I linguisti del presente e del passato mi hanno sempre insegnato, senza che udissi peraltro mai una voce fuori del coro, che il verbo ted. bieg-en ‘piegare, curvare’ corrisponde al verbo latino fug-ere ‘fuggire’, e questo perché forse gli etimologi che hanno fatto scuola supponevano che la voce latina si riferisse al ripiegare dei soldati dinanzi ai nemici vincitori e, inoltre, essa rispondeva esattamente, secondo lo schema da essi elaborato, ai diversi trattamenti rispettivamente riservati, nelle lingue germaniche e nel latino, alla labiale sonora aspirata indoeuropea –bh-[1] in posizione iniziale. La quale, in quelle, perdeva semplicemente l’aspirazione conservando la sonorità, mentre in latino si trasformava in spirante sorda –f- perdendo sia l’aspirazione che la sonorità. Un forte indizio, invece, che le cose in questo caso non quadravano era, secondo me, rappresentato già dal fatto che in latino il significato di fug-ere ‘fuggire’ non riguardava solo il ripiegamento di truppe in battaglia, ma si applicava a tutti i casi in cui le persone, per i motivi più diversi, se la danno a gambe, anche senza invertire la direzione del movimento. Il ragionamento sarebbe stato senz’altro credibile se la radice avesse espresso in qualche sia pur raro caso l’idea di “piegare” che in latino era però espressa da diversi verbi come plic-are e composti, flect-ere e composti, curv-are e composti, minimamente adatti, come del resto è logico, ad esprimere un’idea di “fuga”. Si sarebbe dovuto riflettere, allora, che il fuggire in effetti è sostanzialmente diverso dal ripiegare e che quindi era una forzatura voler far rientrare il lat. fug-ere ‘fuggire’ nel campo semantico del piegare, seguendo formalmente lo schema preconfezionato delle corrispondenze tra le varie lingue indoariane. Si può in effetti ripiegare anche in ordine, senza darsi ad una fuga precipitosa, come avviene, ad esempio, in una manovra di ripiegamento, non necessariamente veloce. Resta comunque la possibilità teorica che il significato generico di fondo della radice fug- generasse anche il significato di ‘piega, curva’ come si può cominciare ad intravedere in termini come fua <*fuga ‘tana (di volpe, coniglio)’ del dialetto di Zagarolo-Rm, come fua <*fuga ‘avvallamento del terreno’ del dialetto di Venere-Aq, e foca ‘tana’ del dialetto di Collelongo-Aq.
Ora, a parte le precedenti riflessioni che potrebbero
essere messe in dubbio ed invalidate, c’è del materiale più concreto a
sostenere il mio pensiero. Nel dialetto molisano di Chiauci-Is, si
incontra, infatti, l’apparentemente strana parola ammëccàtë[2] ‘ricurvo, inclinato’ che è
senz’altro partic. pass. di un verbo corrispondente alla voce abruzzese
(presente anche nei dialetti campani) ammuccà[3] ‘versare un liquido da un
recipiente all’altro, (rifl.) trangugiare, tracannare, (rifl.) piegarsi
pesantemente, curvarsi, cadere,
tramontare’. Tutti significati, compreso quello di
‘versare’, facenti capo a quello fondamentale di
‘piegare, curvare, inclinare’[4]. Nel dialetto del mio paese di
Aielli, e di altri paesi della Marsica, la voce corrispondente è mmuccà,
mmoccà col significato, ad Aielli, del solo ‘inclinarsi, capovolgersi
(rifl.)’ detto di recipiente, a Luco dei Marsi anche col sign. di ‘imboccare
(raro), versare’.[5] Già in passato, da quando ero
studente liceale, avevo cercato l’etimo di aiellese mmuccà(sse) ‘inclinarsi’
ma non ero riuscito ad andare oltre l’idea che si trattasse di un ‘capovolgersi
di un recipiente con la bocca all’ingiù’ da un
precedente *im-buccà con assimilazione della labiale –b- alla
liquida –m-. Ma ora sappiamo che queste etimologie,
solitamente accettate dai linguisti, lasciano purtroppo il tempo che trovano:
in effetti mi ronza continuamente nelle orecchie l’insegnamento saussuriano,
che si rivela sempre più verace, secondo cui è vano credere che una parola sia
nata ad esprimere il concetto (specifico) di cui si carica, fortuitamente, solo
nel corso della sua generalmente lunga esistenza[6]. Qui infatti la bocca (lat. buccam)
non c’entra affatto e si avvalora invece sempre più l’ipotesi che si tratti di
radice similissima a quella del ted. bieg-en (imperf. bog,
partic. pass. ge-bog-en) ‘piegare’ di cui
sopra! La quale si presenta in molte forme nell’area germanica:
ted. beug-en ‘piegare, curvare’, ingl. bow ‘arco’,
ted. Bog-en ‘arco’, ingl. to bow ‘abbassare,
piegare,inchinarsi’, dan. buk ‘inchino’, dan. bue ‘arco’,
dan. bu-et ‘curvo’, dan. bøj-et ‘curvo’, bøj-e ‘curvare’,
sved. böja ’piegare’, sved. vecka ‘piegare’,
ol. buig-en ‘piegare’, ecc. La radice
riappare ancora nell’abruzzese a-bbucc-arsë < *ad-bucc-arsë ‘allettarsi,
piegarsi’ detto di biade o fieno.[7]. In questo contesto va inserito anche il sicil. a-bbucc-ari 'versare,
inclinare, volgersi verso' che pertanto non può derivare da gr. apo-khé-o 'effondere,
versare', come taluno pensa. Lo spagn. a-boc-ar 'travasare,
avvicinare, accostare, rifl. riunirsi' conferma la vasta diffusione
territoriale di questa radice, oltre a dare l'input per capire gli it. abboccamento, abboccarsi nel
senso di 'incontro,incontrarsi': l'idea di "avvicinamento" può essere
una specializzazione di quella di "inclinazione" o "volgersi,
andare verso" che si ritrova anche nella radice vik- di
lat. vic-inu(m)'vicino' (cfr. il Pianigiani in rete,
s. v. vico). Quest'ultimo, infatti, non va inteso come 'abitante nel medesimo
borgo o vicolo' secondo il pensiero comune dei linguisti, ma come 'colui
che è rivolto verso qualcuno, che lo preme da presso, che gli
è accosto, adiacente'.
A questo punto, se solo ci fermiamo un po’ a
riflettere, si verificano, analizzando questi termini, cose precedentemente
inimmaginabili: l’it. imboccare, ad esempio, nel senso di ‘mettere
il cibo in bocca ad un bambino o malato’ quasi sicuramente non deriva
direttamente dal termine bocca ma è pochissimo diverso
dall’abruzzese ammuccà di cui sopra nel sign. di ‘versare, far
trangugiare, inghiottire’ la cui radice indicava, per la verità, solo il
‘piegare, rovesciare’. Ma, incrociatasi col termine bocca, era
inevitabile che essa si rifacesse una verginità inducendoci così a credere di
essere stata creata da poco e su due piedi mediante la parola bocca,
quasi fosse un ‘mettere in bocca’. La stessa cosa vale per
l’it. imbucare il cui significato d’origine evidentemente non
era ‘mettere, mandare in buca’ ma semplicemette ‘mettere, inserire, versare’. La buca,
e forse anche la bocca, potrebbero entrarci solo nel senso più
generico estraibile dal concetto di “curva, ripiegamento”, cioè nel senso di
‘cavità, rotondità’. E così anche l’it. im-becc-are ,
sia nel senso di ‘inserire del cibo nel becco di un uccellino’ sia in quello
figurato di ‘suggerire’, ugualmente non è nato dal significato di becco ma
sempre dallo stesso concetto di ‘versare’.
Seguitando per questa strada vediamo
altri verbi mutare sostanzialmente dinanzi ai nostri occhi come, ad sempio, i
verbi composti da questa stessa radice preceduta dal prefisso ri-, variante
di re-, indicante ripetizione, movimento in senso inverso,
ecc. Come hanno fatto, pertanto, finora gli etimologi a considerare
l’it. rim-bocc-are un parto della parola bocca io
proprio non riesco a capirlo. Forse essi hanno pensato che l’arrotolare o il
ripiegare le estremità di un lenzuolo o di un indumento riguardasse,
all’inizio, solo i bordi dell’apertura delle maniche, da considerare
come una bocca. Ma un significato arcaico del verbo è ‘ripiegare a
terra i virgulti delle siepi’ -con cui ci riavviciniamo all’abruzzese di cui
sopra, cioè a-bbucc-arsë ’ripiegarsi (delle biade)’-
oppure ‘ rivoltare sopra i semi la terra smossa’, oltre che
‘rabboccare’ col quale si ritorna al concetto di “versare” col valore aggiunto
di ‘fino alla bocca, all’orlo’.[8] Nel dialetto di Avezzano-Aq,
come in quello di Aielli-Aq, il verbo ra-bboccà indicava il fumo del camino
che, per motivi vari, tornava indietro inondando la cucina. Quale potrebbe essere,
allora, il significato profondo di it. rim-becc-are, ad
esempio, se non quello di it. re-plic-are, il quale
etimologicamente indica appunto solo un ‘ripiegare (lat. plic-are ’piegare’)’? Naturalmente
il suo incrocio con becco, solitamente acuminato, ha aggiunto al
significato iniziale una certa forza pungente. Ma un
probabile incrocio con la radice simile di lat. veh-ere 'muoversi'
,ted. Weg 'via' (simile all'altra di lat. vic-inum 'vicino'
di cui sopra) è dietro l'angolo, sicchè non può escludersi a priori un
significato iniziale di 'rinviare, rintuzzare', il che fa comunque lo stesso.
L’aggettivo lat. im-becill-e(m) ‘debole,
sciocco’ che sin dall’antichità è stato collegato al lat. bac-ulu(m) ‘bastone’,
lat. bac-illu(m) ‘bastoncino’, supponendosi un
po’ artificiosamente per l’aggettivo il significato di ‘non rigido,
debole’ potrebbe, invece, più acconciamente rivelarsi debitore della radice di
cui si parla, preceduta dal prefisso in-, non privativo ma
intensivo, e col significato primario di ‘incurvato, cadente,
vacillante’. Credo, inoltre, che la sua base sia quella della
variante ingl. weak ‘debole’, a. ingl. vac ‘pieghevole,
molle, debole’, a.a.ted. weih ‘cedevole, molle’, e dello
stesso it./lat. vac-ill-are. Infine il toscano bèco ‘stupido’,
che in umbro vale ‘losco, miope’, dovrebbe tagliare la testa al
toro. Il significato umbro deve essersi evoluto da quello di
‘storto, curvo’ applicato al modo di guardare dei guerci. Oppure
dietro i due significati bisogna vedere direttamente il significato di
lat. im-bec-ille(m) ‘debole’ o ingl. weak ‘debole’: debole (di
comprendonio) e debole (d’occhi). Nei dialetti laziali ricorre
il termine becal-ino nel significato di ‘miope’.
A Sermugnano-Vt si ha sia becal-ino ‘miope’
sia beco ‘cieco’[9]. A proposito, e l’aggettivo it. bieco dove
lo mettiamo? A me esso sembra dovuto ad un incrocio del precedente bèco con
la radice di pieg-are < lat. plic-are.[10]. Il sardo abbacchiddare 'camminare
col bastone, essere convalescente' merita qualche riflessione: esso non
deriva, come pensa invece Max Wagner e tutti gli altri, da a + bacchiddu 'bastone'(lat. bacillum=bastone)
ma dal lat. vacill-are 'vacillare,
tentennare'. Chi è in convalescenza è certamente malfermo
ma comunque può portare o meno il bastone, non ne è un bisogno imprescindibile.
Naturalmente l'idea di "bastone" si inserisce nel verbo generando
l'altro significato di 'camminare col bastone'.
Lo stesso verbo marinaresco ammainare considerato
proveniente da un lat. *in-vagin-are ‘mettere nel fodero
(cfr. lat.vagin-am)’ con pronuncia napoletana, dovrebbe
essere invece inteso come un ‘arrotolare’ o anche come un ‘ripiegare verso il
basso, abbassare’, perché esso rimane, a mio avviso, sempre nell’ambito di
questa radice per ‘piegare, ripiegare’. Il significato di ‘mettere nel fodero,
inguainare’ si è sviluppato in conseguenza dell’incrocio con lat. vagin-a(m) ‘fodero,
involucro, guaina’, termine che del resto sfrutta sempre la medesima radice.[11] La voce abruzzese bacul-arsë, bacul-irsë ‘indebolirsi’[12] conferma, poi, la mia supposizione
del prefisso in- non privativo per il lat. im-becill-e(m).
E’
proprio necessario, allora, collegare la radice di questi verbi al lat. fug-ere ‘fuggire’
e al gr. pheúg-ein ‘fuggire’ e commettere così
quello che a me pare un grande errore gravido di conseguenze?
Oggi 28 aprile 2014,
scopro nel dialetto di Borgorose-Ri (13), paese confinante con la Marsica, le
voci abboccà 'spingere' e abboccàtu 'sbilanciato,
spinto' che fanno capire che dietro il significato di 'piegare, versare' da me
supposto per la radice bok-, bog-. si nascondeva
l'altro più generico di 'spingere'. Il traboccare della
bilancia fa parte del gruppo.
(13) cfr. sito web: www.prolocoborgorose.it/TuttoPaesi/Tutto Torano/3.VOCABOLARIO web site.htm.
LETTERA APERTA
RispondiEliminaCaro Pietro,
Dopo aver seguito puntualmente il tuo tragitto poetico-linguistico, mi permetto di offrirti alcune mie riflessioni, tanto per concludere il ciclo degli scambi epistolari iniziati molti anni fa. Mentre la nostra amicizia continuerà ininterrotta, questo mio intervento sarà l’omega dei miei giudizi offertiti da quando, anni fa, ti consigliai di puntualizzare le tue idee linguistiche in un blog, con la speranza che, con l’intervento di qualche linguista di professione, si potesse continuare la nostra discussione sulla tua impostazione originalissima sull’evoluzione della lingua. Purtroppo, eccezion fatta per qualche raro intervento di anonimi lettori, tra cui io, non è stato possibile dar via a discussioni linguistiche autorevoli. Io sono del parere che le tue notevoli conoscenze etimologiche e glottologiche abbiano intimorito qualche profesionista in materia, e gli scambi epistolari con il Pittau non sono apparsi nel tuo blog, ovviamente perchè, come professionista, egli non poteva schierare le sue conoscenze contro le tue, e rischiare di perdere il duello.
Come sai, io ti ho sempre espresso il mio scetticismo sulla validità delle tue conclusioni, pur ammirandone la genialità. E, come per il Vico, ti ho ripetuto che i professionisti si sarebbero schierati tutti contro la tua teoria. Il fatto stesso che essi non si sono fatti vivi finora può considerarsi una tacita verifica dell’assunto.
L’aspetto più facilmente oppugnabile della tua tearia si rivela nell’arbitrarietà della ricostituzione del significato di un etimo indipendentemente dal suo contesto. In ciò tu ripeti in linguistica quello che Kant fece per la filosofia, separando due elementi di un termine che tradizionalmente si consideravano inseparabili: essenza/esistenza dell’ESSERE per il Kant, e significante/significato del LOGOS nel tuo caso. Il risultato per la filosofia consiste nello sfacimento della discipliana stessa, per cui oggi nelle accademie non si studia più filosofia, bensì la sua storia. Mentre la vera disciplina si è trasmutata in scienza vera e propria, come la fisica atomica. Il nuovo teorema di Heisenberg (“Se un fenomeno non è osservabile, esso non esiste”), come anche la conclusione di Nietzsche, che “Dio non esiste”, sono comprensibili solo per chi conosce la filosofia di Kant. Ma persino Einstein rifiutò queste conclusioni. Ecco perchè vorrei ricondurti alla poesia.
Il tuo amore per l’etimologia, per la parola, con tutte le sue sfumature e possibili significati, si rivela nettamente nella poesia, dove il tuo genio spicca per la ricchezza di sentimenti ispirati dall’uso delicato quanto preciso dei termini, e per la raffinatezza già evidente fin dalla prima gioventù con la bellissima creazione de “Il flauto agreste”:
Disteso su tenera sponda
bacio col flauto antico
lo stupore dell’alba
che schiude appena le labbra sottili e subito
in vaghi trapassi sfuma nell’aria.
....................................................
....................................................
Flauto divino
è d’uopo che tu ricorra
ai tuoi stratagemmi riposti
se vuoi ch’io prenda dai favi
il miele difeso dalle api.
Se le avide labbra mi perfora un aculeo
gusterò l’amaro veleno
mescolato al profumo dei fiori
e all’anima ebbra
apparirà il mistero delle cose...
Una poesia, questa, non inferiore a quella di un Leopardi.
In conclusione, caro amico, vorrei di nuovo esortarti a riprendere il tuo flauto agreste, e
...Sulle ali del fiato
a solcare il ferruginoso occidente
crogiolo inquieto
dove bolle tra bagliori di fuoco
la colata di lava
dei giorni che verranno...
Angus Walters
Caro Angus, ti ringrazio di tutto quanto hai fatto per me e della tua annosa attenzione per le mie ricerche linguistiche. Anche a me sarebbe piaciuto moltissimo un franco discutere con qualche personaggio noto o ignoto in questo campo, per cercare di appurare la validità o meno della mia visione del fenomeno lingua. Eppure c’è da essere sicuri che qualcuno di essi avrà avuto modo di leggere qualche mio post, ma evidentemente ha sorvolato su di esso non ritenendo opportuno intervenire, pur essendo i miei articoli quasi sempre abbastanza stimolanti, interessanti e nuovi senza peraltro essere banalmente eccentrici. Forse la caratteristica fondamentale della mia posizione linguistica, che in genere non ammette vie di mezzo, ma richiede una accettazione totale o, in alternativa, un rifiuto completo da parte dell’eventuale critico, lo ha indotto a tacere. Non si può chiedere, a chi ha dedicato la sua vita ad affrontare problemi linguistici, il coraggio supremo di mettere a repentaglio i propri risultati. Sarebbe veramente disumano! E’ vero che anch’io ho dedicato una buona fetta della mia esistenza alla Lingua, ma in un certo senso io non ho nulla da perdere, essendo rispetto a loro un quasi sconosciuto, da un confronto con le idee di qualcun altro. Io pertanto il coraggio ce l’ho, ma capisco anche le ragioni di chi purtroppo quel coraggio non ce l’ha, anche se questo loro atteggiamento, come tu stesso hai detto, nuoce in qualche modo all’accettazione delle loro visioni linguistiche. Audaces Fortuna iuvet!
EliminaPietro Maccallini