio.
Il significato di ‘manta’ nell’inglese americano credo provenga dalle
due caratteristiche protuberanze anteriori della manta, chiamata in italiano anche diavolo del mare. La manta nell’immaginario collettivo di
alcune popolazioni rappresenta un essere mostruoso e maligno, pur essendo in
realtà innocua. Queste credenze sono
originate dai nomi che, tra i tanti che potevano indicare queste creature,
arrivano più facilmente fino a noi perché rispondenti anche a quel qualcosa di
negativo suscitato dalla forma un po’ paurosa di questi esseri.
Chiarite queste cose, mi si
è aperta una via maestra che mi ha portato alla definizione dell’etimo del
nostro paese di Gioia dei Marsi, ad esempio, quando ho scoperto che nel Salento
le giole o ciole non sono altro che le più note ciàule, con normalissima riduzione ad –o- del dittongo –au-. Con questa forma giola ‘cornacchia, taccola, gracchio’ siamo, senza che ce ne
accorgiamo, ad un passo dalla forma gioia
per la quale manca solo la palatalizzazione della liquida –l- così diffusa nei nostri dialetti: cf. luchese jupe[2] da
lat. lupu(m)
‘lupo’, aiellese jjojje da lat. loliu(m) ‘loglio’, trasaccano ciàvia ‘ciavola, ghiandaia’[3]
e lo stesso luchese dïàveje [4]‘diavolo’.
A volte bastano due o tre passaggi fonetici, specialmente quando un nuovo
termine interviene a coprire il vecchio, a stravolgere completamente la fisionomia di una
parola che ci diventa così una perfetta estranea. Chi potrebbe mai supporre, infatti,
senza le precedenti osservazioni, che la voce dialettale giola ‘cornacchia’ non sia
altro che un’originaria *diabola ? Mai nessuno in effetti in passato si è
nemmeno lontanamente sognato di porre in rapporto il nome del paese di Gioia dei Marsi (Vecchia) con il vicinissimo Passo del Diavolo[5],
nome rimasto intatto fin dalle origini, sottratto alle vicende linguistiche
proprie della parlata del relativo nucleo abitato probabilmente perché, come
valico montano finì inavvertitamente sotto una sorta di tutela linguistica
ufficiale da parte di tutte le parlate delle comunità della Marsica,
distanziandosi così sempre di più dal nome del centro abitato inizialmente
omofono ma finito tra gli ingranaggi deformanti della pronuncia locale. Chi potrebbe in effetti di primo acchito
indovinare, ad esempio, che la città di Ivrea
era la romana Eporedia? Nel post Perché gli abitanti di Gioia dei Marsi erano chiamati […]
supponevo che la forma più attendibile per l’etimo di Gioia dovesse coincidere
con lat. iugu(m) ‘giogo, passo
montano’ ma, benchè una forma Iuge
risulti in qualche documento, bisogna tuttavia considerarla una rietimologizzazione
delle forme medievali più attestate joja,
joje, joya. Resta comunque valido,
in base a questa possibile rietimologizzazione, quanto lì asserisco sul
nomignolo pesavéndë appioppato ai
Gioiesi.
Va da sé che Passo del Dia-volo è una
espressione tautologica in cui Dia-volo (probabilmente il più
antico nome del passo) indica appunto il passaggio montano, dalla radice di gr.
dia-báll-ein ‘passare attraverso, ecc.’. Nella Marsica esiste qualche altro passo meno
noto dallo stesso nome, come mi diceva un alunno di Villavallelunga-Aq, per
averlo saputo dal padre.
La radice onomatopeica
suggerita dai linguisti per la ciàula
non può soddisfarmi, non solo perché sono convinto, come ho cercato di spiegare
in altro post, dell’insussistenza del fenomeno onomatopeico per quanto riguarda
l’origine del linguaggio, fenomeno che considero piuttosto una facile e comoda scappatoia
per le spuntate armi degli studiosi e non una solida realtà[6]
operante nella lingua, ma anche e soprattutto perché i signori linguisti, in
questo caso specifico, dovrebbero trovare il modo di spiegarmi perché nel
vocabolario abruzzese del Bielli ciavul-arelle significa ‘farfalla, farfallina’ e ciavul-étte significa ‘farfalla diurna’: che
io sappia le farfalle sono troppo leggere, aeree e soprattutto silenziose per poter sopportare una
motivazione onomatopeica (che parola riempi-bocca!)
per questo loro nome coincidente con quello delle chiassose ciàvule dallo sgraziato crah. Questo fatto, piuttosto, conferma la mia
supposizione espressa nel post precedente che gr. diábolos significasse, in qualche parlata, anche ‘spirito, essere
vivente’ come il gr. psykhé ‘spirito,
soffio, anima, farfalla’ e il sardo logud. ispiritu ‘farfalla’. Nel
dialetto pugliese di Corato-Ba la ciàula,
non ancora specializzatasi, indica infatti un ‘uccello in genere’[7]. E, a mio modesto parere, è anche pressochè
impossibile che questi diversi significati della voce ciàula provengano da diverse radici originarie. Il fatto, poi, che a Palmoli-Ch la voce ciàvela significa ‘cicala’ non inficia minimamente il mio discorso sull’onomatopea,
anzi, lo rafforza. Tra i diversi animali che la parola indica è
comprensibile che possa ritrovarsi anche la cicala
che ha abitudini canterine, anche se con tutt’altro suono rispetto alla ciaula, e per questo può farci
erroneamente credere che il significato d’origine della parola fosse quello
onomatopeico di ‘sonorità’. Ma a parte
la considerazione che la parola indica anche le farfalle che canterine non sono,
io sono convinto che questa ‘sonorità’ sia in effetti solo uno dei tanti
aspetti che la radice assume in virtù del suo significato sovraordinato di
‘animalità’. In altri termini a me
sembra che il concetto di sonorità rientri in quello di animalità e che sia in fondo fuorviante riportare i dialettali ciaulà, ciavëlà, ciavëlià ‘ciarlare,
cicalare’ al nome dial. ciaula, ciavëla ‘cornacchia, ecc.’. Che dietro simili termini operi, con questo
significato di ‘sonorità’ non attestato in greco, la radice di gr. dia-bállo ‘gettare tra’ me lo fa pensare la voce abr. ciavajjà ‘balbettare’ (v. vocab. del
Bielli) che deve aver significato, agli inizi, un ‘essere incastrato’ (gr. dia-bàll-esthai ‘essere incastrato, messo in
mezzo’) o un ‘urtare contro, inciampare’, significato che può rientrare nella
sfera semantica del verbo.
Tutto il precedente
ragionamento viene confermato definitivamente, almeno spero, dall’etimo del
siciliano ciàuru, sciàuru ‘odore
buono’, calabrese sciàuru ‘odore,
lieve sentore’, campano sciàuro ‘alito,
fiato, odore pesante, fetore’. Tutti i
linguisti, compreso il grande Gerhard Rohlfs[8], propongono una derivazione del termine da una
supposta (legittimamente, per carità!) forma *fragrum, dal verbo lat. fragr-are ‘mandare odore’, mutata in *flagrum, altra forma supposta, anche se legittimamente, del latino parlato dove esisteva il
verbo flagrare ‘odorare’[9]. Da quest’ultima si sarebbe avuto il siciliano
ciàuru secondo il normale trattamento
del nesso consonantico fl- che ha dato, ad esempio,
il sicil. ciùri, sciùri dal lat. flores ‘fiori’. Ora, io credo che si possa rintracciare un
etimo della parola meno soggetto a supposizioni. Manco a farlo apposta esso, anche qui, coincide
con quello del nostro dia-volo, nella
fattispecie nel significato sopra supposto di ‘spirito, soffio’ e quindi di ‘odore,
puzza’ (non per nulla il diavolo, nella tradizione popolare, viene spesso accompagnato
dallo sgradevole odore di zolfo,
segno della sua presenza). In questo caso la liquida laterale –l- dell’ultima sillaba viene scambiata, come
spesso avviene, con la liquida vibrante –r- [10].
Abbiamo visto sopra come la parte iniziale del termine dià-volo abbia dato cià-
in cià-vola, ad esempio,
parola presente in Sicilia con sue varianti.
Nel dialetto del paese di Girifalco-Cz, in Calabria, si incontra il
termine àcciavulu ‘diavolo’, con lo
strano accento sulla prima sillaba[11],
accanto ad acciàvula ‘taccola,
gracchio’. L’estensore del
vocabolarietto fruibile in rete si affretta a notare che àcciaulu corrisponderebbe ad ‘arcidiavolo’[12]
in barba a due considerazioni: 1- esistono altri termini in quel vocabolarietto
che presentano l’arci- ben distinto
ed intatto; 2- spesso i nomi di animaletti, e non solo, vengono in quella
parlata fatti precedere da una a- prostetica rafforzativa, come in agghìru ‘ghiro’, agrancu
‘granchio’, agrìddu
‘grillo’. Nulla ci vieta, quindi, di
considerare àcciavulu ‘diavolo’ una forma
rafforzata del semplice *ciàvulu non
attestato, con spostamento dell’accento sulla prima sillaba, come avviene per acciàvula ‘specie di cornacchia,
taccola’ rispetto alla forma ciàvula,
più diffusa e più semplice. La
probabile presenza del diavolo nella
parola ciàuru ‘odore, fiato’ viene
ulteriormente riconfermata dal riapparire dello stesso, anche se con
significato diverso, nella parola simile ciaur(r)-ina che apparentemente non sembra averci a che fare. La ciaurrina è una caramella a base di
miele stirata in forma di bastoncini,
e preparata tradizionalmente soprattutto a Barcellona Pozzo di Gotto-Me in
occasione della festa di San Sebastiano del 20 gennaio[13]. In provincia di Cosenza la ciaurrina indica i bastoncini
della liquirizia. I bastoncini in
realtà non sono altro che le frecce
con cui, secondo la tradizione, venne martirizzato san Sebastiano legato ad un palo sul Palatino e precisamente sui gradus
Helagabali, probabilmente i gradini di un tempio di Eliogabalo, divinità
del Sole introdotta a Roma non molti decenni prima del presunto martirio del
Santo, dall’imperatore Eliogabalo. In
questo caso frecce e palo non possono che rinviare ad
un’unica idea di ‘punta, lancia, raggio’ che poteva essere espressa, come
abbiamo visto nel post precedente, anche
dai monumenti megalitici della preistoria presenti in Inghilterra e chiamati Devil’s Arrows ‘Frecce del Diavolo’ o Devil’s Bolts ‘Dardi del Diavolo’, vere e
proprie aste di pietra infisse nel terreno e svettanti verso il cielo. Quasi sicuramente, quindi, non si sbaglia se
si afferma che san Sebastiano doveva essere il nome di una
divinità solare di origini antichissime.
Il termine ciaurr-ina si presta
benissimo, in base a quanto osservato foneticamente in precedenza, ad essere
spiegato come derivante da un’originario *diabol-ina, *diaul-ina.
E’ probabile, quindi, che anche il fr.
javel-ot ‘giavellotto, dardo’
derivi da un antenato comune rispetto alle espressioni inglesi per le ‘frecce
(o dardi) del diavolo’ sopra
citate. Naturalmente il nome diable ‘diavolo’ portato dal Cristianesimo è successivo all’altro già
esistente evidentemente da molto prima nel lessico francese e fatto derivare
(erroneamente, a mio avviso) da una base gallica *gabalo, presente anche nel lat.
gabal-u(m) ‘forca, croce’, e nel ted. Gabel ‘forchetta’.
Last but
not least è il caso del trovamento archeologico noto come Gambe del Diavolo, parte inferiore di una
stele dal cui fondo risaltano due
gambe a clava dall’inguine in giù. Il reperto è conservato nel Museo Archeologico
Nazionale di Chieti e proviene da Collelongo-Aq nella Marsica, dove si trovava inserito
in una vecchia muraglia da tempi remotissimi[14].
La sua datazione è incerta ma la stilizzazione delle gambe lo avvicina al
famoso Guerriero di Capestrano (VI sec. a.C.). Ora, a me sembra che qui la voce
diavolo potrebbe ripetere
tautologicamente, come al solito, lo stesso concetto di “gamba”, ma la singolarità
della denominazione che poteva anche alludere all’intero manufatto e non soltanto
alla sua parte restante (le gambe), mi spinge a credere che la parola diavolo indicasse nel dialetto italico
corrispondente, l’intero manufatto, cioè una stele, concetto coincidente con quello di ‘punta, colonna, statua,
palo, ecc.’ del resto simile a quello di ‘gamba’: a Sover-Tn ciavela in effetti significa ‘gamba’ e ciaola vale ‘cornacchia, gracchio’. Voglio
sottolineare, anche se può sembrare superfluo, che queste tradizioni, le quali possono
arrivare anche dalla più lontana preistoria, sono veramente impagabili
soprattutto sotto il profilo linguistico.
Passo ora ad analizzare
alcuni Diavoli (tra i tanti) della
toponomastica che ritengo di particolare interesse. Non si può tacere del Ciolo, insenatura profonda della costa del Salento, nel comune di
Gagliano del Capo, vicino a Santa Maria di Leuca. Come al solito il nome Ciolo viene messo in relazione con le giole o ciole ‘gazze,
cornacchie’ “che un tempo vi si rifugiavano e nidificavano”
ma noi, che ormai possiamo dire di saperne una più del diavolo in questo campo, ce
la ridiamo a crepapelle soprattutto quando riflettiamo che, sempre nella costa del Salento e non
molto lontano dall’insenatura del Ciolo, si incontra una Grotta del Diavolo,
cioè, a suo modo, un’altra insenatura,
passaggio o cavità.
E’ semplicemente fantastico,
poi, il gioco di nomi e toponimi che interessa il paese di San Pellegrino in Alpe-Lu
situato in uno dei versanti dell’ Alpe di San Pellegrino nell’appennino
tosco-emiliano presso il cui crinale esiste il cosiddetto Giro del Diavolo, un percorso circolare intorno ad un campo dove
ogni anno, soprattutto in passato, schiere di penitenti andavano a deporre
sassi più o meno grandi, portati sulle spalle dal paese che si trova più in
basso, formandone così dei mucchi. Mi pare chiaro che inizialmente il termine diavolo dovesse qui indicare il valico che metteva in comunicazione la
zona toscana della Garfagnana con quella della provincia di Modena e della
Pianura Padana. Anche il nome del paese
di San Pellegrino non fa che
riprodurre, a mio avviso, il significato che abbiamo dato anche in questo caso
al diavolo[15].
Dietro di esso opera infatti la radice del lat. per-egrinu(m) ‘straniero’, lat. per-egr-in-are ‘viaggiare all’estero,
peregrinare’, lat. per-agr-are
‘percorrere, penetrare’, tutti in fondo legati a lat. per-ag-ere ‘trafiggere, trapassare, spingere,
perseguitare, compiere’ col quale siamo tornati ad uno dei significati di gr. dia-bállo ‘trafiggo, trapasso’. Sulla sommità dell’Alpe, dove il Santo
sarebbe stato tentato più volte dal diavolo,
si trova anche una piccola cappella a lui dedicata. Ma la cosa veramente stupenda è rappresentata
dal racconto della tradizione secondo cui un bel giorno il Santo, adirato contro
il maligno che non desisteva dal tentarlo, gli affibbiò un schiaffo (o un
calcio, secondo altra versione) che lo fece girare
per tre volte su se stesso e addirittura lo scaraventò verso le abbastanza
lontane Alpi Apuane dove il diavolo perforò
la parete rocciosa e lasciò quindi il buco
del Monte Forato, un arco naturale di grandi proporzioni, visibile in
lontananza. Potenza immaginifica delle
parole (non della mente dell’uomo che in questi casi non fa che registrarne i
vari significati, diversi di epoca in epoca, i quali finiscono col diventare i
veri alimentatori dei racconti mitici della tradizione) ! Ora, non si può
negare che un buco è legato all’idea
di passaggio, passo espressa dalla
parola diá-bolos, ma, se ci si
riflette, un buco è anche una ‘rotondità
(più o meno regolare)’, idea che sta alla base dell’espressione Giro del Diavolo nonché, miei cari
lettori, del concetto di “masso, pietra” [16]
riaffiorante come un’ossessione nelle pietre
che i penitenti, simili ai superbi del Purgatorio dantesco, portano sulle
spalle. Nel Valdarno Superiore i Pani del
Diavolo designano tipi particolari
di pietre;
Il diavolo, in questo significato, naturalmente ha valicato anche le
Alpi dando origine, in Austria e in Germania, ai vari Teufels-mühlen ‘Mulini (-mühlen) del Diavolo (Teufel-)’,
località dove esistevano nel lontano passato, o esistono ancora, mulini con la macina, pietra rotondeggiante. Talvolta il mulino non c’era mai stato se non nell’immaginazione della gente
del luogo, ma c’erano e ci sono solo pietre
particolari entrate naturalmente in leggende il cui protagonista è il diavolo[18].
Mi ha colpito l’esclamazione gioia mé! ‘poverino! poverina!’
riportata nel vocab. del Bielli la quale significa il contrario di quello che
afferma in superficie (gioia mia!):
per antifrasi! diranno quelli che se ne intendono, ma io vi scorgo sotto la
presenza del diavolo e intendo come
‘povero diavolo!’ con l’aggiunta di quel mè
‘mio’ che serve ad infondere all’espressione quel tanto di partecipazione
affettiva che la caratterizza.
Considerate tutte le
meraviglie precedenti e quelle ancora da scovare nella toponomastica sotto il
suo nome, mi toccherà, nonostante i propositi, di innalzare un degno altare anche
al Diavolo!
Ps. Oggi, 13 agosto 2012 il signor Vincenzo
Giampà, autore del vocabolarietto del dialetto di Girifalco-Cz, mi ha mandato
una email in cui spiega gentilmente che la forma ácciavulu ‘diavolo’ con l’accento sulla prima in realtà è errata,
essendo giusta quella piana acciàvulu
con la variante femminile acciàvula
dalla stesso significato.
[1] Cfr. vocab. Miriam-Webster s. v. devil.
[2] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche
Cellini, Avezzano-Aq 2006, p. 96.
[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, p. 497. In area piemontese si incontrano gli
ornitonimi Cioja, Gioja d’
montagna, Gioja dal bech giaun (Cuneo), Gioia dal bech rous (Cuneo) per varie specie di “gracchio”.
[4] Cfr. G. Proia, cit. p.79.
[5] Cade così, a mio avviso, il tentativo, per
quanto dotto, di far risalire il toponimo Gioia,
abbastanza diffuso nel Meridione (Gioia Sannitica, Gioia del Colle-Ba), ad una forma aggettivale latina Iovia di origine italica, attributo di località (arx,
urbs) consacrata a Giove. Supposizione validissima ma che andrebbe, di volta
in volta, sostanziata con concreti riferimenti archeologici (cfr. Aa. Vv. Dizionario di toponomastica, UTET,
Torino 1997, s.v. Gioia del Colle).
[6] Cfr. nel mio blog il post Etimo di chicchirichì ‘gheriglio della
noce’ del giugno 2009, sull’onomatopea.
[7] E’ interessante far notare che nel dialetto
di Corato ciàula significa anche
‘membro virile’. Questo significato però
non deriva dall’altro di ‘uccello’ per via metaforica, ma dal valore di ‘punta,
chiodo, ecc.’ spesso assunto dal termine diavolo,
come si è visto nel precedente post.
Pertanto inviterei gli studiosi a trovare un altro rapporto, che non sia
quello metaforico, anche tra i due significati di ‘volatile’ e ‘membro virile’
per l’it. uccello.
[8] Cfr. G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria
(con repertorio italo-calabro), Longo, Ravenna 1977.
[9] Nel latino medievale è attestato solo il
verbo flagrare per fragrare ‘odorare’: cfr. Ch. Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis presente in rete.
[10] Cfr. la forma tiàvere al posto di tiàvele ‘diavolo’ in Q.
Lucarelli, Biabbà Q-Z , Grafiche Di
Censo, Avezzano 2003, p. 510.
[11] La
stranezza dell’accento di ácciavulu
rispetto ad acciàvula potrebbe essere
dovuta al fatto che i due termini, venuti a trovarsi nel bel mezzo di un
sistema di accentazione di tipo greco, furono
considerati nomi provenienti l’uno da un
aggettivo proparossitono maschile e l’altro dalla corrispettiva forma parossitona
femminile con spostamento dell’accento (che prima doveva in realtà già insistere
sulla penultina dei due sostantivi originari — acciáulu, acciáula)
sulla penultima nella forma femminile, come avviene, ad esempio, nel gr. népios ‘puerile, di tenera età’ che al
femminile diventa nepía. In questo caso la particella rafforzativa prostetica
a- doveva essere già presente al
momento dello spostamento dell’accento. Mi azzardo a ipotizzare forme
dialettali come *á-tjavlos, *a-tjávla
all’origine di questi termini.
[12] E’ vero che nel dialetto
di Girifalco è presente anche la voce arcissimu
‘grande diavolo’ ma anche ‘sommo, altissimo, principale’ che pare quindi
derivare dal gr. árkhos ‘capo,
duce’ e che riconferma, a mio avviso, la
tendenza del dialetto a mantenere ben distinte queste forme inizianti per arci-.
[13] Il dolce è quindi caratteristico della tradizione
religiosa di diversi paesi della Sicilia, prima di diventare una leccornia
venduta nei mercati e nelle fiere come
desumo da: Cortelazzo-Marcato, I Dialetti
Italiani, UTET, Torino 1998, s. v. cia(v)urrìna.
[14] Cfr. Aa. Vv., Popoli e Civiltà dell’Italia Antica,
vol.V, Biblioteca di Storia Patria, Roma 1980, p.80.
[15] Ecco perché, nella leggenda popolare cui
abbiamo accennato nell’articolo precedente a proposito dell’espressione
piemontese l diàu di pe dré (il diavolo Dite Padre), il diavolo
se ne va in giro come un pellegrino!
Si tratta in effetti di due sinonimi, ma probabilmente di due lingue diverse
succedutesi nel territorio!
[16] Cfr. il mio post I Ciclopi e il concetto di rotondità del
giugno 2009.
[17] Cfr. Mt. 4,3.
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