Queste
denominazioni popolari abruzzesi e pugliesi delle piante del genere Stipa ci spingono inevitabilmente a
pensare che grande dovette essere l’immaginazione degli uomini che per primi le
usarono. Così crede l’uomo comune a
digiuno di questioni linguistiche, ma così credono sostanzialmente anche i
linguisti che dedicano molto tempo della loro vita allo studio delle parole.
Ciò significa, a mio parere, che la linguistica non ha compiuto purtroppo molta
strada in questi due o tre secoli che ci separano dai suoi inizi, a non voler
tener conto degli interessi più o meno sporadici che fin dalla lontana antichità
la Lingua ha
suscitato. In questo caso non possiamo
nemmeno sfoderare, per la locuzione Capelli
delle streghe o della strega, la
dotta considerazione che essa sarebbe giustificata dalla velenosità della piantina, trattandosi in effetti di piantina
innocua come in qualche modo fa capire l’altra locuzione di tenore opposto Lino delle fate la quale, però, parrebbe
avere una certa giustificazione, dato il bel colore niveo-argenteo della
graminacea che spicca vistosamente tra
il verde dei prati montani. Ma se l’altra denominazione ad alto tasso di
immaginazione è ingiustificata, probabilmente lo sarà anche questa con
altrettanto alto tasso di immaginazione e il suo significato sarà il risultato dell’incontro
casuale di nomi tautologici, come mostrerò.
Il nome
scientifico Stipa rimanda al lat. stipa, stupa, stuppa ‘stoppa’ (gr. stýppē) e certamente allude agli steli
piumosi a mo’ di pennacchi della piantina chiamata in Abruzzo anche pëlónë (Aielli) della famiglia di lat. pilu(m) ‘pelo’, o pëlùmmë
incrociandosi col lat. pluma(m)
‘piuma’[1]. E’ bene già da ora notare come i concetti di
“pelo” e di “stelo”, con lo stiramento di quest’ultimo fino al concetto di
“tronco” e persino di “albero”, praticamente coincidono, perché bisogna
ricordarsi, come ho più volte sottolineato, che dietro i significati specifici
ce n’è sempre uno generico che li comprende tutti. Il gr. stýp-os, infatti, significa ‘stelo, bastone, tronco’ e il lat. stip-ite(m) indica il ‘bastone, clava, ramo,
palo, tronco’. Questo è uno dei
principi fondamentali della mia semantica, che risolve molti problemi con una
semplicità incredibile. Secondo la
nostra mentalità ormai fortemente analitica c’è una bella differenza tra un pelo e un tronco o una colonna, ma
per gli uomini preistorici no. A mano a
mano che la lingua diventava più matura e specializzava i significati delle
parole, essi furono indotti a pensare che invece una qualche differenza tra
questi vari concetti ci fosse, visto che venivano spesso indicati anche con
parole diverse. La differenza dei significanti rafforzò così la
convinzione che anche i significati
dovevano essere in qualche modo distinti già dall’origine, convinzione talmente
tenace che non ha permesso, fino ad oggi, ai linguisti di spiccare il volo
nella giusta direzione.
Nel commento
all’articolo di G. Sociali (citato nella nota 1) inserito da Gerardo Rosci il
26 giugno 2012, vengono riferiti altri due interessantissimi nomi della stipa e
cioè ficche
a Petrella Liri e puche nella
limitrofa Cappadocia, forme di plurali evidentemente indicanti gli insiemi di
questi steli o mazzi che venivano
usati come ornamento e talvolta, così ricordo che facevo io da bambino, li si
lanciavano in alto per il gusto di vederli ripiombare al suolo perfettamente
eretti. A colpo d’occhio appare la
somiglianza formale dei due termini, la cui differenza sostanziale è
rappresentata dalle consonanti iniziali p/f
. Quest’alternanza, per cui si va col pensiero alla resa in germanico della
occlusiva labiale sorda –p-, ricorre
con una certa frequenza nei dialetti abruzzesi (almeno) come in cafùrchjë/capùrchjë ‘cavità, cesto’, pésëlë/fésëlë
‘pensile, sottotetto, soffitta’, fischë/pesch(j)ë
‘macigno’, piluccone/filuccone
‘scroccone’, ecc. Ciò fa pensare che la
questione del rapporto tra occlusiva labiale sorda e fricativa sorda va vista in modo diverso da
quello usuale. Ora, per quanto riguarda il significato profondo di puca, dobbiamo fare delle osservazioni
preliminari. Ad Aielli e altrove il termine designa il comune forasacco, una graminacea del genere Bromo con spighette dotate in genere di
due ariste, rigide e penetranti nei
tessuti, tanto da risultare molto pericolose per i cani. A Rocca di Botte[2], a
Luco dei Marsi[3] la puca indica l’aculeo
dell’istrice. A Trasacco la parola
assume diversi significati. 1- seme
della graminacea testè descritta; 2- rametto verde da cui si prelevano le gemme
da innestare in altra pianta; 3- bastoncello ricavato dal ramo di un albero per
il trapianto; 4- occhio o gemma da innesto[4]. Questo quadro di riferimento è sufficiente,
a mio avviso, a generare in noi una precisa idea del significato di fondo del
termine puca che a Cappadocia abbiamo
visto indicare la Stipa.
Direi che questo concetto generico può essere benissimo rappresentato
da quello di “punta, protuberanza” che collega tutti i significati assunti dal
termine: gemma, pelo, stelo, tronco, ramo,
innesto. Così la puca, con la variante ficca di Petrella Liri, ci riporta ai vari termini per ‘punta’
espressi dalla radice pik- elencati in
uno dei precedenti post riguardante i nomi dei piccoli animali in espressioni
idiomatiche nei paesi delle valli dell’Adda e della Mera. Il lat. pugione(m)
‘pugnale’ presenta una radice che deve essere variante, con velare sonora, di puk-.
Credo che ora
sia arrivato il momento di spiegare la denominazione di Capelli delle streghe. Abbiamo visto che le streghe, responsabili
nel Medioevo (durato per certi riguardi fino a non molti decenni fa nei nostri
paesi) di molti malanni, non possono in questo caso essere tratte in ballo per
la giustificazione di questo nome, dato che la piantina che non è nociva è chiamata anche Lino delle fate, denominazione in cui compare la fata, essere fantastico buono che si
contrappone alla cattiva strega[5]. Le streghe quindi non c’entrano, sibbene una
radice corrispondente all’ingl. strick,
strike ‘mazzo di fili di canapa o lino cardati’, ingl. strig ‘picciòlo’, ingl. strig-ose ‘ispido’ da un latino medievale striga(m) ’setola’. A chi
avesse in uggia la perfida Albione possiamo presentare il toscano strega, uno stoppino cerato posto all’estremità di una canna per l’accensione
dei ceri sull’altare. Ora, fra i diversi altri riferimenti, mi piace ricordare
l’uso, ancora corrente in alcune case del mio paese fino a una cinquantina di
anni fa, di appendere all’interno delle porte un mazzetto di stoppa accanto alla
serratura, da dove si presumeva che sarebbe potuta entrare la strega malefica. Se ciò fosse avvenuto essa
sarebbe stata costretta a contare tutti i fili della stoppa (come del resto
ingiungeva, se ci riflettiamo, lo stesso verbo it. stric-are, strig-are ‘sbrogliare,
districare’ che non c’entrava nulla con la strega
ma non possiamo certamente pretendere che in questi casi il popolino di allora usasse
un minimo di razionalità!) prima di poter esercitare il suo potere malefico:
nel frattempo sarebbe arrivata l’alba ed essa avrebbe dovuto filarsela! E’ chiaro che questo rapporto stretto tra la strega e la stoppa derivava dal fatto che nel lontano passato la parola strega era anche sinonimo di stoppa in qualche parlata. Così stando
le cose è anche chiaro che i cap-elli dell’espressione non sono usati metaforicamente ma dovevano
in questo caso avere un significato corrispondente all’it. cap-ecchio, sinonimo di stoppa
(grossolana), il cui etimo non credo sia
esattamente quello comunemente dato, cioè il lat. capitium ‘cima degli alberi’.
Insomma, lo ripeto ancora una volta perché la cosa è di grande
importanza, il lat. capillu(m)
‘capello’, ad esempio, è un termine che di certo non fu creato apposta per
indicare i ‘capelli’ ma per designare almeno tutti i possibili referenti che
rientrassero nel concetto di ‘escrescenza, punta, stelo’ e poteva anche darsi
che il termine non fosse appannaggio esclusivo della lingua parlata nel Lazio,
ma fosse presente anche in qualche dialetto italico. Lo strumento con cui le streghe volavano, la scopa,
aveva subito la stessa sorte del mazzo di stoppa , in quanto la pianta
della scopa è caratterizzata da rametti
uniti insieme a formare lo strumento che
in qualche parlata del passato doveva suonare, per i motivi sopra descritti, strega.
“Scopazzo” è una parola che indica un ammaso di rametti molto vicini tra
loro che crescono patologicamente su un ramo, chiamati anche scopa delle streghe[6]. La strega
è anche il nome comune della Stachide, erba pelosa
o ispida, con caule eretto. E il colpo
della strega non è altro che un
semplice colpo (cfr. ingl. strike
‘colpo’), anche se molto doloroso e a tradimento. Non si possono passare sotto
silenzio i cosiddetti Capelli della
strega, una cascata ghiacciata in Val d’Ossola. Qui i capelli
non dovrebbero essere altro che la massa di ghiaccioli, in diversi punti ben
distinguibili gli uni dagli altri, costituenti la cascata a mo’ di
capigliatura. Il ghiacciolo, in questo
caso partecipa della stessa idea sottesa a un filamento, stelo, bastone. Ma,
a mio avviso, c’è qualcosa di più. La
parola strega potrebbe qui nascondere proprio il valore di
‘ghiaccio’ da una radice stra- di cui
ho parlato in altro mio post dell’agosto 2011, intitolato Etimo di sardo “astrau”=ghiaccio […].
Per la
locuzione Lino delle fate non so dare
come spiegazione che il ted. Fad-en ‘filo’ ma, dato il contesto e le considerazioni precedenti, non
ho nessuna remora ad esserne pago. La parola è apparentata con l’ingl. fathom ‘misura di lunghezza’: il
significato di ‘filo’ non sarà derivato da quest’ultimo ma era presente già in
antico (cfr. a. a. ted. fadum ‘filo’).
D’altronde, se ci si riflette, il concetto di “lunghezza, estensione” non è
molto lontano da quello di “filo” che è probabilmente tratto dal concetto di
“stelo, protuberanza, estensione”. Naturalmente
anche in questo caso non è da credere che il termine lino sia usato metaforicamente da chi, non avendo un nome per la
piantina, magari si divertì a forgiarlo ex novo nella fucina della sua
fantasia. La denominazione di Lino delle
fate viene usata anche per la
Cuscuta della nota 5. Va da sé che questi termini ci vengono
dalla preistoria e non dal Medioevo. Penso
che anche l’it. fil-accia sia più
vicino al ted. Fl-achs ‘lino’, ingl. fl-ax ‘lino’ che ad un presunto agg. lat.
popolare *filacea(m), da filu(m) ‘filo’. Nel linguaggio
marinaresco, infatti, esso indica una fibra vegetale attorcigliata costituente,
di un cavo, il primo elemento chiamato lignòlo
o legnòlo, da lat. linu(m) ‘lino’. Il lat. floccu(m) ‘fiocco di lana,
lanugine’ potrebbe esserne una variante[7]. Il secondo membro di fil-accia corrisponde
all’it. accia ‘filo, refe’. Anche questa voce viene dal lat. acia(m) ’filo di stoppa, refe’ ed è
messa in relazione con lat. acu(m)’ago’:
ma attenti! questo rapporto non scaturisce dalla contiguità dei due referenti ago e filo ma dalla natura profonda di entrambi che è quella di punta, protuberanza, stelo. E’ utile il
raffronto con lat. acie(m) che tra
l’altro significa ‘punta, filo
tagliente (di spada, scure, ecc.), linea
di soldati schierati’. La spiegazione di
quest’ultima accezione non risiede nel fatto che l’allineamento dei soldati
somigliasse al filo di una lama, ma nella considerazione che esso,
l’allineamento, è già di per sé una ‘fila’, cioè una successione ordinata di
elementi consecutivi.
Spigolando qua
e là nella lingua italiana, in quelle germaniche e soprattutto nei dialetti,
specialmente tra le voci trascurate o non ben messe a fuoco dai linguisti, si
possono fare scoperte incredibili, capaci di dare uno scossone a convinzioni
ormai assodate e inveterate. Una
variante di fata ‘filo’ (la quale
quindi non è proprio sola come pensavo) è abbondantemente presente, infatti,
nei nostri dialetti marsicani come nel trasacc. fezza ‘matassa di cotone o matassa in genere’, nel luchese fezza ‘matassa distesa di filati, ciocca
di capelli’, aiellese fézza ‘matassa’,
ma la voce è registrata anche nel Bielli
nelle forme fezza-tiure ‘matassa’
e fézze ‘ciocca di capelli lunghi;
pochi fili di refe, di seta e sim. messi insieme per lo lungo; manata di paste lunghe da minestra’. La voce ha molte corrispondenze nell’area
germanica dove si incontrano ted. fitzen
‘matassa di filo o refe’, a. a. ted. fizza
‘matassa, filo’ e anche voci con diverso vocalismo come danese fed ‘matassa’, a.germ. vazza, fazzil, fetill ‘fascia, legame’. Nonostante
queste corrispondenze, i linguisti considerano incerta, ad esempio,
l’etimologia di it. fedelini (fidelini)
ricondotti al ligure fidelin, lig. fidé ‘spaghetto’ perché, secondo le
norme da loro elaborate, al germanico f- (ad es. fetill) dovrebbe corrispondere un latino-italico p-
(*petill). Ma a mio parere, come ho
sostenuto alla nota 7 a
cui rimando, si trattava di forme liberamente alternanti già all’origine. Prima della produzione di questo tipo di pasta
la parola doveva appunto indicare qualcosa di lungo e sottile, come spago,
capello, ecc. come fanno capire i vari significati del sopracitato abr. fézze.
Il lat. fid-es ‘corde della
lira’ credo che faccia parte di questa famiglia e che non abbia rapporti col gr.
sphíde ‘budello, corda di strumento’ anche
perché questa corrispondenza non osserverebbe le consuete norme fonetiche dei
prestiti dal greco in latino[8].
Bisogna naturalmente aggiungere anche l’ingl. fiddle ‘violino’, altro srumento a corda.
Il significato
di ‘filo, matassa’ è contiguo a quello di ‘trama, tessuto, panno, pezza, ecc.’
e infatti ecco spuntare in area germ. il ted. fetzen ‘straccio, pezzo di stoffa’ che richiama le forme sopra citate fazzil ‘fascia, legame’ ma soprattutto
aiuta a trovare l’etimo di it. fazzoletto
che solitamente viene ricondotto ad un lat. parlato *faciolu(m), derivato di facie(m)
‘faccia’ e spiegato come ‘pezza con cui tergersi la faccia’. Ma queste interpretazioni che mirano ad evidenziare
una funzione particolare del referente e non la sua semplice natura sono a mio
parere da scartare, perché esse cadono nello stesso errore, più volte rilevato,
di chi vuole spiegare i composti tautologici germanici con i due significati
che essi esibiscono in superficie e non con quello unico per ambo i
membri. Manco a farlo apposta ecco
comparire in inglese i composti face-cloth, face-flannel ‘piccolo
asciugamano per il viso’ in cui il primo membro face- non poteva indicare
però la ‘faccia’ agli inizi, vuoi in conseguenza di quello che ho battezzato come
principio tautologico, vuoi perché il
significato del composto riguarda anche altre funzioni, oltre quella del lavare
la faccia, come quella di semplicemente coprire il volto di un cadavere o
addirittura non averne nessuna specifica[9]. La verità è che face- in questo caso, come in quello del fazzoletto, non fa che camuffare la radice faz, fat che valeva appunto ‘filo, panno, stoffa’ come abbiamo
visto. Veramente emblematico è il
composto ingl. face mite (cfr. vocab.
Merriam-Webster) che significa ‘baco (mite)
da seta (face)’ . Il primo membro face non avrebbe senso se inteso nel suo
significato consueto di ‘viso, faccia’: evidentemente anche qui esso
sostituisce la radice faz per
‘filo’. Resta comunque una difficoltà: i
due membri del composto hanno due significati diversi e, per il principio
tautologico, se ne dovrebbe avere uno solo. Ma c’è da scommettere che,
indipendentemente dall’epoca dell’arrivo arrivo in Europa del baco da seta, il
secondo termine mite qui corrispondesse al gr. mít-os ‘filo, tessuto’[10]
riportando ogni cosa al proprio posto. Le parole di una lingua, che nascono
tutte col marchio dell’indeterminatezza,
hanno un grande bisogno di specializzarsi e lo fanno a qualunque costo, anche
cambiando identità formale, pur di occupare le varie nicchie necessarie ad un
linguaggio che via via viene spinto a farsi sempre più preciso, puntuale, generalmente
non creando ex novo le parole ma
sfruttando i loro significati generici già pronti. Più di un millennio fa, la penna dell’uccello servì a creare lo
strumento per scrivere che conosciamo di cui era parte integrante, e il suo uso
continua e continuerà ancora, anche se non si spennano più oche per rifornirsene.
In questo caso è il referente che è cambiato di molto, mentre la parola è
rimasta invariata.
Abbiamo visto
all’inizio come il concetto di “filo, stelo” possa abbracciare altri concetti
contigui come “protuberanza, punta, palo, tronco, ecc.” e allora non può coglierci
di sorpresa il significato di ‘caviglia conica’ del termine nautico ingl. fid che, secondo me, si allinea con le
numerose precedenti forme per ‘filo,tessuto’.
Della stessa famiglia deve essere l’it. fitt-one, grossa radice principale in alcune piante, che non trae il
suo nome, quindi, dall’essere con-fitta nel terreno, osservazione piuttosto
banale e relativa ad un accidente del referente, mentre le parole, se ripulite delle varie
incrostazioni di superficie, vanno solitamente all’osso della sua natura, che
in questo caso sta tutta nella protuberanza
generalmente a cono della radice. Pertanto non valuto nemmeno una mezza liretta
del vecchio conio l’etimo dato, con scarsa riflessione, per il composto it. pala-fitta inteso, con troppa facilità, come pali conficcati. Il secondo membro -fitta è infatti legato a filo doppio con it. fitt-one il quale, se certamente non è un palo ai nostri occhi di moderni con mala
luce, lo era agli occhi dei nostri antenati preistorici che miravano
saggiamente all’essenziale di cui era fatto sia il palo che la radice, se è
vero che in tedesco il fittone suona Pfahl-wurzel, letter. ‘radice(-wurzel)
palo (Pfahl-)’, anche se agli occhi
dell’uomo moderno tale corrispondenza non è subito evidente. Inoltre in
questi casi il rapporto è biunivoco e si
poteva passare altrettanto facilmente dal concetto di palo a quello di radice
come nel composto Wurzel-stock
‘rizoma’, lett. ‘bastone (-stock)
radice (Wurzel-). Questa è la superficie, ma nel profondo il composto poteva valere
‘radice’ o ‘bastone’ o ‘tronco’ ecc. in ambo i membri: solo più tardi esso si
specializzò ad indicare il rizoma,
che è una tipica radice a forma di fusto. La voce Stock
vale ‘bastone, tronco, fusto, ceppo, pianta’. Tutto il gioco scaturisce in
effetti dalla sconvolgente volatilità del significato di un vocabolo che non
riusciamo mai a squadrare ed inquadrare una
volta per sempre, ma che continuamente trapassa da referente a referente
formando una rete di rapporti vastissima tenuta insieme da un filo sottile di
logica, spesso sotto traccia. Il comportamento del significato è per certi versi molto simile a quello delle
particelle subatomiche regolato dal principio
di indeterminazione di Eisenberg: quando credi di aver agguantato
finalmente il vero significato di un termine ti accorgi che, per ciò stesso,
molti altri ti sono scivolati già via dalle mani destinati a rimanere in
incognito fino a quando, distolti gli occhi dal primo, non persegui uno per uno
anche gli altri. Il fatto è, ormai lo sa
anche chi non vuole saperne, che per la mente di chi usava il linguaggio ai
suoi primordi, un filo d’erba equivaleva ad un filo artificiale, ad un bastone,
un ramo, una radice, un pollone, ad un tronco d’albero e persino all’albero
stesso, ad una qualsiasi protuberanza, escrescenza (compreso un piede o una gamba) e a cento altri referenti
correlati. E così ci siamo avvicinati ai
termini it. fetta, fettone [11](presenti
anche in molti dialetti), rispettivamente ‘piede’ e ‘piedone’ nel linguaggio
scherzoso-popolare, come dicono i linguisti.
Ma noi che abbiamo già incontrato un caso simile[12] e
siamo convinti di quanto abbiamo or ora con forza sottolineato, aborriamo dal
considerare la lingua un prodotto dell’homo
ludicus. I fatti invero mostrano
che, quando un vocabolo viene sostituito largamente da un altro divenuto dominante, automaticamente su di esso si abbatte il disdoro
dei molti benpensanti della lingua che ne fanno, quando va bene, un diverso, un
isolato, un reietto il cui nome è quasi tabù ed è prudente pronunciare solo
nell’intimità protetta della colloquialità o, al massimo, nell’informalità del
linguaggio popolare degli strati medio-bassi della società. Quando va male, il povero emarginato può finire
anche brutalmente eliminato dalla circolazione senza alcuna pietà. Da quello che ho detto si desume che io non
credo in nessun modo che questi termini per ‘piede’ derivino metaforicamente da
it. fetta dall’etimo del resto, a mio
parere, molto incerto. La loro presunta scherzosità è una inevitabile conseguenza del paragone del tutto
sbilanciato, in questo stato sincronico della lingua, a favore del termine piede, ufficiale e “serio”. Sta
di fatto, inoltre, che nel dialetto di Spinazzola-Ba, ad esempio, la voce fædd-àun
[13],
corrispondente all’it. fett-one, significa ‘grossa fetta’ ma anche ‘impronta lasciata
da animale selvatico’ oltre che ‘incitamento ad essere attivo’[14]. Ora il secondo significato, che certamente
non ha nessun’aria di colloquialità o scherzosità, deve essere senz’altro in
rapporto col significato di ‘piede, zampa’ e cioè con le zampe dell’animale che lascia con esse la sua traccia. E questo è un fatto a mio parere importantissimo perché non solo avvalora
la mia convinzione della serietà
originaria del termine it. fetta nel
significato di ‘piede’, ma attesta anche la concorrenza originaria delle forme
alternanti p/f [15] di
cui ho parlato più sopra, questione che può arrivare a toccare anche la
fonologia germanica. In altri termini si può affermare che, perlomeno su suolo
italico, circolavano contemporaneamente per ‘piede’ forme come lat. ped-e(m) e spinazzolese originario *fet(t)-one, in cui peraltro, nel significato
di ‘impronta’, il suffisso –one non
mostra nemmeno il valore accrescitivo del corrispondente suffisso italiano
attestando così di essere antecedente (di quanto?) al suo omofono spinazzolese
col significato di ‘grossa fetta’ . Si
rivelano quindi del tutto insussistenti quelle considerazioni sui piedi, possibilmente piatti e di una
certa grandezza, che avrebbero dato origine al nome scherzoso di fette: caratteristiche superficiali,
marginali e di seconda mano a cui purtroppo i linguisti abboccano con eccessiva
facilità. Alla luce di questo mi pare di
poter pervenire anche ad un etimo sostenibile di tosc. fatta ‘sterco degli animali o della selvaggina utilizzato dai
cacciatori come traccia’. L’origine non
è nel p.pass. lat. facta(m) ‘fatta’,
come si crede, ma in una possibile variante della radice *fet(t) per ‘sterco’ incrociatasi con una simile o uguale radice per
‘piede, orma, traccia’[16]. Ricordo benissimo, infatti, che nella mia
lingua natia di Aielli circolava la voce fëtónë
(cfr. fetòzza ‘cumulo di escrementi’
a Torano-Ri) equivalente di ‘prodotto piuttosto abbondante di una defecazione’
e che mi sembra paragonabile alla radice di lat. fetu(m) ‘generazione, parto, frutto, prodotto’ che si ripresenta
anche in aiellese (ma diffuso un po’ dappertutto) fëtà ‘deporre le uova’ da parte della gallina. Anche l’umbro fjéta, ascolano fjòta
‘traccia odorosa lasciata da animale selvatico e fiutata dal cane da caccia’[17]
credo debba pagare il pedaggio alla radice per ‘piede’di cui si parla, almeno
come base di partenza, anche se è intervenuto certamente l’incrocio con una radice
per ‘odore, fiuto’ corrispondente ad abr. fiétë
‘sito, puzzo’[18] molto simile al tosc. vièto ‘stantio, rancido;odore di stantio’.
In ultimo, non sarà un caso se la parte interna dello zoccolo di diversi
animali, di consistenza gommosa e di forma più o meno conica, è chiamata in it.
fett-one, termine che mi sembra riassumere
una lunga storia di adattamento partita dal significato di ‘piede, zampa’ e, attraverso l’incontro con it. fitt-one (radice come quella della carota, per intenderci), finita con l’indicare la
parte suddetta dello zoccolo.
Chiudendo anche
questo articolo, un pensiero particolare rivolgo alle Fate delle favole che
hanno permesso, insieme a tutti gli altri esseri fantastici della tradizione
popolare, di far arrivare fino a noi moderni, distratti e indifferenti, le
belle e brutte parole del lontano passato.
Proprio in questo momento mi lampeggia nel cervello un po’ assonnato che
in latino il termine Fata era altro
nome, meno noto, delle tre Parche, indefesse filatrici dei fortunati o più spesso sfortunati destini degli
uomini. Ma non commetto l’errore di
riportare a questo fatto l’origine della locuzione ‘Lino delle fate’, come se
qualcuno in passato, conoscendo il mito delle Parche, l’avesse potuta escogitare
a tavolino. Non è escluso però che il
nome di Fata ‘Parche’ e anche di fatu(m) ‘destino’, rappresentato dallo stame che esse filavano, si siano
incrociati con la parola corrispondente al ted. Faden ‘filo’[19]
circolante anche in Italia ab antiquo
e arrivata fino a noi nella veste della benigna, bella e beata Fata,
la quale non smette mai di incantarmi fin da quando, ragazzino sensibile
della III elementare, la conobbi dalla
voce della cara e bella maestra Raffaella De Paulis che ci leggeva le Avventure
di Pinocchio.
[1] Cfr. G. Sociali, Il
“lino delle fate”, una rarità delle nostre terre, articolo apparso nel
gionale web “Terre Marsicane”, giugno 2012.
[2] Cfr. M. Marzolini, “…me ‘nténni?”, Arti grafiche Tofani,
Alatri 1995, p. 303.
[3] Cfr. G. Proia, La
parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006, p.
135.
[4] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo,
Avezzano-Aq 2002, s, v. puca.
[5] La locuzione Capelli delle streghe indica effettivamente
anche altra pianta parassita, la
Cuscuta , composta da un ammasso di fili che avvolgono la
pianta parassitizzata. Il suo nome può essere anche il semplice capellini: il che è altro indizio che la
denominazione composta con l’elemento streghe
non è originaria ma dovuta all’incontro di due parole tautologiche. Cfr vocabolario Devoto-Oli s. v. capello,
capellini. I nomi indicano
indifferentemente piante nocive e innocue. Interessante il termine abr. fiamme ‘cuscuta’ derivante,
evidentemente, da lat. *fila-men
‘ammasso di fili’, passato a *fla-men
e quindi a fiamme o fiamma!
[6] Cfr il citato vocabolario
italiano Devoto-Oli, s. v. scopazzo.
[7] A
Trasacco pilucca indicava il ‘fiocco’ formato dal nastro che lega i capelli delle
donne; ma designava anche uno ‘scacciamosche’ fatto con la pianta erbacea coda di cavallo, cioè l’
Equisetum ‘setola di cavallo’.
Inoltre il termine individuava
almeno due altre erbe, quella detta volgarmente pisciacane e quella corrispondente alla nostra Stipa con cui si facevano mazzetti che i ragazzi si divertivano a
lanciare in alto, come facevo io col pëlònë.
Cfr. il Biabbà di Q. Lucarelli, cit. Notare la variabilità dei
significati, che non sono mai legati per l’eternità ad unico referente. Si
direbbe che sono i referenti ad approfittare di un significato generico per
adattarlo alle loro necessità.
Ma la cosa straordinaria, secondo me, è che questo termine
si ritrova in greco sotto mentite spoglie.
Il termine composto pyl-ũkh-os ‘stipite’, lett. ‘quello che regge (-ũkhos, dal v. ékho= ho) la porta (pyl-)’, copre in realtà la
nostra pilucca o pilucco, risemantizzata alla maniera greca come se si trattasse di
termine creato a tavolino. Comunque questa
rietimologizzazione gli ha molto probabilmente evitato la caduta nell’oblio. Va
da sé che il concetto di “filo, stipa”
coincide con quello di ”stipite, pilastro”. Difatti in gr. stipite suona stélekh-os che quasi coincide con ingl. stalk ‘gambo, stelo’. In tedesco Pflock vale ‘piolo, palo’; in ingl plug significa ‘spina, spinotto’.
L’abr. pëlùcchë ‘parrucca’,
cioè ‘(falsa) capigliatura’ è un’altra specializzazione della parola. Gli ingl.
flock ‘fiocco, bioccolo’, ted. flocke ‘fiocco, bioccolo’ che, secondo
le normali corrispondenze fonologiche, non potrebbero essere in rapporto col
lat. floccu(m)’fiocco, bioccolo’ in
quanto la fricativa sorda germanica –f-
dovrebbe derivare dall’occlusiva labiale sorda –p, potrebbero,
in realtà, ricevere luce da doppioni oscillanti p/f come quelli abruzzesi sopra citati. Io propenderei a credere che quello che a noi
appare come fenomeno di trasformazione di suoni dovette essere, almeno in
parte, solo fenomeno di sostituzione di forme tra loro distinte già da molto
tempo prima, almeno in alcune parlate divenute poi magari dominanti.
[8] Cfr. Aa. Vv. Popoli e Civiltà dell’Italia Antica
VI, Biblioteca di Storia
Patria, Roma 1978, p. 491 e s.
[9] Cfr. vocab. Miriam-Webster.
[10] Cfr. il termine inglese
di probabile origine greca di-mity
‘basino’, cioè tessuto di cotone
usato come federa.
[11] E’ bene dire fin da ora che, secondo me, la
natura fondamentale del piede non è la sua piattezza
ma semmai il suo essere una protuberanza,
estremità, punta.
[12] Cfr.
il mio post Fischia-frosce aprile
2011 e quello del luglio 2011 intitolato Col
tempo e con la paglia […].
[13] Cfr.
sito web: www.spinazzolaonline.it/public/editorfiles/Dizionario+cover%20PDF(1).pdf
. Questo dialetto mostra caratteri di forte
arcaicità in diversi vocaboli dai significati
particolari non riscontrati altrove.
Già abbiamo avuto modo di notare nel post Col tempo e con la paglia […] del luglio 2011 il significato di
‘strada’ per il termine chjæn
‘strada’ da *plan- e di ‘fischietto
metallico’ e ‘vulva’ per fresca-jol. A dire il vero ora mi pare di capire
l’origine anche del secondo membro –jol
che avevo lasciato in sospeso: si deve trattare della contrazione, già
incontrata nel penultimo post, che da diá-bol-os porta a*djaul-os, jaul-os, ,jol-os, giol- che ha dato in Puglia e
altrove anche giola o ciola ‘cornacchia, gracchio, ecc.’: essa
qui presenta il significato di ‘buco,
passaggio’(di cui abbiamo parlato nel penultimo post) incrociatosi probabilmente
anche con gr. díaulos ‘stretto
passaggio’. Da notare ancora, in questo dialetto, l’aggettivo fattézz ‘spesso, doppio’ che fa il paio
con l’abr. fatticcë ‘grosso,
massiccio, spesso’ e con l’it. fatticcio per l’appunto. Mi sembra pertanto senza senso l’etimo che
costantemente se ne dà, cioè da aggett. it.
fatto (nel senso di ‘completamente sviluppato, adulto’)+ iccio, quando invece esso grida la sua fratellanza con ingl. fatty da *fattig ‘corpulento, grassoccio, oleoso’ che nel ted. fettich ha mantenuto solo il sign. di
‘unto, oleoso’. I linguisti per questa
etimologia si basano, credo, solo sul sign. di ‘tarchiato, robusto’ riferito
all’uomo che l’it. fatticcio ha,
senza conoscerne evidentemente il significato dialettale di ‘spesso, consistente’
riferibile a qualsiasi oggetto ma non all’uomo e che, come s’è visto, è il solo
che la voce spinazzolese mostra. A non parlare dell’ulteriore ostacolo
rappresentato dal fatto che alla spirante germanica –f- dovrebbe corrispondere una forma latino-italica con –p-, secondo le norme fonologiche consuete
(legge di Grimm). Con questo modo di
procedere non ci possono essere speranze, ahimè, per la scienza etimologica e
per la linguistica in genere!
[14] Per questo significato si
può azzardare come etimo la radice di gr. peítho
‘persuado, eccito, suscito’ che ha dato i lat. fido ‘confido’ e foedus, eris
‘patto, accordo’.
[15] Cfr. anche il post Piano Scrufola del dicembre 2011.
[16] Cfr. ingl. pad ‘zampa di lepre, volpe, ecc.’ ma
anche ‘impronta delle zampe degli stessi animali’ (vocab. Miriam-Webster).
[17] Cfr. M. Cortelazzo-C.
Marcato, Dialetti Italiani, UTET;
Torino 1998, s. v. fjéta. Vi si
sostiene la derivazione dal lat. flatare
‘soffiare’, incrociato con altra voce che ne ha modificato il significato.
[18] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.
[19] Nel
composto tautologico ted. Faden-garn
‘filo (-garn) di lino (Faden-)’ si assiste ad una piccola
specializzazione del termine generico Faden
‘filo’ diventato ‘lino’ che ci riconduce
all’espressione italiana Lino delle fate
e ci fa toccare con mano che qui il lino e
le fate sono in realtà la stessa
cosa.
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