La città di
Ninive (in accadico Ni-nu-wa, Ni-nu-a,
Ni-na-a), capitale dell’Assiria, è spesso indicata da un ideogramma che
rappresenta un recipiente o quadrato con dentro un pesce: la casa del pesce, come gli studiosi intendono. Forse si trattava
di un’etimologia popolare del nome della città da connettere, ad esempio, con
l’aramaico nuna ‘pesce’. Il sito della città è antichissimo, gli scavi
archeologici vi hanno scoperto un insediamento risalente al VI millennio a.C.
Basterebbe
questo incredibile mutuo rispecchiarsi della casa del pesce dell’ideogramma e del ventre del grande pesce, dove Giona (ebr. Ionah, gr. Iōnas) secondo
la Bibbia[1] visse
(si può immaginare come dentro una casa) per tre giorni e tre notti per essere
poi risputato sulla spiaggia, a mettere seriamente in dubbio la veridicità non
solo di questo episodio centrale della vita di Giona ma anche della sua
esistenza storica, che invece gli esegeti di orientamento cristiano tendono a
riconoscere, anche per via della citazione del profeta da parte di Gesù (Mt.
12, 38-42) della quale parlerò più sotto.
In altri termini il nucleo centrale della vicenda di Giona, a mio
avviso, si ritrova in nuce nell’etimo più diffuso del poleonimo
Ninive, città corrotta dove Dio gli ordinò di andare a predicare e dove egli
non volle in un primo tempo recarsi, preferendo imbarcarsi su una nave diretta
a Tarsis in Ispagna. I due nomi di Giona
e di Ninive erano quindi destinati ad attrarsi vicendevolmente, aldilà della
osservazione degli antichi esegeti ebrei che avevano notato che essi si
scrivevano quasi con le stesse lettere, esclusa la prima del poleonimo (cfr. la
forma IUNE per Giona e [N]INUE
per Ninive).
Quasi sicuramente
questi nomi, che potevano far parte di uno o più nuclei mitici che potevano
provenire anche dalla preistoria, ebbero tutto il tempo e il modo di
incrociarsi con numerosi altri termini simili che hanno poi dato vita al
racconto biblico di Giona, che non esiterei a classificare come mito, leggenda. E’ probabile, infatti, che il santuario arabo
di Nebi o Nabi Yunus (Profeta
Giona) a Ninive, sul tell [2]
recante lo stesso nome, riguardasse all’origine una divinità della luce o del
sole richiamante, nel nome, il gr. Ione,
figlio del dio Apollo. Nabi in arabo ha infatti anche il valore
di ‘illuminato’ come si può evincere dal nome assiro del dio della scrittura Nabu che in accadico significava ‘lo
splendente’. Un suo tempio era nel tell Kuyunjik,
altro sito archeologico di Ninive dove
si trovava anche il tempio della dea Ištar[3], complessa divinità
dell’amore, della vegetazione e della guerra, il cui simbolo era comunque una stella.
In ungherese nap[4],parola simile al
precedente Nabu, vale ‘sole, giorno’ ed in greco nēph-ali-eús, epiteto di Apollo, significa ‘sobrio, astemio’ ma il suo significato
primitivo in questo caso è da ricercare, penso, in ungh. napp-ali ‘di giorno’. Uno dei
nomi babilonesi della dea era Nina,
il che spiega lo svilupparsi nella città di Ninive
di uno dei più famosi centri della dea Ištar.
E probabilmente non sarà un caso nemmeno il fatto che, nella lingua quechua dei nativi sudamericani occidentali,
Nina è un nome proprio che significa
‘fuoco’ (il fuoco dell’amore o della
guerra o di quella forza irresistibile che spinge la vegetazione a crescere e
fiorire sotto il sole della primavera-estate)[5].
Intorno al
concetto di “cavità, profondità, ventre, ecc.”
si è sviluppata, inoltre, una notevole parte del mito di Giona, finito
tra le fauci di un grosso pesce (un cetaceo?) perchè gettato in mare durante
una grande tempesta scatenatasi dopo
essersi imbarcato a Ioppe su una nave diretta a Tarsis, disobbedendo così
all’ordine di Dio. Giona era sceso nel fondo della nave dove dormiva della
grossa[6]. I marinai vennero a sapere da lui, svegliato
dal capitano, che la tempesta era stata causata da Dio per punire la sua
superbia. Egli stesso quindi li pregò di
gettarlo in mare, cosa che fecero e che provocò una calma improvvisa. La
preghiera che Giona rivolge al Signore dal ventre del pesce è caratterizzata
dalla presenza di vari termini legati al suddetto concetto di “cavità,
interno”. Sia pure nella traduzione
italiana vi si notano le seguenti espressioni: Dalle viscere del pesce― nel profondo,
nel cuore del mare― l’abisso
mi si è chiuso d’intorno―sono sceso fino
alle bocche dell’inferno―mi facesti risalire dalla fossa.
A mio parere questo ricorrere di concetti imparentati con quello
di ‘casa, cavità’, presente già nell’ideogramma di Niniv-e Ninu-a e corrispondente ad accadico E ‘casa’, non può essere alimentato
da questa sola coincidenza che comunque fu certamente sufficiente ad attrarre nella
città di Ninive il mito di Giona, probabilmente in fieri nel mondo semitico già dalla preistoria, come già detto. Dietro il nome stesso di Giona, che in
ebraico vale ‘colomba’, deve essersi insinuato altro termine per ‘cavità,
fossa, ecc.’ che ha generato i vari
brani del mito sopra riportati. Non dovrebbe, quindi, essere estranea al fatto
la radice del sscr. yoni ‘utero’,
cioè una ‘cavità’ che avvolge e protegge, ad esempio, allo stesso modo del ventre o stomaco del grosso pesce. Come
pure la prima componente dell’ingl. john-boat o jon-boat ‘tipo di
barca a fondo piatto con prua e poppa squadrate’ che, anche in base al
principio tautologico della mia linguistica, doveva avere all’origine lo stesso
significato di boat ‘barca’, una
cavità dunque. Diversi sono poi i toponimi interessanti al riguardo come Jonas-tal ‘Valle di Giona’ ad ovest di Arnstadt in Germania o le Grotte di Jonas nel Puy-de-Dôme in
Alvernia o il Fosso di Giona a
Bibbiena-Ar[7]. E’ da ricordare anche il mare Iǒnium ‘mare Ionio’, noto anche come sinus Ionius ‘golfo Ionio’ (tra Italia,
Sicilia e Grecia), in greco Iόnios kόlpos
‘golfo Ionio’. Ma il nome potrebbe rimandare direttamente al concetto di
“fossa, cavità (quella del mare)”. Una curiosità: in albanese esso è chiamato deti Ion ‘mar Ionio’, solo che il
significato dell’espressione in quella lingua equivale a ‘mare Nostro’, come il
latino mare nostrum ‘mare nostro’
riferito al Mediterraneo, espressione che all’origine poteva allora avere,
similmente, un significato non corrispondente al letterale ‘mare nostro’ come
orgogliosamente si ripete. L’albanese deti ‘mare’ assuona con Teti, la dea
abitante gli abissi del mare, madre di Achille.
Anche l'espressione ingl. Davy Jones's locker 'fondo del mare (letter. 'ripostiglio di Davy Jones')' risulta a mio avviso composta di tre termini per 'mare, fondo del mare'. Il secondo Jones ha qualcosa da spartire con la radice di cui si sta parlando; l'ultimo, locker 'ripostiglio', richiama il lat. lacu(m)'lago', a. norreno loegr 'mare, acqua'; il primo, Davy, si avvicina alla radice di gr. taphos 'fossa, sepolcro', ingl. deep 'profondo', ingl. to dive 'tuffarsi, immergersi', ingl. dive 'bettola', lituano dubus 'profondo, cavo', ted. tauf-en 'battezzare' cioè immergere (nell'acqua); per il concetto di "acqua" deve essersi incrociato anche con ingl. dew 'rugiada, ted. Tau. Nel Vocabolario Abruzzese del Bielli la voce dav-éntre significa, oltre che 'dentro', anche 'inferno', concetto che solitamente viene espresso da termini che indicano "cavità, profondità" e simili. La valle di Teve nella Marsica divide il gruppo del Velino dai Monti della Duchessa. Il medievale portus de Deva (porto di Deva) corrisponde all'attuale Dèiva Marina-Sp. Il lat. tab-erna(m)'capanna, bottega, osteria' non era così chiamata perchè costruita con tavole (come con sicurezza affermano i linguisti, seguendo Festo) ma perchè rientrava nel concetto più ampio di "cavità". La città di Deventer sul fiume Ijssel in Olanda era nota nel 1877 come Dav-entre portu, cioè porto Dav-entre: l'idea di "porto" è attigua a quella di "passaggio, insenatura, cavità". Il secondo membro -erna, lo stesso di lat. cav-erna(m) 'caverna', è variante in questo caso di it. arnia, la cui radice è abbastanza ricorrente nei toponimi. Naturalmente anche la serie dialettale taf-icchio 'ano' (nel napoletano); il secondo membro -i-cchio non era in origine suffisso diminutivo -culum ma corrispondeva in questo caso al lat. culu(m) 'ano'; nella nostra Marsica la parola è tàf-ano (col lat. anum 'ano' incorporato). Nella lingua corsa ricorrono le forme taf-icchju, taf-òne, tav-anu 'buco' da cui si dovrebbe dedurre che gli elementi -one e -anu sono equivalenti. Nel calabrese tav-agnu oltre al significato di 'buco' appare quello di 'grotta oscura' che ci riporta al sign. di cav-erna di cui si è parlato prima (cav-erna=tav-erna). Nel sopra ricordato Vocabolario Abruzzese del Bielli si incontra la voce tav-ùte 'casa male costruita, mobile grossolano, abito mal fatto' che secondo me nasconde sempre il concetto di "cavità" e va confrontata con la voce meridionale tab(b)-ute/u 'bara' che non deve derivare per forza dall'arabo tabut 'bara' ma ambedue le voci sfruttano la stessa base che va a perdersi nella preistoria delle lingue. Alla stessa base rimanda la voce del veneto settentrionale tav-ìna 'locale sopra la stalla, dove dormire, nella cascina di montagna'. Il falso suffisso -ina, variante dei precedenti -one, -ano, rimanda, a mio avviso, all'ingl. inn 'locanda', termine che a sua volta richiama la prepos.-avverbio in 'in, dentro, a casa, ecc.'. E certamente non bisogna dare retta a qualche linguista che parla di base onomatopeica taf . Quando la finiranno di sproloquiare!
Anche l'espressione ingl. Davy Jones's locker 'fondo del mare (letter. 'ripostiglio di Davy Jones')' risulta a mio avviso composta di tre termini per 'mare, fondo del mare'. Il secondo Jones ha qualcosa da spartire con la radice di cui si sta parlando; l'ultimo, locker 'ripostiglio', richiama il lat. lacu(m)'lago', a. norreno loegr 'mare, acqua'; il primo, Davy, si avvicina alla radice di gr. taphos 'fossa, sepolcro', ingl. deep 'profondo', ingl. to dive 'tuffarsi, immergersi', ingl. dive 'bettola', lituano dubus 'profondo, cavo', ted. tauf-en 'battezzare' cioè immergere (nell'acqua); per il concetto di "acqua" deve essersi incrociato anche con ingl. dew 'rugiada, ted. Tau. Nel Vocabolario Abruzzese del Bielli la voce dav-éntre significa, oltre che 'dentro', anche 'inferno', concetto che solitamente viene espresso da termini che indicano "cavità, profondità" e simili. La valle di Teve nella Marsica divide il gruppo del Velino dai Monti della Duchessa. Il medievale portus de Deva (porto di Deva) corrisponde all'attuale Dèiva Marina-Sp. Il lat. tab-erna(m)'capanna, bottega, osteria' non era così chiamata perchè costruita con tavole (come con sicurezza affermano i linguisti, seguendo Festo) ma perchè rientrava nel concetto più ampio di "cavità". La città di Deventer sul fiume Ijssel in Olanda era nota nel 1877 come Dav-entre portu, cioè porto Dav-entre: l'idea di "porto" è attigua a quella di "passaggio, insenatura, cavità". Il secondo membro -erna, lo stesso di lat. cav-erna(m) 'caverna', è variante in questo caso di it. arnia, la cui radice è abbastanza ricorrente nei toponimi. Naturalmente anche la serie dialettale taf-icchio 'ano' (nel napoletano); il secondo membro -i-cchio non era in origine suffisso diminutivo -culum ma corrispondeva in questo caso al lat. culu(m) 'ano'; nella nostra Marsica la parola è tàf-ano (col lat. anum 'ano' incorporato). Nella lingua corsa ricorrono le forme taf-icchju, taf-òne, tav-anu 'buco' da cui si dovrebbe dedurre che gli elementi -one e -anu sono equivalenti. Nel calabrese tav-agnu oltre al significato di 'buco' appare quello di 'grotta oscura' che ci riporta al sign. di cav-erna di cui si è parlato prima (cav-erna=tav-erna). Nel sopra ricordato Vocabolario Abruzzese del Bielli si incontra la voce tav-ùte 'casa male costruita, mobile grossolano, abito mal fatto' che secondo me nasconde sempre il concetto di "cavità" e va confrontata con la voce meridionale tab(b)-ute/u 'bara' che non deve derivare per forza dall'arabo tabut 'bara' ma ambedue le voci sfruttano la stessa base che va a perdersi nella preistoria delle lingue. Alla stessa base rimanda la voce del veneto settentrionale tav-ìna 'locale sopra la stalla, dove dormire, nella cascina di montagna'. Il falso suffisso -ina, variante dei precedenti -one, -ano, rimanda, a mio avviso, all'ingl. inn 'locanda', termine che a sua volta richiama la prepos.-avverbio in 'in, dentro, a casa, ecc.'. E certamente non bisogna dare retta a qualche linguista che parla di base onomatopeica taf . Quando la finiranno di sproloquiare!
Altro nucleo di
termini, che incrociandosi con Giona hanno alimentato la leggenda di cui stiamo
parlando, è costituito dall’espressione ingl. john dory ‘orata’ o ‘specie di
orata (dory)’ chiaramente collegata,
per il primo termine, a gr. iōn-ískos[8]
‘orata’ e ingl. poor john ‘tipo di
merluzzo’ in cui evidentemente il personale ingl. John ‘Giovanni’ non c’entra
nulla. Da notare in turco l’espressione yunus baligi ‘pesce delfino’ o semplicemente yunus ‘delfino’. Si riconferma in questi casi la genericità
iniziale del significato della radice che qui esibisce, di volta in volta,
quello di colomba, di delfino, orata o di altri tipi di pesce ma che originariamente doveva significare
‘animale’. Da tener presente anche il gr. hýaina ‘iena’ e ‘sorta di pesce’.
Giona ha avuto
il privilegio di essere citato dalla viva voce di Gesù nel vangelo di Luca
(11,29) nel passo in cui il Messia dice: «Questa generazione è una generazione
malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorchè il
segno di Giona». Questo segno allude,
secondo gli esegeti, alla morte e resurrezione di Gesù dopo tre giorni.
Giustamente Piergiorgio
Odifreddi, il noto matematico “impertinente”, in riferimento a questo brano si
chiede[9]: «
Com’era possibile che dichiarasse di non fare miracoli, colui del quale ogni
fedele può citarne una lista incredibile, dalle guarigioni dei malati alle
resurrezioni dei morti? Chi faceva quei
miracoli, poteva non essere lo stesso di chi diceva quelle cose? Nel variopinto
Israele di allora, per molti versi così simile alla variopinta India di oggi,
gli evangelisti potevano non essersi ispirati a una sola persona, bensì a molteplici
stereotipi?
«Più
precisamente, era possibile che nei Vangeli
non si parlasse di un unico contraddittorio individuo, ma di uno o più dei
tanti santoni, che affascinavano l’uditorio con detti e parabole? Di uno o più
dei tanti ciarlatani, che turlupinavano la povera gente con magie e trucchi? E
di uno o più dei tanti istigatori politici, che sobillavano gli insoddisfatti a
ribellarsi contro i poteri romano ed ebreo?».
Non nascondo
che queste sono tutte domande perlomeno legittime, data la intrinseca
contraddittorietà delle nette parole di Gesù sul non voler fare miracoli,
quando, prima e dopo questo passo di Luca, di suoi miracoli se ne annoverano invece
parecchi. Stando così le cose non si può
purtroppo nemmeno accettare ad occhi chiusi che l’episodio di Giona citato da
Gesù, maestro di verità e di vita, acquisti per ciò stesso maggiore veridicità
storica, come credono taluni, rispetto ad altri passi: la sua inconsistenza
come dato concreto emerge dalla mia analisi precedente. Naturalmente ciò non toglie la teorica
possibilità che qualche episodio vagamente affine della vita reale sia stato
inglobato nella struttura del mito.
So di dire una
cosa inaccettabile, oltre che molto incresciosa, per un credente cresciuto per
così dire a pane e vangelo, ma si va sempre più consolidando in me la
convinzione, suffragata anche da queste mie indagini, che i libri cosiddetti
sacri di ogni religione non sono affatto opera diretta o indiretta di Dio,
bensì un prodotto umano, troppo umano, come del resto altri studiosi per altri
motivi sostengono. La
Religione del futuro vedrà ―spero― animi più virilmente
maturi e scientificamente orientati, capaci di ingoiare anche le pillole più
amare della vita senza volerle condividere con la misericordia di Santi e
Madonne, e pronti a ridurre e superare le barriere etniche, storiche e cultuali
che gli uomini hanno sempre eretto intorno a sé nella irrazionale e tenace volontà
di difendere le proprie intoccabili verità, in specie quelle attinenti al
proprio Credo, che del resto loro stessi si sono confezionati con le loro
stesse mani; la cosa, invece di sgretolare la loro presunta identità, dovrebbe
renderli al contrario più liberi, forti e solidali dinanzi alla maestosità
misteriosa, austera ed impersonale della Natura, perché non più costretti entro
le maglie di una educazione precettistica, particolaristica ed unilaterale spesso
acriticamente accettata ma aperti al nuovo
che la Natura
vorrà rivelarci, e meno soggetti ad una in fondo egocentrica concezione materna
e consolatoria della religione, da cui però è difficile liberarsi specie nei
momenti più tristi dell’esistenza, che talora possono durare anche per l’intero
percorso della vita. In questo cielo apparentemente desolato l’individuo dovrà
abituarsi a trovare dentro di sé la forza per andare avanti o per rassegnarsi
all’ineluttabile, anche se possono venirci incontro a tenderci fraternamente la
mano uomini come Giordano Bruno, Galileo Galilei, Baruch Spinoza, Alberto
Einstein, Giacomo Leopardi e tanti altri.
[1] Cfr. il Libro di Giona
della Bibbia.
[2]
L’arabo tell ‘altura’ è il termine
con cui gli archeologi indicano quei rilievi artificiali sul terreno causati
dai resti stratificati di insediamenti umani susseguitisi in loco nei millenni. Questi insediamenti potevano essersi
sviluppati, comunque, anche su piccole colline naturali originarie.
[3] Cfr.
G. Semerano, L’infinito: un equivoco
millenario, 2001 Paravia, Bruno Mondadori Editori, p. 210. Il nome Ištar,
corrispondente al cananeo Astarte, viene messo da Semerano in relazione col gr. astér, ástron ‘astro, stella’. Io
lo riconosco anche nella seconda componente del doppio nome tautologico per
‘lucciola’ in uso nel dialetto di Villavallelonga-Aq, e cioè lucciola cap-istr-ella. Il primo elemento cap-, di cui ho parlato nell’articolo Nomi di animali nelle espressioni idiomatiche […] del luglio 2012,
ricompare nell’altro diffuso termine abruzzese per ‘lucciola’, cioè luce-capp-ella. Questi termini mettono in bella evidenza i
vari elementi di cui si compongono, proprio come in un gioco ad incastro. Infatti capp-ella
si può intendere come ciò che resta di cap-istr-ella, toltone l’elemento centrale
–istr-.
[4] Cfr. l’articolo La tradizione della panarda […] del
gennaio 2012.
[5] Il
termine el Niño usato inizialmente
dai pescatori del Pacifico nell’America meridionale indicava un fenomeno
periodico di riscaldamento delle
acque in prossimità della costa. Si
crede, erroneamente a mio avviso, che il nome derivi dal fatto che il fenomeno
è solito verificarsi intorno a Natale.
Esso sarà stato appreso invece dagli indigeni che usavano quindi una
parola incrociantesi con quella spagnola
niño ‘bambino’ e imparentata con quella quechua Nina ‘fuoco’ di cui sopra.
Si usa anche il femminile la Niña
‘la bimba’ ad indicare un fenomeno di raffreddamento a volte susseguente a
quello del riscaldamento. Ma in realtà
si registra una certa confusione nell’uso
dei due termini che secondo me attesta la tendenza a sfruttare una delle due
varianti indicanti uno stesso fenomeno per designare anche l’epifenomeno del
raffreddamento.
[6] Si
noti la somiglianza con l’episodio di Gesù che dorme nella barca allo scatenarsi di una tempesta nel lago di
Tiberiade, che costringe gli apostoli impauriti a svegliarlo. Ma Giona è ancor più figura della passione e
risurrezione di Gesù nel suo essere rigettato sulla spiaggia dal pesce, dopo
tre giorni. Questi richiami al Vecchio Testamento
sono frequenti nei Vangeli, nel tentativo di avvalorare, tra l’altro, la
veridicità e storicità di ambedue i Testamenti.
[7] Non è
escluso che anche il nostro paese di Santa
Iona, frazione di Ovindoli-Aq, tragga il nome dal concetto di “valle” se
più volte lo storico locale del sec. XIX don Andrea Di Pietro, nella sua opera Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei Marsi (pp.
161-62), si riferisce al paese con l’espressione
valle di Santa Iona. Taluni, sulla scorta di documenti
medievali e rinascimentali non sempre però concordi tra loro, fanno derivare,
con improbabili capriole linguistiche, il nome Iona da quello di Santa Eugenia, patrona del paese. Ma
questo doveva essere in antico solo l’idronimo della Sorgente di Santa Eugenia non lontana dal paese. E’ a mio avviso poi di notevole valore
linguistico, per evidenziare la forza degli incroci sempre operante nei
toponimi, il fatto che in qualche sito del web si scriva Santo Iona al maschile, per evidente e semidotto influsso sul
toponimo del nome cristiano di san Giona relativo al profeta Giona.
[8] Il significato di ‘orata’
di gr. iōn-ískos conferma
indirettamente il valore di ‘aureo, splendente’ che la radice aveva probabilmente
assunto anche nel termine Íōn ‘Ione’, figlio di Apollo.
[9] Cfr. P.Odifreddi, Caro Papa, ti scrivo, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 2011, p. 104.
Caro Pietro, eccetto per la dubbia impostazione del problema, anche in questo caso trovo la tua analisi "illuminante". Ma per un ateo come Odifreddi, il matematico impertinente, o per altri non-credenti, per cui la Sacra Bibblia è paragonabile a tutte le altre mitologie, l'illuminante può divenire "abbagliante". Infine, non si comprende come, dalla semplice analisi semantica di una parola o di un nome, si possa concludere l'esistenza o meno di un personaggio come Giona.
RispondiElimina