Questo
titolo suona volutamente provocatorio di fronte alla millenaria tradizione, che
ancora persiste e persisterà in futuro presso noi marsicani, della incrollabile gagliardia delle truppe marse che diedero filo da torcere alla
potenza romana, in un primo tempo in occasione dei numerosi fatti d’arme e guerre che Roma dovette affrontare nel corso
della sua espansione verso il centro-meridione d’Italia (sec. V-III a. C.) e
poi, quando essa era già diventata una superpotenza padrona del Mediterraneo, in
occasione della guerra sociale (91-88
a. C.) detta anche marsa, per la
parte notevole che vi ebbero i Marsi, guerra che vide tutti i popoli italici,
tranne gli Etruschi e gli Umbri, in rivolta contro Roma per l’ottenimento della
cittadinanza romana e che costituì un pericolo veramente serio per i Romani.
Costoro, però, seppero evitare il peggio concedendo la cittadinanza, per
così dire, a scaglioni, a mano a mano che i confederati si fossero arresi.
Ora, a parte le comprensibili esagerazioni
tipiche del miles gloriosus ‘soldato
millantatore’ che, tornato a casa, è portato ad ingigantire, tra un bicchiere e
l’altro, le imprese cui ha partecipato, resta il fatto che la fama della
bellicosità dei Marsi[1] era
ampiamente diffusa nell’antichità se Appiano d’Alessandria[2] fu
spinto a scrivere, senza essere d’altronde mosso, essendo uno straniero, da
motivi particolari di simpatia o di opportunità politica, che su questo popolo
i Romani non celebrarono mai un trionfo e che d’altro canto i numerosi trionfi
di Roma celebrati su tanti altri popoli nemici furono sempre dovuti anche alla
presenza dei Marsi tra le loro truppe.
Con ciò viene messo in rilievo, secondo me, un aspetto che dovrebbe essere in qualche modo una
conferma della tenacia del soldato marso, e cioè la corrispondente tenace
fedeltà del popolo marso nei confronti
di Roma una volta divenutone alleato, persino nell’ora più buia e decisiva per
la potenza romana, quando l’invincibile, astuto e spietato Annibale scorrazzava da padrone, ormai da
troppi anni, per le terre d’Italia e metteva a ferro e a fuoco anche la Marsica.
Passando ad altro argomento, a me
sembra che questa bellicosità dei Marsi, mai messa in dubbio né ridimensionata
da nessuno, abbia potuto forzare la mano, sia pure inconsapevolmente, ai vari
studiosi (credo tutti) che hanno visto nell’etnico stesso di Marsi la presenza del nome dell’italico
dio della guerra e della primavera: Marte
(cfr. lat. Mart-em uguale alla radice umbra Mart- per la stessa divinità e simile a
quella osca Ma-mert-). Ma l’etnico, a
mio modesto avviso, potrebbe raccontarci tutt’altra storia per i motivi che
adesso dirò.
Epigraficamente la parola Marsi equivaleva a Marruvium, designante il capoluogo dei Marsi (odierno San Benedetto dei Marsi). E’ attestata
abbondantemente anche la formula completa, e alquanto complessa, di Marsi Marruvium allo stesso modo di quella relativa al
municipio di Marsi Antinum (attuale Civita
d’Antino, nella valle Roveto) e a quello di Marsi Anxates o Anxatini (da Anxa,altro nome locale del municipio di Angitia)[3]. Ma solo Marruvium,
tra gli altri municipi marsi, poteva essere indicato, come abbiamo detto, col
semplice Marsi: ciò significa che
questo nome, prima di diventare l’etnico di tutta la nazione marsa, lo sarà stato del solo Marruvium
e avrà condiviso con quest’ultimo la sua etimologia di natura molto
probabilmente toponimica prima che etnica, data la evidente presenza della
radice mar- in ambo i nomi[4]. Ma quale sarebbe questa etimologia? Facendo
scorrere dinanzi ai nostri occhi i nomi
di tre centri abitati riconducibili a questa radice, e facendo caso alla loro
collocazione geografica, si arriva inevitabilmente ad una sola conclusione, che
cioè quella radice, in questi casi, dovesse indicare un lago, uno stagno e
simili, al di là di ogni altra possibile suggestione. Il Marruvium
nel reatino, citato da Dionigi di Alicarnasso infatti, si trovava sulle sponde
dell’odierno lago di Piediluco in provincia di Terni, il Marruvium marso su quelle del lago Fucino, mentre il paese di Marrubiu, in provincia di Oristano, si
trova ai bordi della zona bonificata di Sassu, occupata precedentemente da una
vasta laguna. Questa circostanza, non
notata da nessuno, non può essere dovuta al puro caso, anzi essa, a mio parere,
ha il valore indiscutibile del dato di
fatto. In ultima analisi, allora, la radice mar-
dovrebbe essere strettamente legata, in questi casi, a quella di lat. mar-e ‘mare’ e di altri numerosi termini
come ingl. moor ‘palude, brughiera,
maremma’, a. norreno marr ‘mare’,
ingl. mire‘pantano’, ingl. mar-sh ‘palude’, ted. Moor ‘palude’, ted. Meer‘mare’, ecc. Credo possa
essere utile l’elencazione di qualche toponimo delle nostre parti che, a mio
avviso, contiene la radice in questione nel significato di ‘cavità’. Nel concetto
di “mare, lago” e simili si incontrano solitamente due idee, quella di “acqua”
e quella di “cavità” che per questo è difficile e spesso inutile districare tra
loro, data l’estrema volatilità dei significati delle radici. A Collarmele si incontra una valle di Mario,
a Civita d’Antino un vallone Santa Maria, ad Aielli una grotta Mora
e una grotta Zia Maria, a Lecce nei Marsi
si ha una frazione chiamata Valle-mora. Naturalmente questi toponimi
andrebbero analizzati e spiegati con maggiore precisione ma non è il caso di
farlo qui.
La forma Marruvium in origine probabilmente era affiancata da una variante
come *Mars-uvi-um, se il
nome di questa città veniva fatto risalire ad un eroe eponimo Marr-o o Mars-o[5],
il quale doveva indicare in realtà il nome originario del centro abitato
(come suggerisce la forma epigrafica Mars-i), ampliatosi successivamente in Marr-uvi-um/*Mars-uvi-um[6]. Questi sono fenomeni linguistici di
accrescimento di una radice base, molto comuni, tanto che possiamo riscontrarli
anche nell’attuale etnico Mars-ic-an-o
<Mars-ic-o <Mars-o.
C’è da aggiungere che queste forme in –rr- oppure in –rs- rispecchiano il consistente filone cui
appartengono svariate parole greche o di origine greca come thȧrros/thȧrsos ‘coraggio’, Tyrrhēnós/Tyrsēnós ‘Tirreno’, kórrē/kórsē ‘tempia’,
ecc. Ora, ognuno può rendersi conto che, se il valore iniziale di questi
etnonimi era di natura strettamente toponimica e ristretta, non possiamo più
pensare, come siamo abituati a fare, che i Marsi (I millennio a. C. o giù di
lì) entrarono nella Conca del Fucino sottomettendone le popolazioni
preesistenti, come una tribù compatta e guerriera che aveva già il suo bel nome
tribale che incuteva rispetto. Se l’origine toponimica della radice
dell’etnonimo è vera, come a me pare, bisogna cominciare ad abituarsi a
pensare, invece, più che a invasioni e a movimenti migratori improvvisi e
violenti, ad un lento processo, in primo luogo riguardante la formazione dell’originario nucleo insediativo con quel
nome[7] che solo
in una fase posteriore si estenderà come etnonimo a tutti gli altri popoli (che per questo saranno chiamati Marsi), e in
secondo luogo riguardante la lenta espansione verso le zone limitrofe
dell’influenza, del dominio e quindi del nome[8] di un originariamente piccolo e forse oscuro centro
della parte sudorientale dell’alveo del Fucino che, per motivi che è difficile
individuare, era assurto a città egemone della subregione fucense ruotante
intorno al lago, con una diramazione costituita dalla valle Roveto, protesa
verso l’area volsca. Come si sarà
capito, io non seguo la teoria invasionista tradizionale degli indoeuropei in
marcia vittoriosa sui loro cavalli, ma la cosiddetta Teoria della Continuità elaborata da Mario Alinei[9], la
quale è basata sostanzialmente sull’idea di una diffusione ed espansione lenta
e continua delle civiltà piuttosto che su quella di grandi migrazioni ed
occupazioni da parte dei popoli. Ma
questo non è il luogo di parlarne, anche perché non ho la conoscenza
archeologica né la competenza di un Mario Alinei su questi problemi[10].
Un’altra osservazione che mi sembra
avere un notevole peso nel tentativo di dirimere la questione del significato
dell’etnico Marsi, e simile all’altra dei tre Marruvio (per la natura di dato di fatto incontrovertibile) situati
alle rive di uno specchio d’acqua, è la seguente: come mai non si ha un sia pur
minimo sentore, dal materiale epigrafico ed archeologico proveniente dalla
regione dei Marsi, di qualche tempio, sacello, recinto sacro, altare, iscrizione,
ex-voto dedicati al dio Marte, divinità di per sé importante in società che
vivevano in uno stato di quasi continua belligeranza, ma doppiamente importante
per i Marsi che, oltre ad essere bellicosissimi, avrebbero portato impresso nel
loro etnico il segno indelebile e per di più riconoscibilissimo da tutti, anche
dagli analfabeti (che allora dovevano essere i più), di una evidentissima
parentela, sancita dal loro nome, col dio della guerra? Anche in questo caso la risposta, a mio
avviso, non può essere che questa: Marte
non era probabilmente il loro dio della guerra, nonostante il Marte degli
Umbri a Nord e il Mamerte degli Osci a Sud[11]. Forse
ne aveva assunto le funzioni Ercole, dio marziale per eccellenza, col suo
diffusissimo culto panitalico, soprattutto tra le popolazioni dell’Appennino Centrale,
con le sue iscrizioni e con i suoi numerosi e minuscoli bronzetti, spesso
rinvenuti anche nelle campagne del mio paese di Aielli e di altri della Marsica,
dove è attestato il culto di svariate altre divinità.
Ma l’argomento principale a favore
dei sostenitori della presenza, nell’etnonimo marso, del nome del dio Marte è
costituito da un’iscrizione in lamina bronzea detta di Caso Cantovio, dal nome
del comandante morto in battaglia, facente parte di un cinturone militare
offerto alla dea Angizia dai commilitoni rimasti in vita. La lamina, trovata entro l’alveo del Fucino,
è del III sec. a.C. ed è scritta in marso-latino. Vi compare per la prima volta
l’etnico Martses unito come aggettivo
al termine l[ecio]nibus (lat. legionibus).
Esso, secondo gli studiosi, equivarrebbe al lat. Marti-is (abl. plurale dell’agg.
Martius ‘di Marte, appartenente a
Marte’) e quindi l’espressione indicherebbe certamente le legioni marse ma nel contempo evidenzierebbe lo stretto legame
etimologico del nome con quello del lat. Mart-e(m) ‘Marte’. Ora, tutto
sembrerebbe giocare a favore degli studiosi e tutte le porte sembrerebbero chiudersi
alla tesi che vado sostenendo. Ma la
realtà è spesso molto più complessa o più semplice (dipende dai punti di vista)
di quanto si creda e, soprattutto quando si sostiene una tesi ragionevole[12], essa
può riuscire perlomeno a far tentennare paurosamente quelle porte chiuse. Il fatto è che, soprattutto trattandosi di
iscrizione marso-latina in cui appaiono tratti caratteristici della lingua
marsa (di cui per la verità conosciamo ben poco), mi è stato possibile
riscontrare nella forma Martses un
tratto peculiare della lingua marsa, tratto che persiste tuttora nei dialetti
(nonostante il loro attuale annacquamento) e che mi dà la possibilità di
rimettere le cose al loro posto. Ricordo
che da ragazzo, quando avevo già iniziato le elementari, le prime volte che mi
arrivò alle orecchie il nome della Marsica (o, meglio, che feci attenzione a
quel nome) lo sentivo pronunciare, e lo pronunciavo poi io stesso, come Marzëca, e se avessi dovuto scriverlo
l’avrei scritto in quel modo, con la –z-
(affricata sorda), non conoscendo del resto ancora la corrispondente forma
corretta italiana. Questo è un tratto non
solo caratteristico del dialetto marsicano e di molti altri dialetti centro-meridionali
come li conosciamo adesso, ma rimonta
addirittura all’epoca stessa della nostra iscrizione: già da allora i gruppi ns, ls, rs vedono trasformare la
sibilante –s in affricata ts (scritta a volte z)[13].
Da noi una parola come pensiero viene pronunciata
come penziero, l’orso diventa j’urzë,
ecc. Pertanto il digrafo –ts- nella parola Martses dell’iscrizione
suddetta, si appalesa a mio avviso come semplice espediente per scrivere, con
pronuncia dialettale, la parola latina Marsi la quale, comunque, doveva avere una base
di riscontro anche nella più accorta tradizione marsa, nell’ambito della quale
si doveva essere già consapevoli dei, diciamo così, difetti di pronuncia delle
parole, rispetto a quella tradizione, da parte dei Marsi. In
altri termini se i Romani stessi scrissero Marsi
non lo fecero di certo per avvicinarsi alla pronuncia locale del nome ma solo
per mantenere la pronuncia della forma ufficiale e tradizionale di quel nome. Se fossero stati certi che la pronuncia
corrente marsa proveniva in realtà da una forma ufficiale in dentale sorda –t- non
avrebbero trovato difficoltà alcuna nell’usare, al posto di Marsi, la forma Martii tanto più che essa si inseriva alla perfezione nel sistema e
nel lessico della lingua latina. Del
resto una prova di quanto sto dicendo è data dallo stesso termine Angitia, nome ufficiale sia marso che
latino, della nota divinità ma anche del municipio corrispondente, il quale
veniva indicato però anche con una forma più o meno dialettale, Anxa, derivata dall’altra, stando alle
conclusioni degli archeologi. Ci sono
diversi altri casi che dimostrano la meticolosità linguistica dei Romani: nella
cosiddetta Tavola Bantina, il nome della città lucana a loro nota nella forma
originaria Bantia compare più volte nella forma locale in
sibilante Bansa, oggi Banzi, in provincia di Potenza. E’ inutile elencare altri casi simili.
Ora, superati i precedenti ostacoli, ne resta
ancora un altro che riguarda l’origine e la fondazione di Marruvium, città che sembra essere nata ex novo dopo la Guerra Sociale (90-88 a. C.). Scavi condotti non molti anni fa dalla
Soprintendenza Archeologica d’Abruzzo avrebbero attestato, senza ombra di
dubbio (a detta di qualcuno), che non esistono indizi o resti di vicus precedente alla Marruvio storica. Ma
come sarebbe possibile ciò se si ha qualche iscrizione in dialetto marso
proveniente dalla Marruvio del III-II sec. a.C.[14]?
Si tratterebbe di iscrizioni che attestano solo l’esistenza di un santuario degli
dei Novensides? Se fosse comunque
vero, sarebbe un bel problema, perché
potrebbe ridare ossigeno a coloro che sostengono che l’etnico Marsi, la cui esistenza era attestata
già da qualche secolo prima, era precedente, quindi, alla nascita della città,
e che solo in onore del nomen Marsum (stirpe
marsa) l’appellativo di Marsi si sarebbe affiancato all’altro, cioè a Marruvium: di conseguenza gli etimi dei
due termini sarebbero diversi non potendosi essi considerare come due varianti tautologiche
provenienti da una stessa radice. Ma il
fatto che nell’uso epigrafico il termine Marsi
poteva essere impiegato da solo per indicare, senza incertezze, la città di
Marruvium, esclude secondo me l’ipotesi di un uso estensivo, per designare la
nuova città, dell’etnico Marsi già
esistente: sarà stato proprio quest’ultimo, al contrario, ad essersi originato dalla
stessa radice mar- di Marruvium,
come ho più sopra sostenuto. Ma, a
questo punto, bisogna trovare una patente di maggiore antichità, rispetto a
quella della Guerra Sociale, al nome di Marsi
Marruvium, altrimenti tutte le mie tesi rischiano di diventare insostenibili.
Gli eventi, le circostanze, la tradizione di
cui mi accingo a parlare sono immersi abbondantemente nella preistoria e perciò
non possiamo sperare sempre, per essi, in una interpretazione sicuramente e scientificamente
valida; comunque bisogna sprofondare in essa se si vuole trovare una qualche
spiegazione per il nome della nostra città, perché è quasi sempre in epoche
lontane e lontanissime della preistoria che tali nomi si sono originati. E con tutta sincerità non possiamo credere
che nomi come quelli di cui stiamo parlando possano svelare la loro natura se
rimaniamo sul piano recente della Storia.
Conosciamo i versi con cui Virgilio (70 a.C.-
15 d.C.), che praticamente nasceva quando la Marruvium successiva alla Guerra
Sociale era appena sorta, presenta gli inviati marsi alla guerra combattuta,
secondo il mito, dai popoli italici contro il troiano Enea in appoggio di
Turno, re dei Rutuli (Aen. VII, 752
ss.):
Quin et
Marrubia venit de gente sacerdos
Fronde
super galeam, et felici comptus oliva
Archippi regis missu, fortissimus Umbro,
Trad.:‘E anche dalla gente Marrubia venne un
sacerdote/ con l’elmo ornato di una ghirlanda di fecondo ulivo/ inviato dal re
Archippo, il fortissimo Umbrone’. Il
passo continua narrando della morte del fortissimo Umbrone, incantatore e guaritore dai morsi di serpenti, che non
riuscì però a curare la ferita infertagli dalla spada dardania, nonostante le
erbe medicamentose raccolte sui monti della Marsica. Sicchè fu pianto dal bosco della dea Angizia
e dal Fucino. Insomma, nel giro di non molti versi, Virgilio riesce a toccare quasi
tutti i punti salienti del territorio, della religione e della tradizione marsa,
compresa la fama di combattività di questo popolo, rappresentato qui dal fortissimo Umbrone.
Nei tre versi sopra riportati notiamo
che un re di questa città si chiamava Archippo. Con questo a me sembra che Virgilio, che
ripeteva sostanzialmente leggende locali, metta in stretta relazione la storia
di Marruvium con quella relativa ad altro insediamento, certamente molto più
antico, situato, come tutti noi marsicani che ci occupiamo di queste cose (ma
del resto anche gli altri) sappiamo, nella zona, presso Ortucchio, chiamata attualmente
Arciprete. In essa, secondo una
tradizione locale raccolta dai nostri storici del passato, si trovava la città
di Archippe, in corrispondenza di
un’ansa abbastanza ampia, a malapena lambita dalle acque del lago nei periodi
di massima escrescenza[15],
formata dal monte che segnava i limiti sudorientali della stretta fascia perilacustre
del Fucino[16], fra
i paesi di Ortucchio e Trasacco. Nell’area
si trovano resti di manufatti e di insediamenti antichi tali che indussero
l’archeologo Giuseppe Grossi a sistemarvi la città di Anxa, che tutti cercavamo[17]
e nessuno evidentemente trovava, giacchè poi si è capito che essa costituiva,
guarda caso, il secondo nome locale della più nota Angitia, che si trovava però presso Luco, nella parte occidentale
del Lago[18]. Questo
è un bell’esempio della complessità e imprevedibilità delle ricerche di questo
tipo, e dell’umiltà che bisogna avere nell’affrontarle. Il problema principale,
a mio avviso, è costituito dal fatto che noi siamo tendenzialmente portati a
proiettare su uno stesso piano di quasi contemporaneità, eventi e soprattutto
nomi che si sono invece lentamente dipanati e distribuiti lungo un arco di tempo
veramente amplissimo, anche di decine di migliaia di anni, che può raggiungere
anche il Paleolitico. Questi nomi in
genere noi ora li vediamo a contatto di gomito o saldati insieme nella
toponomastica della zona (cosa che ci fa automaticamente ma ingannevolmente
pensare ad una loro effettiva contemporaneità) oppure li incontriamo nelle
saghe e nei miti tramandatici dalla tradizione orale o scritta.
La stretta connesione tra Marruvium e
la zona di Arciprete viene ribadita, a mio avviso, anche dal brano di Plinio[19]
che recita: «… Gellianus auctor est lacu
Fucino haustum Marsorum oppidum Archippe
conditum a Marsya duce Lydorum…». Trad.:‘Gelliano (evidentemente Gneo
Gellio, n.d.t.) ci attesta che la
città marsa di Archippe, fondata da Marsia capo dei Lidi, fu inghiottita dal
lago del Fucino’. Qui non si parla
espressamente di Marruvium o della gente marrubia, come nel testo
virgiliano, ma il trait d’union tra
le due località è costituito dal fatto che Virgilio aveva parlato di Archippo
(una evidente derivazione da Archippe)
come re di quella gente. Inoltre nel
brano di Plinio appare il nome di questo fantomatico re dei Lidi, Marsya[20], il
quale non può intendersi altrimenti, a mio avviso, che come toponimo riferito
proprio all’ansa, la rientranza (difficilmente invasa dalle acque) di cui
abbiamo parlato. E potrebbe essere
proprio questo microtoponimo l’origine prima di quello di Marsi che doveva indicare uno degli insediamenti vetustissimi
succedutisi in quel luogo e che poi rispuntò improvvisamente (?) per la Marruvium storica post-guerra sociale, quando
esso era però già diventato, in fasi successive, prima l’etnonimo degli
abitanti di quell’insediamento di Arciprete e poi l’etnonimo dell’intera
nazione marsa. Sinceramente io non credo
che questo nome antichissimo di Marsi
< Marsya sia potuto spuntare come
fungo al sole dopo la pioggia. Come esso
sia potuto sopravvivere, dall’origine nella lontana preistoria, non credo si
possa spiegare allo stato attuale della ricerca, ma che esso sia effettivamente
sopravvissuto, almeno dal mio punto di vista, non può essere messo in
dubbio. Un oscurissimo e minuscolissimo vicus, magari finito col ritrovarsi nelle
vicinanze del luogo dove sorgerà la futura Marruvium
(perché spessissimo la sede dei paesi si sposta nel corso dei secoli, per i
motivi più vari), potrebbe aver
conservato intatto il nome di un insediamento, ad esempio, che aveva superato
millenni di crescita ed espansione, per poi ridursi a poco. L’ipotesi che esso fosse in realtà un
toponimo del sito dove si impiantò, nel I sec. a.C., la città di Marruvium, non
è accettabile, per il semplice motivo che l’etnico Marsi è attestato almeno dalla fine del IV sec. a.C. e un semplice
e oscuro toponimo, senza una storia a sostenerlo, non avrebbe potuto generare
l’etnico Marsi riguardante l’intera
nazione. Pertanto che Marruvium sia
nato subito dopo la guerra sociale resta tutto da confermare, a mio avviso.
Si sente talora dire che questi
racconti mitici locali siano stati abbelliti o addirittura confezionati ex novo dai Romani che avevano tutto
l’interesse ad ingraziarsi le popolazioni marse da poco conquistate inserendone
la mitologia in quella degli stessi Romani.
La mia convinzione, invece, è che essi al massimo diedero una veste
erudita alle leggende che perduravano tra i Marsi da tempi immemorabili. Forte della mia ricerca linguistica che
perdura da molti anni, modestamente
sento di poter affermare che nel brano di Plinio sopra citato, nulla, in specie
i vari nomi propri, è minimamente pletorico, abbellito, o inventato, nel senso
che c’è sempre dietro di essi una valida motivazione, in genere di valore
toponomastico.
La saga della città di Archippe
ingoiata dal lago trova rispondenza nel fatto che effettivamente esisteva nelle
vicinanze, a metà strada tra la zona di Arciprete e il paese di Ortucchio, e a diretto contatto
con la riva del lago, un villaggio eneolitico che fu sommerso dal Fucino
intorno al IX sec. a. C., come sostenuto da G. Grossi il quale, insieme al
Letta, è propenso a credere che si tratti proprio dell’ Archippe della
tradizione.[21]Io
suppongo che, ammesso che il nome di
questo villaggio preistorico fosse Archippe, esso comunque doveva trarre
origine sempre dalla zona di Arciprete,
da cui si era, diciamo così, trasferito in un periodo in cui le acque del lago
si erano ritirate notevolmente, periodo che va dall’Eneolitico (V millennio a.C.) al Bronzo
finale (II millennio a. C). Come si vede, non mancano i motivi per cui un
insediamento è costretto a spostarsi, naturalmente nei tempi lunghi della
storia dell’uomo dinanzi a cui la nostra breve esistenza si annulla. Per quanto
riguarda il nome Marsya abbiamo già
detto del suo legame con il probabile insediamento d’origine di Marruvium, ma
mette conto soffermarsi ancora un po’ sul suo etimo. A me pare perlomeno sostenibile che il
termine condivida la radice con l’arabo marsa
‘approdo, insenatura, baia’. Naturalmente non bisogna credere che esso sia
stato portato qui bello e confezionato dagli arabi, visto che la sua origine va
a perdersi nella preistoria: si tratta
semplicemente di una radice, con un significato generico iniziale di ‘cavità’
che, nella notte dei tempi della storia delle lingue, ha preso questa o quell’altra
strada arrivando così fino a noi. Ma non
avevamo affermato, all’inizio, che la radice mar- significava ‘lago, mare,’?
Certamente sì, ma avevamo anche precisato che dietro questi concetti si
nasconde anche quello di “cavità”, e un’ansa
nel monte rientra in questa categoria, per cui non vale nemmeno la pena di
stare a precisare se il termine marsa
valesse inizialmente ‘mare, lago’ o ‘cavità, rientranza’ oppure ‘porto,
approdo’. Molti sono i toponimi, ad
esempio, che rispondono al nome di Lago
ma che non hanno mai indicato uno specchio d’acqua, bensì solo una conca, un
avvallamento, ecc. Persino la specificazione
di Marsia come re dei Lidi[22]può
trovare spiegazione nel nome del paese di Lecce nei Marsi (non molto lontano
dalla zona ) che, nell’Elenco dei sussidi caritativi conservato nell’Archivio
della diocesi dei Marsi ad Avezzano, compare scritto nella forma Litio[23],
cosa che potrebbe riportarne l’origine remota all’ansa di Arciprete, indicata
con altra radice, nascosta sotto l’etimo di Lidio. A me pare di poterla individuare nella radice
–let di ingl. in-let ‘insenatura,
rada’, scozzese lithe ‘luogo
riparato, rifugio’[24],
ingl. lead ‘guidare, condurre’, a.
ingl. lith-an ‘andare’, a.
a. ted. līd-an ‘andare,
passare’, ecc. Il concetto di “insenatura” equivarrebbe quindi all’idea di
“passaggio” come avviene per il lat. port-u(m)’porto’ e lat. port-a(m) ‘porta’. Il toponimo
sarà diventato in dialetto Leccë, e
non il prevedibile Lezzë, per
incrocio con it. leccio ‘tipo di
quercia’, dial. leccë (cfr. lat. ilex, ilicis ‘leccio’).
Così stando le cose, anche il toponimo
Arciprete non può che indicare sempre la stessa realtà geomorfica della
rientranza della parete del monte[25]. Il medievale Archi-petra (archi di pietra?) mi sembra una ricostruzione dotta
del volgare Arciprete suggerita dal fatto
che in dialetto prètë (anche prèta) equivale a ‘pietra’. Io invece
preferisco segmentare la voce dialettale Arciprete
in Arcip-rete, prendendo peraltro due piccioni con una fava[26]:
la prima parte fa rinascere infatti, se qualcuno se ne fosse dimenticato, il
nome della città di Archippe mentre
la seconda parte –rete si configura come variante di Rat-ino, il nome di una valletta più piccola adiacente a quella di
Arciprete, dove c’era nel medioevo (ne esitono tuttora i ruderi) una chiesetta
nota come San Rufino in Rat-ino. Salta agli occhi, stando a
quello che abbiamo detto, la coincidenza di questa radice con l’it. rada, ted.Reede ‘rada’, ingl. roads
‘rada’ col quale siamo tornati al significato di movimento e passaggio di
ingl. road ‘strada’ e ingl. ride ‘ cavalcare, andare in bicicletta,
in macchina, ecc.’. A questo punto, in conseguenza della legge tautologica
della composizione delle parole di cui vado parlando nei miei articoli da
parecchio tempo, anche la prima costituente Arcip-
deve avere lo stesso significato della seconda –rete, cioè ‘rada, ansa, ecc.’.
Essa infatti mi pare un ampliamento di lat. arc-u(m) ‘arco’, lat. arc-a(m) ‘arca, cassa, cella’, gr. árkos‘riparo,
difesa’, tutti significati che ruotano intorno a quello di ‘cavità’. L’ampliamento in –ip(p), inizialmente una vera
e propria costituente della parola come l’altra, pare simile a quello
che si ha, a mio avviso, nel gr. mars-ípi-on, mars-ípp-on, mars-ýpp-on ’borsa,sacco’(una
cavità,dunque) e nel lat. mars-upi-um
‘borsa, sacco’ il quale ultimo assuona fortemente con la forma *Mars-uvi-um
che abbiamo supposta all’origine di quella di Marr-uvi-um. E così il cerchio si chiude con buone possibilità — almeno si
spera— di aver colpito nel segno per l’etimo di Marsi Marruvium, cosa che
comporta anche una conferma della Teoria della Continuità. Ma una voce fuori
campo (chi sarà mai!) mi percuote gli orecchi: Look who’s talking! (Senti chi parla!).
A proposito del toponimo Arciprete summenzionato faccio notare
che oggi 29 maggio 2020, ho letto di un Fusse
d’Arceprète ‘Fosso d’Arciprete’ (le
/e/ non accentate sono mute) in quel di Opi-Aq.
Un “fosso” è appunto una cavità o rientranza
nel terreno.
Forti Fortunae deae
gratias ago
Trad.: ‘Ringrazio la dea Fortuna’.
Come si vede, anche questo teonimo era formato da due appellativi affiancati
corradicali Fors Fortuna, come nel
caso di Marsi Marruvium. Il lat. fort-un-a(m) ‘fortuna’ è ampliamento infatti
della radice fort- del sost. lat. for-s, fort-is ‘caso,
fortuna’ da distinguere da quella dell’agg. lat. fort-is,e ‘forte, robusto, vigoroso’.
[1]
Anche altri popoli, del resto, come i vicini ed affini Sanniti, ad esempio, erano noti per spirito combattivo e
resistenza.
[2]
Appiano (95 circa- 195 circa d. C.), scrittore egiziano, visse a Roma solo per
brevi periodi. Scrisse una Storia Romana
giunta a noi lacunosa.Da essa provengono le espressioni che orgogliosamente
ogni marsicano ripete in italiano, magari mutndone le parole, e che in latino
suonano così: Est enim haec gens
pugnacissima. Ferunt numquam alias
de his triumphum visum. Nam ad id temporis nec sine Marsis, nec de Marsis
triumphus fuerat.Trad.:
‘Questo popolo fu bellicosissimo. Non
si ha notizia, del resto, di un trionfo riportato su di esso. In effetti, fino al tempo di cui ci stiamo
occupando (quello della guerra sociale, n.d.t.),
non si era mai celebrato un trionfo né sui Marsi né senza l’ausilio di essi’.
L’autore vuole sottolineare il fatto che tutti i trionfi celebrati prima della data suddetta da parte
di Roma erano stati possibili grazie anche alla presenza di truppe marse
nell’esercito romano. Il trionfo (sfilata solenne dell’esercito
fino al tempio di Giove in Campidoglio) a Roma veniva concesso al generale vincitore in caso di una
importante vittoria sul nemico che era
stato magari completamente sbaragliato e costretto ad una resa incondizionata.
[3] Cfr. C.
Letta- S. D’Amato, Epigrafia della
regione dei Marsi,Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, p. 247, 291, 308.
[4]Cesare
Letta, dell’università di Pisa, è invece del parere che le forme «Marsi Antinum e Marsi Anxates sono solo suddivisioni amministrative successive di
un’unità tribale originariamente riferita in blocco alla sola Marruvium» (cfr. Epigr. Regione dei Marsi,cit.,
p.308). Pesa, su questo giudizio, il convincimento che i Marsi avevano il loro
nome etnico già prima di stanziarsi nella Conca del Fucino. Il Letta, studioso
serio, puntuale, concreto e limpido quant’altri mai, mi pare che in questo caso
pecchi di una punta d’astrattezza e sembra riflettere, a mio modestissimo
avviso, solo la situazione come si era stabilizzata in epoca storica. Perché Marruvium
avrebbe avuto il diritto, all’origine, di rappresentare tutti i Marsi? Nacque forse già come capoluogo della
regione? Se il Marsi epigrafico,
equivalente a Marruvium, fosse provenuto dall’etnico Marsi già riferito a tutta la nazione, perché mai quelli del
municipio di Antino e di Anxa non avrebbero dovuto né potuto fregiarsi di quel
solo nome, riferito alle loro rispettive città come invece succedeva per
Marruvium? La spiegazione più naturale, che risolve ogni problema, a me pare
essere questa: solo quando il nome Marsi,
partito come toponimo, divenne prima etnico della città sorta in quel luogo e
poi di tutta la nazione marsa, gli Antinati e gli Anxatini poterono aggiungere
a buon diritto ai loro antichi nomi quello nuovo di Marsi, anche per sottolineare la loro appartenenza alla raggiunta
unità di tutti i Marsi.
[5]
Marso sarebbe un figlio di Circe,
mentre Marro un eroe non meglio
identificato: al di là delle variopinte precisazioni leggendarie io credo che
sussista la verità che questi nomi personali non erano che varianti riconducibili
al nome del primitivo insediamento di Marruvio.
[6]
Cfr. W. Cianciusi, Profilo di storia
linguistica della Marsica, Banca Popolare della Marsica, Avezzano-Aq 1988,
p. 86 s. v. Marruvium. Vi sono riferite molte delle notizie da me riportate
in questo e nel brano precedente che egli prende, a sua volta, dal libro I
Marsi di Cesare Letta, il quale è
certo che il nome dei Marsi deriva da quello del dio Marte.
[7] Si
trattava, dunque, di un poleonimo
(nome di città) di origine toponimica, come spesso avviene.
[8]
L’espandersi di un etnico è fenomeno riscontrabile pressochè dappertutto: cfr.
gli Itali dal nome di una tribù dell’attuale
Calabria; gli Héllenes ‘ Elleni’ dal
nome di una tribù della Tessaglia; i Greci
dal nome di una tribù dell’Epiro; i Francesi dall’etnico dei Franchi; gli Inglesi dall’etnico degli Angli; gli Svizzeri dal cantone di Schwytz; i Tedeschi (ted. Deutsche) dall’etnico
dei Teutones. Essi sono chiamati Allemands dai Francesi, dall’etnico
degli Alamanni. Questi nomi riguardano
grandi entità geografiche, ma allo stesso modo i nomi delle singole regioni e
subregioni come quella marsicana sono dovuti a simili meccanismi di espansione
da un piccolo e piccolissimo centro originario.
[9] Cfr. M.
Alinei, Origini delle lingue d’Europa,
I.La Teoria della Continuità, il
Mulino, Bologna 1996.
[10]Anche
l’archeologo G. Grossi (cfr. Aa. Vv.,Storia
di Ortucchio, Ediz. Dell’Urbe, Roma 1985, pp.96-97) insiste con forza sulla
nascita e sviluppo autoctono della cultura marsa, rigettando l’ipotesi di
un’invasione italica dalla Sabina.
[11]
D’altronde non si hanno attestazioni, negli antichi scrittori, del dio Marte
venerato dai Marsi. Erano ben noti, invece, i soldati mercenari italici
chiamati Mamertini (figli di
Mamerte), in gran parte campani, che furono arruolati dal tiranno Agatocle di
Siracusa e che, alla sua morte, si impadronirono della città di Messina. Vi
rimasero per una ventina di anni, e giocarono
una parte importante nello scoppio della Prima Guerra Punica (264 -243 a. C).
[12]
Con questo non voglio assolutamente accaparrarmi preventivamente e
presuntuosamente la verità, ma solo rilevare che normalmente il giusto e il
vero riescono, prima o poi, a venire a galla o perlomeno hanno buone possibilità
di emergere appunto perché forti della loro condizione di realtà razionalmente
verificabile.
[13]
Cfr. Aa. Vv., Popoli e Civiltà dell’Italia Antica,VI, Biblioteca di Storia
Patria, Roma 1978, p. 64.
[14] Cfr.
C.Letta-S. D’Amato, Epigrafia della
regione dei Marsi , Cisalpino –Goliardica, Milano,1975, n.36, pp. 43 e
segg. Cfr. anche Vetter, 224-5.
[15] Il
Fucino, essendo un lago senza emissario, era soggetto a variazioni di livello
delle acque.
[16]
Dell’etimo di questo nome parleremo in altra occasione.
[17]Anch’io,
modesto letterato allora armato più che altro di solo amore per il mio
paese, mi ero convinto che la
introvabile città avesse dovuto occupare
uno spazio nel vasto pendio compreso tra Aielli Alto, Aielli Stazione e
Cerchio. Scrissi un articolo in
proposito apparso una trentina di anni fa sulla rivista Marsica Domani
[18] La questione della ubicazione di Anxa fu risolta dal Durante già nel
1978, e successivamente ripresa da Cesare Letta e dal Prosdocimi.
[19] Plinio,
Naturalis
historia,III,108. La notizia,
ripresa successivamente dal Solino,arrivava a Plinio (I sec. d.C.) dall’annalista
Gneo Gellio (II sec. a. C.) della cui opera restano solo frammenti.
[20] Da non
confondere col più noto satiro Marsia originario della Frigia, inventore del
doppio flauto, che osò sfidare Apollo in una gara musicale, rimanendo
miseramente sconfitto. Per punizione fu scorticato vivo.
[21]
Cfr.Aa.Vv., Storia di Ortucchio, cit.,
pp. 71-76.
[22]
Significativamente, Il re Marsia, che inviò Megale in Sabina ad insegnare a
quel popolo l’arte degli áuguri,
è detto frigio da parecchie
fonti antiche, come il satiro dallo stesso nome, e non lidio, ragion per cui è ancora più probabile che questo appellativo
provenga dal toponimo.
[23]
Cfr. anche Andrea Di Pietro, Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei
Marsi,Ristampa anastatica dell’edizione del 1869, Studio Adelmo Polla,
Avezzano, p.280. La forma Lecce ha
messo in moto, presso i nostri storici locali dei secoli passati a cominciare
da Paolo Marso (XVI sec.), la supposizione che il nome fosse di ascendenza
licia, cioè di una regione dell’Asia Minore, la Licia, appunto, non lontana del
resto dalla Lidia. E’ bello fantasticare,
ma è certamente molto istruttivo osservare che queste fantasticherie non sono
mai completamente gratuite: esse partono sempre da una parola vera, reale,
spesso ben ancorata al terreno che le ha suggerite facendo distogliere però l’attenzione
da sé: questa consapevolezza ci permette,
spesso, di rintracciarla e di scoprirne, con l’aiuto dei toponimi, il vero significato
d’origine una volta ripulita dalle incrostazioni e suggestioni depositate su di
essa dal mito e dagli eventuali incroci con altre parole. Si conosce anche un pittore chiamato Andrea De Litio (o Delitio, Delisio) nato – sembra- a
Lecce nei Marsi, e uno dei maggiori esponenti dell’arte del Quattrocento italiano
nel centromeridione. Meraviglia il fatto
che, tra le svariate etimologie proposte per questo nome, nessuna, che io
sappia, accenna a questa forma Litio
che, come lectio difficilior,
potrebbe essere quella giusta. Tutti si
lasciano ingannare dal suono del nome della Lecce attuale e al massimo
presuppongono una base in gutturale sorda lec-,
leuc-e simili.
[24]
Andrea Di Pietro (in Agglom., cit.,
p.273) dice espressamente, parlando della zona di Arciprete, che «era
il luogo sicuro, dove in caso di ostilità che potevano aversi in Marruvio, si
mettevano in salvo gli antichissimi Re Marsi». E così anche il Di Pietro sottolinea l’idea di
“rifugio, riparo” la quale probabilmente gli derivava più che dalla
conformazione effettiva del luogo, da una tradizione antichissima scaturita dai
significati dei nomi con cui quel luogo era stato indicato nel lontano passato.
[25]
Di Arciprete, inteso in questo modo,
avevo già parlato nella mia opera Princìpi
di una nuova linguistica, Edizioni dell’Urbe, Roma 1992, p. 139. In essa (pp.135 e ss.) avevo affrontato anche
la questione dell’etnico Marsi, inteso anche lì come originatosi
da un toponimo, che però avevo creduto indicasse l’idea di “colle” (speculare a
quella di “valle”) e si riferisse alla lieve altura su cui si stende almeno la
parte antica dell’odierno San Benedetto dei Marsi.
[26]
Per chi si intende di teorie questa capacità di rintracciare e collegare cose
diverse dovrebbe essere un indizio dell’affidabilità del mio ragionamento, che
del resto non ha nulla di
trascendentale. A proposito di “piccioni” essi potrebbero essere addirittura tre
se vi aggiungiamo Reto (lat. Rhoetus, gr.Rhoîtos oppure Rhȇtos),
leggendario re dei Marruvini, nominato anche da Virgilio (Aen., X, 388).
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