A proposito dei
nomi con cui venivano designati i diversi popoli della nazione marsa, si
continua talora ad includere in essa anche il popolo dei Fucensi (o Fucenti) sulla
base dell’elenco dei municipi marsi redatto, nel III libro della sua Naturalis Historia, da Plinio che, come sappiamo, fu presente
all’inaugurazione dell’emissario del lago Fucino, fatto costruire, con grande
dispendio di energie e danaro, dall’imperatore Claudio (metà del I sec. d. C.
circa). L’elenco è il seguente: Marsorum
Anxatini A(n)tinates Fucentes Lucenses Marruvini. Da una lettura veloce e
disinvolta si ricaverebbero 5 municipi marsi: quello degli Anxatini, degli A(n)tinati,
dei Fucenti,
dei Lucensi, e quello dei Marruvini, che costituiva il capoluogo
ed occupava gran parte dell’area fucense.
Ma il noto archeologo Cesare Letta dell’università di Pisa, ha mostrato,
con argomentazioni chiare e stringenti, che l’aggettivo Fucentes, posto subito dopo A(n)tinates,
è in realtà una glossa aggiunta dallo stesso Plinio, tesa a chiarire il senso
di A(n)tinates da lui erroneamente
scritto Atinates, anche perché, come
solitamente capita quando si viene a conoscenza, soprattutto per via orale, di
nuovi nomi, tendiamo inavvertitamente ad adattarli ai cliché di quelli a noi
già noti, e qui deve aver giocato in tal senso l’etnico Atinates della più nota città di Atina dei Volsci, continuata tuttora nella Atina-Fr della Val
Comino.[1] Il municipio degli Antinati (da Antinum) rivive nel paese attuale di
Civita D’Antino nella valle Roveto, quello dei Lucensi nel paese di Luco dei
Marsi, quello dei Marruvini (da Marruvium)
nel paese di San Benedetto dei Marsi.
L’ubicazione del municipio degli Anxatini, che ha dato filo da torcere
agli studiosi, pare debba coincidere con quella di Angitia, il più importante
centro religioso dei Marsi, non lontano dal paese di Luco. La forma Anxa, nome del centro, sarebbe variante
italica di Angitia.
Di Fucensi e
Lucensi parla anche l’abate trasaccano Muzio Febonio (1597-1663) nella sua famosa
Historia Marsorum che ha visto
recentemente una nuova edizione con traduzione in italiano, per la quale si
sono mobilitati, nel corso di vari decenni, bei nomi del panorama culturale
marsicano, a cominciare da Giulio Butticci, Ugo Maria Palanza, Vittoriano
Esposito, Pietro Smarrelli, Angelo Melchiorre[2]. Le
numerose epigrafi citate dal Febonio sono state interpretate dall’insigne archeologo
Cesare Letta dell’università di Pisa. E’
veramente una bella opera che riempie di gioia chiunque abbia un minimo di amor
di patria e senso dell’antico, e che può essere fruita da un pubblico vasto ora
che essa offre un’agevole traduzione in italiano, corredata di abbondanti note.
Precedentemente solo gli studiosi potevano accostarsi ad essa, scritta peraltro
in un latino poco attraente, piuttosto ostico, spesso tortuoso e talora oscuro,
a tal punto che più di uno tra gli studiosi sospetta che debba trattarsi in effetti
della minuta stesa dal Febonio e pubblicata, senza essere rivista e con nuove
aggiunte, dopo la sua morte. Al di là
dei difetti che un’opera di Storia scritta in pieno Seicento[3], il
secolo delle sfarzosità incontrollate e della stucchevole sovrabbondanza di
ornato, può esibire, resta comunque il fatto che essa contiene numerose
epigrafi ed informazioni di varia natura che possono aiutare a gettare un po’
di luce su un passato che in genere ne è avaro.
Il breve passo
della Historia in cui si accenna alla
questione dei Lucensi e Fucensi costituisce proprio l’incipit del cap. IV , libro III.
Ne do qui una
proposta di traduzione che però si discosta di parecchio da quella di Palanza,
il quale mi pare abbia inspiegabilmente forzato il testo in alcuni punti, in
modo tale che le due versioni, la mia e la sua, si ritrovano a percorrere strade
divergenti.
Testo originale tratto dalla Historia Marsorum [4] di
Muzio Febonio:
Quos Plinius Fucenses, Lucensesque appellat, hos uno vocabulo Cluverius
complectitur, & a Luco oppido denominationem sumpsisse, unumque populum sub
utraque appellatione denunciatum fuisse censet.
Quod rerum praesentium status confirmat, quo inspecto Lucenses Fucenses
appellamus, cum uterque populus in separata parte regionis insederit, & ut
nomine sic incolatu, origineque diversi, sed fatiscente utroque in nuperrimo
oppido ad lacus ripam alterius memoria renovatur, cuius sedem circa Angitiam
sylvam fuisse, non dubitatur.
Mia proposta di traduzione:
Quei popoli che Plinio chiama distintamente Fucensi e Lucensi, il
Cluverio li pone sotto un unico nome (Lucensi), che pensa derivi da quello
della città di Luco. Secondo lui, in altri termini, un unico popolo avrebbe
avuto, nell’antichità, due denominazioni diverse. Il che viene confermato dall’attuale stato
delle cose: noi ora i Fucensi li chiamiamo Lucensi,[5] benchè questi due
popoli, a mio avviso, abbiano avuto in antico nomi, sedi ed origini distinte
nella regione marsa. Svanita nel corso
dei secoli ogni loro separata presenza, ai nostri giorni solo uno di essi vede perdurare
la propria memoria nel nome, appunto, dell’attuale città di Luco, che si trova sulla
riva del lago. E nessuno può mettere in
dubbio che la sede di questo popolo fosse situata nelle immediate adiacenze di
quella che fu la selva d’Angizia.
Traduzione del brano da parte di
Palanza:
Quei popoli che Plinio chiama Fucensi e Lucensi, Cluverio indica con un
solo nome, che crede derivato dalla città di Luco;insomma, con un solo nome,
crede siano indicati entrambi i popoli. La situazione attuale del resto lo
conferma:infatti, riflettendoci su, notiamo che noi chiamiamo Lucensi o Fucensi
entrambi i popoli, che,diversi di nome, di regione ed inizialmente insediati in
due parti distinte della regione, trovandosi infine a disagio nelle cadenti
località accennate, torniamo ad aver memoria dell’uno e dell’altro allorchè si
ritrovarono uniti sulla riva del lago, avendo posto la loro residenza intorno
alla selva d’Angizia.
Questa esposizione della
traduzione del compianto prof. Ugo Maria Palanza, che per qualche anno è stato
anche mio preside al liceo classico A.Torlonia,
non vuole minimamente essere un tentativo di gettare cattiva luce sul letterato
e critico di chiara fama, la cui vasta e pregevole opera non sarà certamente
scalfita dalle vagabonde osservazioni di un, diciamo così, intemperante suo
discepolo. Egli sa bene, il discepolo,
che tutti possiamo sbagliare per un’infinità di motivi, e che anche la sua
proposta di traduzione potrebbe essere messa in dubbio da qualcuno: è quello
che del resto egli stesso neppure disdegnerebbe, anche se accusando una punta
d’amarezza, di sentirsi eventualmente rinfacciare la sua traduzione da qualche cultore della
lingua latina e della storia dei Marsi, il cui parere gli sarà anzi sempre graditissimo,
di qualunque tenore esso sia. Perché il suo
indefettibile amore va alla Verità, costi quel che costi.
[1] Cfr. Cesare Letta- Sandro
D’Amato, Epigrafia della regione dei
Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano 1975, p. 298 e seg.
[2] Precedentemente l’opera
del Febonio era stata tradotta e pubblicata
a scadenze diverse, per ciascuno dei tre libri di cui si compone. Un particolare riconoscimento va anche alla
Fondazione Carispaq (Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila) che ha
reso possibile la realizzazione dell’opera.
[3] Certamente non possiamo
paragonare, sotto il profilo del vigore dell’ingegno e della tempra di storico,
l’opera del Febonio a quella più o meno coeva di Paolo Sarpi, intitolata Soria del Concilio di Trento.
[4] Cfr. Muzio Febonio, Historiae Marsorum libri tres, riproduz.
anastatica dell’edizione di Napoli, 1678 (a cura di Walter Capezzali e Pietro
Smarrelli), Fondazione Cassa di Risparmio dell’Aquila, L’Aquila 2012.
[5]
L’autore vuole forse dire più precisamente che col nome di Lucensi, che è l’unico
rimasto, noi oggi in realtà indichiamo quello che fu il popolo dei Fucensi in
riva al lago, il cui nome è scomparso. Perché
in verità il Febonio credeva che il bosco d’Angizia corrispondesse a quello che
ai suoi tempi era indicato come selva d’Agn-ano, il cui nome richiamava,
per una certa assonanza, quello di Angizia,
che effettivamente poteva anche essere pronunciato volgarmente e metateticamente
*Agn-izia.
Secondo lui questa selva era situata presso Cappelle, a sette miglia da
Luco, all’estremità del monte Salviano, e si estendeva per ampio tratto nei
piani Palentini, fino a raggiungere probabilmente il paese di Cese. Quindi gli antichi Lucensi, nell’idea di
Febonio, dovevano occuparne il territorio circostante (come del resto afferma
nella frase finale di questo brano) che non combaciava però con quello di Luco
del suo tempo e di oggi. Per il nome di
Luco, che a mio parere non aveva a che
fare, nelle sue più remote origini, col significato di lat. lucu(m)’bosco sacro’, rimando
all’articolo La dea Angizia, il suo bosco sacro e l’inghiottitoio della Petogna presente
nel mio blog (novembre 2010).
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