Sfogliando la monumentale opera
del compianto Quirino Lucarelli di Trasacco-Aq ho incontrato due varianti per
uno stesso referente, càl-atrë/càl-itrë ‘avena,
biada selvatica’, in particolare ‘punta, resta’ di queste piante[1]. Mi è venuta in mente, cercandone l’etimo, prima
la radice di gr. kál-amē[2] ‘stelo, gambo, canna’ per il primo
elemento delle due voci e, poi, il gr. athér
‘punta della spiga, spiga, punta della lancia’ per il secondo della prima voce.
L’elemento –itrë deve esserne
necessariamente una variante. Queste radici possono indicare sia la ‘punta’ che
l’intero ‘stelo’, o qualsiasi altro referente simile, per il semplice motivo
che una punta è, per così dire, una protuberanza dello stelo, e quest’ultimo
è ugualmente una protuberanza rispetto al terreno da cui si eleva.
Chi mi segue
nel blog sa che la nozione di fondo di questi fitonimi è quella di
‘escrescenza, elevazione, ecc.’ e che pertanto si potrebbero incontrare oronimi
simili. Infatti ecco venirci incontro il nome del paese di Calitri-Av appollaiato su un colle:
non è da credere che il nome derivi dal fitonimo, come pensano i linguisti.[3] Il
toponimo ha l’accento spostato sulla penultima: è il minimo che possa accadere
nel corso della vita di queste entità plurimillenarie[4]. Una frazioncina di Lucca in Toscana, Chiatri, anch’essa aggrappata ad un
colle, fa supporre che il nome abbia subito la trafila *Calàtri-*Clatri-Chiatri.
A questo punto non ci può sfuggire il lat. clatra, clathra, clatri, clathri ‘sbarre, inferriata, cancello’: si
tratta sempre di ‘steli, pali, punte’. La sua supposta derivazione dal gr. klēithron (dor. klâithron)‘chiavistello, sbarra, chiusura’, dor. klâithron
non è secondo me certa perché la parola, o meglio, ambedue le parole, la greca
e la latina, dovettero essere all’origine più strettamente legate al gr. kléthra ‘ontano’ e all’idea di ‘palo,
albero’, non a quella di ‘chiudere’ del gr.
kleí-ō ‘chiudo’. Quando il termine originario per ‘stelo,
palo’ si incrociò con quello simile per ‘chiudere’ il suo destino e il suo
significato fu segnato per sempre, nel senso che si specializzò ad indicare
qualsiasi strumento per ‘chiudere, serrare’, come il gr. kleís, gen. kleid-όs ‘sbarra, paletto chiavistello, chiave’, riunendo in un unico
termine le due nozioni, di cui quella di ‘chiusura’ finisce per prevalere nella
mente del parlante e nell’analisi dei linguisti perché l’altra di ‘palo, stelo’
era nel frattempo evidentemente scomparsa dalla parola greca.
Che la radice
di cui si parla fosse diffusa in Italia probabilmente prima del supposto prestito
dal greco, dovrebbe attestarlo il fatto che nel dialetto del mio paese la voce jatrόnë da *clatrόnë, pl. jatrúnë,
significava ‘grosso e lungo spino’. Ma lo attesta ancor di più il significato che
la voce dialettale chiatrà, ‘nghiatrà assume nel centro-meridione d’Italia. Essa, infatti, oltre al valore di ‘chiudere,
serrare’, naturale per quello che abbiamo detto in precedenza, presenta anche
quello di ‘gelare, ghiacciare’. E non «per evoluzione semantica» da lat. clatri ‘barre, inferriata, cancello’
come asserisce la linguista C. Marcato.[5] E’ secondo
me errato far derivare direttamente il concetto di “gelo” da quello di
“chiavistello”, anche negli altri casi cui la Marcato rimanda sotto la
voce napoletana màšco ‘ghiaccio,
gelo’. L’etimo più prossimo al mio, per queste voci, è fornito dal famoso
linguista tedesco Rohlfs (1977) citato dalla Marcato, cioè ‘fenomeno
[atmosferico] che inserra e indurisce’. Il
fatto è che il concetto di “stelo, barra, punta, ecc.” e quello di ”gelo” si
riannodano in un punto remoto della loro storia, nel concetto di “spinta”. Spinta che fa spuntare e crescere ogni stelo, virgulto, pianta, e spinta che induce l’acqua a coagulare, a stringere (anche se la fisica ci dice che in realtà essa, gelando, aumenta di volume la percezione prevalente del fenomeno da parte nostra è quella di solidità che dà origine alla compattezza del ghiaccio). Quello che affermo non è frutto della mia
fantasia ma lo raccolgo, ad esempio, dalla voce abruzzese gëlà [6]
che, oltre ad avere il prevedibile significato di it.‘gelare, ghiacciare’, ha
quello imprevedibile di ‘allegare (dei denti)’, ad indicare, secondo l’etimo di
allegare, quella sensazione di spiacevole
stringimento dei denti quando si mangia un frutto
acerbo. Questo significato di 'compressione, stringimento' per “ghiaccio” è lo
stesso peraltro da me individuato per la voce sarda astrau
‘ghiaccio’ ed altre voci esprimenti l’identico concetto[7]. Anche il concetto di “chiudere”, per finire, dovrebbe
avere a che fare con quello di “spinta, accostamento” come del resto quello di
“aprire” che indicherebbe una spinta in senso inverso[8].
Nel Vocabolario Abruzzese[9] la
voce ‘nchiatrà significa «brillantare,
smaltare di fuori con zucchero chiarito» detto dei dolci. E’ facile collegare il verbo al significato
di ‘gelare’, dato che lo zucchero avvolgeva i dolci come in uno strato di
ghiaccio. Ma nella definizione che del
termine dà il Bielli mi pare che emerga anche la ‘lucentezza, trasparenza’ che
l’operazione otteneva. Pertanto non è
fuori luogo collegare il verbo anche ad una nozione di ‘lucentezza, splendore’. Ora, si dà il caso che sul Quirinale a Roma
si trovasse una piccola altura chiamata Mons
Clathra ‘Monte Clatra’. Su di essa sorgeva un tempio dedicato in comune ad
Apollo, dio del sole, e a Clathra,
dea di cui poco si conosce. Ma sta di fatto che l’appellativo Clathra era riservato dagli Etruschi a
Diana, dea della caccia ma anche della luna:
cosa che spiegherebbe la sua presenza in un tempio dedicato anche al suo
fratello gemello Apollo. Inoltre nella lingua thargum, simile all’aramaico, la voce clasthra oppure clathra
significa proprio ‘splendore’ come leggo in un sito web[10]. Un indizio, abbastanza consistente,
dell’esistenza in Abruzzo di una divinità con questo nome mi viene offerto dal
benemerito Bielli, autore del citato vocabolario, sotto la voce corrispondente
al nome personale Chiara, cioè dial. Chiarë.
Vi è riportato un adagio popolare, diffuso anche in altre regioni, che
suona Gnè ssanta Chiare che doppe che
j’ànne arrubbate à fatte fà lu cancélle de ferre (le –e- non accentate sono mute), lett. ‘Come santa Chiara che dopo che
le hanno rubato ha fatto fare il cancello di ferro’. Il proverbio equivale all’italiano “Chiudere
la stalla dopo che sono scappati i buoi”.
Ora, il cancello di ferro
nominato nella frase presuppone, a mio parere, un incrocio del nome della Santa
col lat. clatra ‘cancello’, termine
che non poteva essere noto al popolino del tardo medioevo, quando visse Chiara,
la nota Santa di Assisi. Bisogna
pertanto supporre che questo proverbio si trascinasse, con l’inerzia e resistenza
proprie dei detti popolari, da molto tempo prima e si fosse sviluppato intorno
ad una divinità pagana che poteva corrispondere alla latina Clathra la quale, come abbiamo visto,
aveva un tempio sul Quirinale in condominio col fratello Apollo. Anche l’idea del “rubare” mi pare che possa essere
nata tramite l’incrocio di Clatra,
che aveva la variante Cletra, con il
gr. kleptér ‘ladro’, gr. kléptria ’ladra’ (che nella pronuncia
corrente poteva benissimo suonare *klét(t)ria), dal verbo kléptō ‘rubo’,
latino eccles. clepto ‘rubo’. O forse l’idea della “ladra” venne estratta, per gioco, proprio dal teonimo
(C)latra
che combacia in pieno, tranne nella gutturale iniziale, col termine femm. ladra o col maschile ladro (dal lat. latro, onis) se si considera la chiusura della –a nel suono indistinto
–ë
del dialettale Chiar-ë ‘Chiara’, suono che serve anche come marca del maschile chiar-ë ‘chiaro’. C’è infine da notare che se *clathra significava all’origine
‘splendore’, il termine, trasformato in Clara
‘Chiara’, manteneva lo stesso valore di ‘chiaro, limpido’. Ecco l’ennesimo esempio di come nascono le trame
dei miti, delle favole e dei racconti tradizionali. Ma nessuno, che io sappia, dei grandi e
famosi studiosi, presi dalle loro raffinate ma spesso astratte teorizzazioni,
sembra essersi mai accorto di questo semplice e naturale meccanismo di
vastissima portata in diversi campi. Anzi, l’unico linguista e filosofo
dell’Ottocento che sviluppò una concezione del mito in parte vicina alla mia,
Max Müller, mi pare che non abbia avuto ascolto
e seguito.
Sempre nel Vocabolario Abruzzese del Bielli ho
incontrato la parola scupinarë
‘suonatore di cornamusa’ seguita da scupinë
‘cornamusa, zampogna’ e da scupinèllë
‘bocciòlo di canna che i fanciulli fanno
sonare come una piccola zampogna’. Ora,
mi pare evidente che il primo termine derivi dal secondo con l’aggiunta del
comunissimo suffisso –are (it. aio) dal lat. -ariu(m). Esso indica
solitamente persone che esercitano attività relative all’oggetto designato dal
sostantivo di base o alla produzione e vendita dello stesso, come calzol-aio,
forn-aio, latt-aio, ecc. Ma leggo, in un
fascicolo del 2012 intitolato Il linguaggio dei
Sumeri nella Marsica a cura di Franco Zazzara di Pescina-Aq, tutt’altra
storia (p. 55). Il fascicolo riporta
studi linguistici di Berardo Ettorre di Lecce nei Marsi, seguace del famoso
semitologo Giovanni Semerano scomparso non da molti anni, il quale riconduceva
le lingue europee ad una matrice sumero-accadica. Per farla breve Ettorre intende il termine scupin-arë ‘zampognaro’ come composto da
due parole staccate, secondo lui, nella pronucia da parte degli abitanti del
Chietino in scope nare. Il primo nome corrisponderebbe al gr. skopόs ‘esploratore’ e il secondo all’accadico
naru ‘musico’: si delineerebbe così
la figura dello zampognaro come suonatore e «viandante che, nel suo
peregrinare, esplora e osserva ciò in cui si imbatte». Naturalmente Ettorre non si perita affatto di
vedere nella voce zampo-gnaro ancora una volta l’accadico naru
‘musico’, lasciando l’elemento zampo-
a reclamare dolorosamente il membro -gna che gli è stato da lui impietosamente amputato e di cui abbiamo già parlato. Il fatto è
che il lavoro dell’etimologo è davvero spietato, e non nego che può talora ingannare
anche me. Il mio metodo, però, serve da
freno alle intemperanze del nostro indocile intelletto che, quando meno te lo
aspetti, tende subdolamente le sue numerose trappole. Soprattutto uno è, a mio avviso, il motivo
che mi evita rovinose cadute: le parti in cui si suddivide una parola debbono
in genere avere lo stesso significato di fondo, anche se l’apparenza
sembrerebbe spesso dire il contrario, come nei composti delle lingue germaniche
perché, strada facendo, il composto si è caricato, in uno dei membri, del
significato di altro termine omofono.
Questo aspetto l’ho già trattato in qualche articolo del mio blog e
richiamato in molti altri. Ed è
confermato dal composto gr. near-oidόs, con la variante ne-aoidόs ‘giovane (ne-)
cantore (-aoidόs)’, citato da
Ettorre. La forma near- ci dice che essa, prima di incrociarsi col gr. né-os ‘nuovo, giovane’, gr. near-όs ‘giovanile, recente, nuovo’, combaciava
quasi certamente con l’accadico naru
‘musico’, sumerico nar. Qui Ettorre non ha sbagliato.
L’etimo di scupinë ‘zampogna’ e di scupin-èllë ‘bocciòlo usato dai ragazzi
come piffero’, suo diminutivo, è da
ricercare tra le seguenti parole: lat. scapu(m)
‘gambo, stelo, fusto, ecc.’, lat. scipio,
gen. scipionis ‘bastone’, lat. scopio, gen. scopionis ‘graspo, gambo dell’asparago’, lat. scopa(m), scopas ‘scopa (pianta), ramoscello sottile’, gr. skêptron ‘bastone, scettro’, ingl. shaft ‘stelo, asta, stanga, albero (del
motore)’, dan. skaft ‘manico’, ecc.
C’è comunque anche
una forse non troppo remota possibilità che scupinarë,
col significato generico di ‘cantore, musicista’, fosse effettivamente scomponibile in due parti (scupi-nare) di cui la
prima sarebbe da confrontare con l’a. ingl. scop
‘bardo, poeta, menestrello’. Una volta
incrociatosi con abr. scupinë ‘zampogna’ il termine
dovette, per così dire, mutare pelle, e un po’ anche il significato,
inserendosi nella numerosissima serie di nomi terminanti in –arë, -ario, -aio di cui sopra,
diventando scupin-arë ‘zampognaro’. Il dialettale scupínë ‘zampogna’, d’altro canto, potrebbe intendersi come forma
autonoma da una precedente *scopa
‘zampogna, zampognaro’, ad esempio, subendo più o meno lo stesso processo che
porta al lat. gall-ina(m) ‘gallina’ da gall-u(m) ’gallo’, a lat. propag-ine(m)
‘pollone, propaggine’ da propag-e(m) ‘pollone’ e all’it. coll-ina da lat. coll-e(m).
Questo fenomeno mi ha fatto in verità riflettere,
come mi è capitato ogni tanto anche in passato, che le parole italiane e latine
terminanti col cosiddetto suffisso –ariu(m),
-aro, -aio (o con altri) finiscono per trovarsi, in fondo, in
contraddizione col principio fondamentale della mia linguistica, quello
tautologico, che vuole che le parti in cui si può suddividere un termine avessero
lo stesso significato d’origine, prima che qualcuno di essi ne assumesse un
altro, in questo caso quello abbastanza generico di suffisso che indica persone
in qualche modo legate al significato del sostantivo di base.
Con questi
dubbi nella testa mi sono messo a cercare in internet e mi sono imbattutto in
una folk-tale (leggenda popolare) boema in cui si parla della figura leggendaria
di un giovane zampognaro chiamato Zvampa[11] che fa vita
da girovago incantando col suono del suo strumento quanti lo ascoltano. Dopo tante vicissitudini finisce col deporre
la sua zampogna sull’altare di una chiesetta. Io penso che dietro questo personale
se ne stia nascosto, negli strati profondi, il significato di ‘canna, piffero,
zampogna’ e magari anche quello di ‘zampognaro’, allo stesso modo in cui l’it. piffero designa sia lo strumento che chi
lo suona. E allora può avere ragione,
anche qui, lo studioso Ettorre che ha segmentato d’impeto la parola in zampo-gnaro senza però dare una spiegazione del primo membro, abbandonandolo a sé stesso.
Si può dire che la sua fede nelle antichissime lingue della Mezzaluna Fertile
lo ha salvato. La pronuncia boema (ceca) della parola Zvampa deve, credo, equivalere ad un italiano *svamba, con una specie di /s/
sonora o di /z/ sonora iniziale. Essa assomiglia molto all’ingl. swamp ‘pantano’, concetto che, seguendo
il mio fiuto, penso nasconda almeno due nozioni, di “cavità, rotondità” e di
“acqua”. La prima si ritrova nel gr. sόmph-os ‘poroso, spugnoso’, norv. sopp ‘fungo’, ingl. soft[12]
‘molle, tenero, delicato, soffice, ecc.’, a. ingl. swamm ‘fungo, spugna’, ted. Schwamm
‘fungo, spugna, esca (per accendere), afta’.
L’esca veniva ricavata spesso da funghi essiccati e tritati, ottenendo ottimo
materiale per l’accensione. L’afta è una
malattia consistente in bolle
biancastre che si sviluppano nella cavità orale o nei genitali. Siamo sempre
nell’ambito del concetto di ‘rotondità, rigonfiamento’: swamp, nel m. inglese vale ‘dilatato, gonfio, cavo’ ma la sua tensione fa assumere alla parola, nel
dialetto scozzese, il significato di ‘slanciato, affusolato, magro’. La corrispondente voce ted. Sumpf
vale ‘pantano’ e si ritrova tautologicamente nel composto Sumpf-lache ‘pozzanghera’ con lo stesso
significato di Lache ‘lacuna, pozza,
pantano’. Swamp in inglese significa
anche ‘sprofondare’, idea connessa con quella di “cavità”. Nell’altro composto Sumpf-rohr ‘canna palustre’ il primo membro doveva aver avuto il
significato di ‘escrescenza, stelo, canna’ come il secondo –rohr ‘canna, giunco, tubo’, ma intorno ad
esso aleggiava anche quello di ‘cavità’. [13]
Ritornando al
personale boemo Zvampa, il nome
proprio del suddetto zampognaro, dobbiamo riconfermare la nostra convinzione
del suo originario significato di ‘canna, piffero, pifferaio’, ma non è esclusa
anche un’idea di ‘rigonfiamento’, in relazione all’otre che è un elemento
essenziale di una cornamusa. Se così
stanno le cose il termine zamp-ogna potrebbe essere un autonomo sviluppo da un precedente *zampo/a, *svampo/a
‘piffero, zampogna’, come abbiamo supposto per scop-ina ‘zampogna’ da una precedente *scopa ‘piffero, zampogna’. A
meno che non si tratti, cosa non tanto probabile, di retroformazioni dalle voci
zampogn-aro o scopin-aro intese erroneamente come composti
inseribili nella numerosa serie di vocaboli terminanti col suffisso –ariu(m), -aro, -aio di cui sopra[14]. Che dietro la voce zampogna si nascondesse un termine col significato di ‘canna,
stelo, ecc.’ ci viene confermato, a mio parere, da due vocaboli tratti dal Vocabolario Abruzzese del Bielli, e cioè
zampugnìë ‘giusquiamo’ e zampugnarë ‘giusquiamo’, una pianta erbacea
fortemente velenosa a fusto eretto che può raggiungere l’altezza di un metro e
da cui difficilmente potevano perciò essere costruite delle zampogne che solitamente
erano di canna o di legno di bosso, piante dal fusto resistente e legnaceo, non
erbaceo.[15] Il primo di essi, zampugnìë, deve essere dietro la
rietimologizzazione greca di symphōnía
(di cui abbiamo parlato nella nota 14), col significato di ‘canna, zampogna’. Il secondo è un ampliamento del primo con
l’apparente suffisso –arë. Ma in
realtà si tratta di altra radice col medesimo significato della prima, quella
di gr. ár-on ‘aro, gigaro’,
un’altra pianta erbacea velenosa. Un’ultima osservazione interessante. L’otre della zampogna era costituito dalla
pelle di capra o pecora. In corrispondenza dei fori delle quattro zampe dell’animale venivano inserite le
canne (pifferi, flauti) e il bordone dello strumento. Ognuno può vedere la somiglianza tra zampa e zamp-ogna. Non dobbiamo per questo credere, però, che il nome dello
strumento derivi dall’altro. Secondo me
bisogna pensare che tanto il concetto di “zampa” quanto quello di “canna”
attingono ad una stessa idea di “protuberanza, escrescenza, virgulto, bastone, ecc.”. L’etimo di zampa costringe i linguisti a supporre un incrocio tra gamba [16] e cianca, zanca, ma qui esso ne fa volentieri a meno, tanto più che lo spagn.
zampa vale ‘palo (di palafitta)’ e non si può nemmeno
supporre che questo sia un uso metaforico della parola zampa per il semplice motivo che in quella lingua l’arto in
questione è indicato da altri termini, cioè pata,
pierna (gamba), coz (piede), pie (piede). Questa cosa dimostra che i
linguisti avrebbero fatto meglio a cercare fuori d’Italia l’etimo per zampa invece di restare impigliati negli
incroci delle forme nostrane di cui sopra.
Ma mi rendo conto che non erano mentalmente equipaggiati per farlo,
perché forse incapaci di ridurre lo scarto paradigmatico che apparentemente
separa l’it. zampa dallo spagn. zampa ‘palo’.
E bravo, anzi,
bravissimo, lo zampognaro[17] Berardo
Ettorre, anche se egli deve, a mio avviso, meditare molto sulla legge tautologica
operante nella formazione dei termini, se non vuole prendere cantonate
spiacevoli nella ricerca degli etimi. In questo caso mi è quasi capitato, comunque,
quello che capitò ai pifferi di montagna[18] che andarono per sonare e furono sonati!
Nota autobiografica
Mi rivedo calmo
silenzioso appassionato ragazzo assetato di conoscenza sui banchi della Media
di Celano alle Cittadelle. Poi sui
banchi del liceo Torlonia ad Avezzano con sempre quel non so che di tormentoso
ed insieme di vivificante ed esaltante nel petto che mi rendeva forse un po’
diverso dagli altri, talora perso in una riflessione senza fondo o chiuso in un rovello assillante, talaltra cordiale e
sorridente, persino loquace. Che cosa
cercavo in realtà con la mia dedizione al latino e al greco? E’ il caso di dire
che cercavo già, inconsapevolmente, di
arrivare a capire il piccolo-grande mistero delle parole che pervadeva con
forza la mia anima, se è vero che in un libro di esercizi latini mi deliziavano
molto le etimologie che vi si davano, di tanto in tanto, di alcune parole. Ne sono stato avvinto a tal punto che esso, il
mistero, non mi lasciò nemmeno con l’esame di glottologia (che peraltro
frequentai rarissimamente) all’università La Sapienza di Roma, e non mi
ha dato pace nemmeno per il resto della mia vita, per altri versi abbastanza piatta
e monotona. Una trentina d’anni fa esso tornò ad intensificarsi prima con lo
studio dei toponimi abruzzesi, italiani e stranieri che sfociò nel libro Princìpi di una nuova linguistica del
1992 e poi nel libro Meditazioni
linguistiche del 2007, più incentrato sull’analisi del lessico dialettale,
italiano e straniero. Quest’ultimo impegno continua ancora nel mio blog di Meditazioni Linguistiche, anche se credo
di aver portato a termine il compito che mi ero prefisso. Ora io so di aver
svelato quel mistero, l’origine e il senso delle parole, che certamente non era
irrisolvibile come quello dell’origine dell’Universo, ad esempio, giacchè non
si può negare che la Parola
l’abbiamo creata noi uomini mentre l’Universo ce l’abbiamo trovato, non è opera
nostra; ma sono altrettanto convinto del fatto che non avrò il piacere, anche
se un po’ frivolo, di un riconoscimento ufficiale della mia impresa finchè
vivrò, impresa che qualcuno ritiene gigantesca, impossibile, sovrumana anche se
io dentro di me so che tale non è. Essa ha richiesto solo amore, tanto amore, e
forse l’incoscienza dell’innamorato per superare gli inevitabili scoramenti
della ragione sempre alla ricerca di conferme della linea di tendenza generale
delle parole (che rimandano, procedendo a ritroso, a campi semantici sempre più
vasti tanto da permettere di riannodarle tutte, con i loro innumerevoli
significati specifici di superficie, in un unico significato genericissimo di
partenza)[19], oltre naturalmente alla
normale lunga fatica che la cosa comportava, ma che tale per la verità non mi è
mai sembrata. So che non esagero se dico
che mi hanno insegnato tutto, o quasi, i
toponimi, naturalmente intesi in un certo modo.
Ed è già molto se questa ricerca ha finora mutato in dolcezza l’amaro
della mia solitudine.
Il grande mistero
della vita e dell’Universo, intorno al quale l’uomo si arrovella, ottenendo per
la verità non trascurabili successi, da quando ha cominciato a riflettere su se
stesso e sul mondo, ce lo rappresenta, nei modi simbolistici propri di certa
sua notevole produzione, questa bella poesia
di Giovanni Pascoli.
Il libro
I
Sopra il leggìo di quercia è nell’altana
aperto, il libro. Quella quercia ancora
esercitata dalla tramontana
Sopra il leggìo di quercia è nell’altana
aperto, il libro. Quella quercia ancora
esercitata dalla tramontana
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch’uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d’un tratto…) sia venuto, e lento
sfogli – se n’ode il crepitar leggiero –
le carte. E l’uomo non vedo: io lo sento,
invisibile, là, come il pensiero...
II
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all’estrema, rapido, e pian piano
va, dall’estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell’ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l’impazïente mano.
E poi li volge a uno a uno, lenta-
mente, esitando, ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta…Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?... Un istante, e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.
III
E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.
E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l’ombra tende, e viene
con le deserte costellazioni
la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n’odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.
Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.
Di Chiusa Giovinezza, la mia prima raccolta di liriche (1980), fa
parte una poesiuola intitolata Parola. Vi mettevo in evidenza la natura mescidata, bastarda della Parola e il suo
oscillante variare in un vasto mare di significati e significanti provenienti
da molto lontano. Eccola:
Parola
Parola
specchio di mare.
Mare che culla
gli umori del mondo;
la notte dell’innumere
bocche sepolte
il giorno
di quelle che stridono.
Parola
per te si plachi
l’orgoglio settario dell’uomo
bastarda che vieni da lontano.
Parola
Parola
specchio di mare.
Mare che culla
gli umori del mondo;
la notte dell’innumere
bocche sepolte
il giorno
di quelle che stridono.
Parola
per te si plachi
l’orgoglio settario dell’uomo
bastarda che vieni da lontano.
[1] Cfr.
Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq 2003.
[2] Cfr. ted. Halm ‘gambo, stelo’, ingl. helm ‘barra del timone’, lat. culmu(m) ‘gambo, stelo’.
[3] Cfr Aa.Vv., Dizionario di toponomastica, UTET,
Torino 1997.
[4] Ad Aielli esiste il
toponimo Coste Coll-ùtri, variante a mio
parere di Calitri; il secondo elem. –utri deve essere a sua
volta variante del monte Etra,
sempre in territorio di Aielli. La radice
richiama il gr. όthrys ‘monte’
(glossa di Esichio).
[5] Cfr. la voce chjatru in Marcato-Cortelazzo, I dialetti italiani, UTET, Torino
1998.
[6] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla
Editore, Cerchio-Aq 2004.
[7] Cfr.
il post Etimo di sardo “astrau”= ghiaccio
nel mio blog (agosto 2011). Anche il gr.
pég-ny-mi ‘ficco, conficco, congelo, faccio
rapprendere, compongo, commetto, ecc.’ presenta due direzioni in cui si esplica
la spinta: quella, diciamo così, verso
l’esterno dell’oggetto da conficcare, e quella verso l’interno dell’oggetto da
far coagulare, ghiacciare, da comprimere o commettere. Ma nella variante pág-os ‘ghiaccio’ rispunta anche l’idea di
“punta” cioè ‘punta di scoglio, altura, colle, monte’.
[8] Cfr.
lat. ap-er-ire ‘aprire’ e lat. op-er-ire
‘coprire, chiudere’; ted. auf-machen ‘aprire’ e zu-machen ’chiudere’ in cui la differenza di significato è affidata
alle due preposizioni auf (ingl. up)‘sopra’ e zu (ingl. to)‘a, verso’;
la componente –machen corrisponde
all’ingl. to make ‘fare’: è da
presumere quindi un movimento di accostamento a qualcosa quando si compie
l’operazione di chiusura, e di allontanamento da essa per l’apertura.
[9] Cfr.
D. Bielli, Vocabolario Abruzzese,cit.
Ne I
dialetti italiani, cit., la voce chjàtru
significa anche ‘chiara frullata che si spande sui dolci’. E’ presumibile che
quando lo zucchero non era ancora in commercio si usasse per questa operazione solo
la chiara dell’uovo, unita probabilmente ad un po’ di miele.
[10] L’idea di “luce, splendore” spesso si
concretizza in quella di “raggio luminoso” strettamente connessa con quella di
“bacchetta, verga”, presente nel fondo di lat. clatra ‘sbarra’. Cfr. anche l’ingl. beam ‘stanga, tronco, raggio’, gr. aktís ‘raggio, splendore, raggio della ruota’, lat. radiu(m) ‘bacchetta, palo, raggio
luminoso’. Inoltre la parola in questione deve essere variante di a. norreno glathr 'solatio, chiaro, luminoso, allegro', ingl. glad 'gioioso, contento, allegro, luminoso' e anche di fr. é-clat 'fulgore, scoppio, fragore'. Pertanto includerei nella lista anche l'ingl, clatter 'fracasso, strepito'. Noi oggi non scorgiamo alcuna parentela tra un "suono" e una "luce", ma i due concetti dovevano essere ben stretti nella mente dell'uomo delle origini, intesi come emanazioni da un'unica fonte vivente.
[11] Cfr. sito web dal titolo Cultura - Gli zampognari, www.forchecaudine.com/forchecaudine/zampognari.html
.
[12] L’it. soffice,
considerato di etimo incerto, credo abbia più di qualcosa da spartire con
questa voce inglese. La proposta di derivazione dal lat. supplice(m) ‘supplice’, iniz. ‘pieghevole’, mi pare impraticabile:
piuttosto ricorrerei al serbo-cr. šupalj ‘cavo’, šuplj-ina ‘cavità’. Il lat. subul-one(m) ‘suonatore di flauto’ non
dovrebbe essere estraneo a questa radice pèr ‘cavità’, naturalmente richiamando
anche il lat. sibil-u(m) ‘sibilo,
fischio’(sifilum in Prisciano), gr. siphl-όs ‘cavo, vuoto’, it. zufolo e sufolo, boemo sip-ati ‘fischiare, divenir roco’, a. slavo sip-ota ‘essere roco’, spagn. sopl-ar ‘soffiare, gonfiare’, port. sopr-ar ‘soffiare, esalare’, cimbrico shwib, scwif ‘flauto’ (v.
Pianigiani in rete), gr. siph-ōn ‘canna, tubo’. Così il
lat. suffl-are ‘soffiare, gonfiare’, da sub-fl-are,
ha tutta l’aria di una rietimologizzazione della radice di cui si parla
erroneamente intesa come composta da sub-
‘sotto’ e dal verbo fl-are ‘soffiare’. Ugualmente
per il lat. suppur-are (da sub ‘sotto’ e pus, puris ‘pus’)
‘suppurare’, ad esempio, si deve supporre una rietimologizzazione da una base *spur-, *sbur- molto simile al ted. schwär-en ‘suppurare, ulcerare’, ted. Ge-schwür
‘ascesso, ulcera’, all’aiellese (abruzzese) spurà
‘suppurare, fare uscire il pus, aprirsi (detto di ascesso, foruncolo) con
fuoruscita di pus’ o aiellese volg. sburrà
‘eiaculare’, verbo quest’ultimo che ha assunto (cfr. vocab. di Bielli) anche il
significato affine di ‘sfuggire, sgusciare, sdrucciolare’ (cfr. l’espress. Lu pétte je sburre fόre ‘il petto le
scappa fuori’) . Non condivido
naturalmente l’etimo che in genere si dà per il tosc. sborrare ‘fuoruscire, sgorgare con impeto, volg. eiaculare’,
secondo cui il verbo sarebbe composto dal prefisso s- e da tosc. borro
‘stretto valloncello, canale di scolo’. A
questo punto mi si affollano nella mente molte parole dall’etimo incerto o
rabberciato come l’it. sferr-are ‘lanciare un attacco’, l’it. regionale spar-are ‘aprire con lungo taglio il ventre di un animale, praticare un’apertura sul
davanti di un indumento’, it. spar-are (detto di arma da fuoco o altro) che a me sembra vicino
all’ingl. spar ‘boxare (in
allenamento)’: si ponga attenzione all’abr. sparì
, verbo spiegato dal Bielli con la frase M’à
sparite na fèbbre ‘M’è scoppiata
una febbre’ (non ‘scomparsa’!). Allora è molto probabile che l’it. spar-ire non rimandi alla radice di it. ap-parire con s- privativo ma ad uno ‘scappare via, dileguare’. Quando diciamo a
qualcuno:«Sparisci!» lo invitiamo,
allora, sì a ‘scomparire’ ma attraverso uno ‘scappare, schizzare via’! La voce ha più di qualcosa in comune col lat. sparu(m) 'corto giavellotto', simile all'ingl. spear 'lancia'. Ancora,
si può pensare che il lat. se-par-are ‘separare, dividere’ sia rietimologizzazione di questa radice spar- intesa come verbo composto dalla
particella disgiuntiva se- e dal
verbo parare ‘preparare, allestire’. Per fenomeni simili in latino cfr. il post Lingue germaniche nell’Italia preistorica
del mio blog (luglio 2011). Mamma mia! «L’è
tutto da rifare!» avrebbe detto Bartali, il campione della bicicletta.
Per
l’alternanza p/f siano di esempio i
dialettali fésele (a Rocca di Botte)‘soffitta, sottotetto’ e pésëlë (ad Aielli-Aq) ‘pensile di tavole
aggettante dal muro, soppalco’, abr. filucconë
(cfr. Bielli) e it. piluccone, abr. cafurchjë (ad Aielli-Aq)‘cesto
rovesciato su capretti per immobilizzarli e mantenerli teneri’ e capurchjë (a L’Aquila) dello stesso significato,
abr. spérë ‘lancetta dell’orologio’ e
abr. sférë ‘lancetta dell’orologio’. In scozzese ed irlandese soft vale ‘umido, bagnato’ indicando, così di essersi incrociato
con la radice di ingl. soppy’
bagnato, inzuppato’ imparentato con ingl. soup
‘zuppa, minestra’, ingl. supper
‘cena’, Ma probabilmente stiamo parlando di forme diverse, tutte riannodabili
insieme in profondità. L’ingl. supple ‘agile, flessuoso’, imparentato
col francese souple ‘flessibile’, lo
confronterei col termine serbo-croato sopra citato. L’ingl. supple-jack
‘pianta palustre, rampicante; bastone, canna’ sembra confermare sia l’idea di
“pieghevolezza” che quella di “protuberanza, escrescenza, virgulto’. Anche il lat. supplic-are (sub-plic-are)‘supplicare’, lat. supplic-e(m) potrebbe benissimo essere rietimologizzazione
di una radice simile a quella serbocroata.
[13] E’
molto confortante, per la mia tesi, incontrare le espressioni volgari come zampa di cavallo (sinonimo di
‘farfara’), zampa di gallo (sin. di
‘giavone’), zampa d’ orso, nome
volgare di funghi! del genere
Clavaria. E’ stupendo riscoprire tra noi, sotto le mentite
spoglie della zampa che ci nasconde
la sua identità, il ted. Schwamm ’fungo,
spugna’, il dan. svamp ’fungo,
spugna’, il m. ingl. swamp ‘gonfio,
cavo’! Naturalmente siamo abbastanza smaliziati, ormai, da non lasciarci
ingannare dalla eventuale somiglianza di tutte queste “zampe” botaniche a
quelle dei rispettivi animali: i termini hanno avuto a disposizione migliaia di
anni per adattarsi ad indicare proprio quei vegetali che sembravano rispondere,
nella forma, ai vari concetti indicati dalle relative espressioni. E i nomi dei vari animali sono anch’essi
tautologici rispetto al significato di “zampa”!
Lasciatemi ricordare ancora una volta il sacrosanto principio di cui si
era accorto già il grande Saussure, che suona più o meno così: E' vano pensare che un termine sia nato per
indicare il concetto di cui si carica solo nel corso della sua lunga storia. Da ricordare anche il lat. suill-um ‘fungo porcino’ con riscontri
dialettali come siluë ‘boletus edulis
(un porcino)’ nel Frusinate, come silli
‘funghi in genere’ a Pratica di Mare-Roma, come selvo in Toscana, ecc. Il
termine, lungi dal richiamare il ‘suino’, è invece, sotto mentite spoglie,
l’ingl. swell ‘gonfiar(si)’, ted. schwell-en ‘gonfiar(si)’, ted. schwelle ‘soglia, rialzo del terreno’,
ted. Schwiele ‘callo’, ingl. sill ‘soglia, davanzale’, ted. Süll ‘soglia della porta’, a. a. ted. schwelli ‘soglia, trave’: varianti che
si riscontrano anche nei precedenti termini dialettali e nel latino. Nell’antico alto tedesco riaffiora anche il
significato di ‘trave, tronco, asta’ della radice anche perché le soglie erano fatte inizialmente di tronchi
squadrati. L’etimo di lat. silu-a(m) ’selva’, d’origine incerta, lo collocherei tra questi nomi,
come quello della Sila calabrese, ma
nel senso di ‘montagna’. L’it. sbell-ic-arsi dalle risa non credo sia debitore a bellìco ‘ombelico’ con s- privativo ma che alluda al gonfiarsi della pancia e al tendersi di tutto il corpo, come se
minacciasse di crepare, sotto l’impeto delle risate.
[14] Il
termine zampogna è fatto derivare dal
lat. symphonia(m), dal gr. symphōnía ‘accordo (di suoni),
sinfonia’ ma anche ‘strumento musicale’ e, probabilmente, ‘zampogna’ nel Nuovo
Testamento. Alla luce di quanto detto sopra, però, si deve supporre che il
termine sia effetto di rietimologizzazione di una voce precedente, col
significato diretto di ‘piffero’ o ‘zampogna’, senza il ricorso al termine
greco che vale, appunto, ‘sinfonia’.
[15]
Questi nomi mostrano quanto numerosi possano essere stati in passato gli
incroci tra termini aventi lo stesso significante ma non lo stesso significato, che poteva variare di
360°. Molti di questi incroci, che
avrebbero facilitato il lavoro dell’etimologo, saranno andati perduti nella
notte dei tempi insieme alle lingue e parlate finite ai margini e scomparse per
sempre. Qualche altra osservazione. Sempre nel vocabolario del Bielli ho
incontrato le voci ciufell-ùcce
‘giusquiamo’ e ciufèlle ‘zufolo’, corrispondente quest’ultima all’it. zùfolo, dial. ciùfolo, ma con l’accento tonico spostato sulla penultima perché
forse la finale –èlle fu considerata, a torto o a ragione, diminutivo di una
voce *ciufo/a. Per lo stesso motivo indicato per abr. zampugnìe ‘giusquiamo’ non si potevano
fare zufoli col ciufell-ùcce
‘giusquiamo’. Il significato alla base
della radice doveva essere quello di ‘pianta, stelo, canna, ecc.’. Errato
quindi l’etimo che si dà per zufolo
considerato deverbale da zufolare quando, invece, si è solo incrociato con esso. E che dire poi della voce quijjë ‘pungiglione, aculeo, germoglio’ (tratta
sempre dal Bielli) la quale, col rispettivo verbo quijjà ‘germogliare’, è pari pari, con la diffusissima
palatalizzazione della doppia –ll-, l’ingl.
quill ‘penna maestra, aculeo,
cannello (della penna), stuzzicadenti, rocchetto’? e che
dire del verbo quéllë (v. Bielli) ‘maltrattare, sciupare, guastare’ che
va a combaciare con ingl. quell
‘tormentare, uccidere, reprimere, spegnere’, variante di ingl. kill ‘uccidere, far male, ecc.’ e di
ted. quäl-en ‘tormentare, tribolare, affliggere’? Ma il verbo abruzzese ha anche il sign. di ‘pavoneggiarsi,
gonfiarsi’ (cfr. l’espr. Gna si quélle!
‘Come si pavoneggia!’) ed ecco allora venirci puntualmente incontro sempre il
ted. quell-en ‘gonfiarsi’ ma anche ‘scaturire,
sorgere, ecc.’, significato con cui esso va a riallacciarsi al citato abr. quijjà, da *quillà, col sign. affine di ‘germogliare, spuntare’. Nel fondo la radice, che presenta anche la variante abr. cujje 'pungiglione, lisca di piante tessili, puntiglio', aveva il significato di
‘spingere, tendere, tendersi, gonfiarsi, premere, comprimere, opprimere o far uscire,
spuntare (con pressione)’. Ed ecco farsi innanzi, ancora, la voce cuglie 'ernia inguinale, membro virile (in quanto protuberanze)' del dialetto lucano di Gallicchio-Pz. Allora è indiscutibile che nel dialetto di Spinazzola-Ba la voce cidd (da *cill) 'membro virile' ha un'origine diversa dall'omonimo cidd (da cello < uc-cello) 'uccello', perchè essa si riallaccia alle parole precedenti: la radice deve essere variante di quella di lat. colle(m) 'colle', ingl. hill 'colle'. Altro che metafora di uccello come in coro gracchiano i linguisti! Interessante inoltre è la voce aiellese sgualà ‘urlare, piangere forte (dei bambini)’, a dire il vero
non registrata nei dizionari dialettali
in mio possesso, ma presente anche nel dialetto di Ovindoli-Aq nella forma
palatalizzata sguajà. Di essa ho già parlato nel post Le Scole: gruppo di scogli…(febbraio 2012). Da italiano e da atipico studioso della lingua
(etimologo), per quanto modesto, mi fa un po’ di tristezza constatare come la
linguistica ufficiale alzi bandiera bianca o si produca in improbabili
contorcimenti nel tentativo di definire l’etimo dell’aggettivo sguaiato quando non ricorra alla solita
soluzione onomatopeica salvatutto! L’aggettivo rivela in realtà uno stretto
legame col verbo dialettale or ora citato, nel denotare un che di ‘eccessivo, troppo
vistoso, volgare, chiassoso, urlato’ nel comportamento di un
uomo. Essendo il verbo un’esatta copia
dell’ingl. squall ’urlare, gridare’,
di ingl. squeal ‘gridare, urlare’, non si può nemmeno chiosare con assoluta
sicurezza, come generalmente si fa, che l’it. squilla non ha altro padre che il supposto got. *skilla, ted. Schelle ‘campanello’ quando invece il latrato (cfr. a. ingl. scyll-an 'rimbombare, risuonare) di Scilla, il mostro della costa calabra all'ingresso dello stretto di Messina, impauriva orridamente gli incauti naviganti che passavano da presso già dal tempo di Omero, ed evidentemente anche prima . Il mostro dilaniava (cfr. gr. skyllo 'lacero, dilanio') quelli che riusciva a ghermire con le orrende sei fauci. Il suo latrato era avvertito anche come un guaire, mugolare perchè il termine naturalmente pagava lo scotto anche al gr. skyl-aks 'cagnolino' con cui si incrociava. Di Scilla ho parlato abbondantemente nel post Le Scole del febbraio 2012, a cui rimando. Per motivi che mi sembrano ovvi, quindi, in tutti
questi casi non si può trattare di voci provenienti dalle medievali invasioni
barbariche !
[16]
L’it. gamba messo in relazione col
lat. tardo gamba(m) ‘zampa di
animale’(dal gr. kampé ‘curva,
articolazione’) è a mio avviso da confrontare con gr. gόmphos ‘cavicchio, chiodo, stilo, articolazione’ (sscr. jambhah). Interessante riflettere anche sui significati
di lat. tibia(m) ‘stinco, gamba,
flauto’. Il significato di ‘flauto’,
stando alle testimonanzie letterarie latine, sembra essere antecedente agli
altri significati. Ma che le cose non
stiano così ce lo attesta, a mio parere, l’altro termine lat. tibi-cen, gen. –cinis il quale, oltre a significare ‘suonatore di flauto’ ha il
valore del tutto diverso di ‘puntello, sostegno, pilastro’, valore che fa da
trait d’union anche tra l’it. zampa e
lo spagn. zampa ‘palo (di palafitta)’. In altri termini i due elementi del composto
lat. tibi-cine(m) dovevano avere il
significato generico di ‘stelo, bacchetta,
tubo, palo, pilastro, ecc.’ entro cui si sono situati i vari concetti
particolari di ‘stinco, gamba, flauto’. Per l’elemento –cine(m) basti pensare al fitonimo gr. kinn-ámōm-on ‘cinnamomo, cannella’ composto dall’elemento kinn-
più l’altro fitonimo gr. ámōm-on
‘amomo’. Ancora più interessante è
notare come il sign. di ‘suonatore di flauto’ non sia altro che una
rietimologizzazione del composto tautologico sottostante per ‘stelo, tubo,
ecc.’ piegato a significare ‘suonatore’
nel secondo elemento –cin-e(m), per l’incrocio con una forma del lat. can-ere ‘cantare, suonare’ che al perfetto fa ce-cin-i ‘cantai’. Anche in questo caso, come voleva il
Saussure, sarebbe vano dunque pensare che il termine latino per ‘suonatore di
flauto’ sia stato creato a tavolino mettendo insieme i due elementi. La
Lingua è sì creativa ma con uno spirito di somma parsimonia,
nel senso che non butta via nulla di quanto si trova tra le mani: appena può
essa sa come sfruttarlo. Il lat. tubi-cine(m) ‘trombettiere’ mi pare una
variante di tibi-cine(m) come
lat. tuba(m) ‘tromba’ e lat. tubu(m) ‘tromba, tubo’ dovevano essere
varianti di lat. tibia(m)
‘flauto’. Il lat. corni-cine(m) ‘suonatore di corno’ sarà una formazione analogica? E’ tutto da dimostrare. Il primo elemento corni- potrebbe in
effetti richiamare l’ingl. croon ‘canticchiare, muggire, lamentarsi,
ecc.’ e confermare tautologicamente il sign. di –cine(m). Così tutti questi composti potrebbero anche essere intesi
come formazioni tautologiche che inizialmente avevano il significato generico di
‘suonatore, cantore’ se si pensa all’it. tub-are, verbo che indica il verso dei piccioni e che non è detto che
sia l’esatta copia, come si suppone, del tardo lat. tutub-are, riferito al verso della civetta, ma possa essere l'esito finale di un verbo precedente al medievale tub-are 'suonare la tromba'. A me pare chiaro, comunque, che la voce in
questione possa aver assunto il significato specifico relativo al verso dei piccioni quando si incontrò con un termine simile al ted. Taube ‘piccione’, ingl. dove
‘tortora’.
[17] Racconta Franco Zazzara,
nella prefazione al fascicolo Il linguaggio dei Sumeri nella Marsica,
di aver incontrato a Lecce nei Marsi, in occasione della presentazione di un
suo libro, lo studioso Berardo Ettorre vestito da zampognaro.
[18] Qualcuno saprebbe dirmi
cosa c’entrano le montagne con i
pifferai?
[19] La cosa, per quanto possa sembrare audace a
chi non è addentro ai problemi della linguistica, è in verità già stata riconosciuta,
sia pure in linea teorica, dal linguista Giulio Lepschy, nella parte finale
della spiegazione del lemma significante/significato,
a p. 655 dell’opera curata da Gian Luigi Beccaria Dizionario di Linguistica, G.
Einaudi editore, Torino 1994. Il
semplice rimando delle parole, poi, a campi semantici sempre più vasti è
facilmente verificabile e già noto ai linguisti da lunghissima pezza.
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