mercoledì 1 gennaio 2014

Il significato volgare del termine "uccello" è una delle più subdole mistificazioni operate dal linguaggio nei confronti di noi poveri uomini immersi totalmente nel suo presente, senza conoscerne granchè del passato





Sulla genesi del significato traslato di ‘pene’ riguardante il termine uccello si sono cimentati in molti  fino ad arrivare a formulare «le più audaci interpretazioni psicoanalitiche»[1]. La proposta che mi pare più accettabile è quella che riporta il significato al linguaggio infantile, ma vedremo che anch’essa non coglie nel segno.  Il fatto è che anche in questo caso si è verificato il solito incrocio che ha accreditato, senza quasi possibilità di appello, la versione  accettata e difesa ad occhi chiusi da tutti i linguisti secondo i quali il significato di ‘pene’ è, comunque ciò sia avvenuto, un semplice traslato di uccello.

    Ora, esiste nel mio paese e in molti altri dell’Abruzzo il verbo cëll-àrse ‘intonchiare (detto dei legumi)’, cioè essere rosi e bucherellati dai tonchi[2], coleotteri le cui larve attaccano i semi e rimangono al loro interno per uscirne la primavera successiva alla deposizione delle loro uova, avvenuta tramite puntura da parte degli individui adulti: così si ha quasi l’impressione che sia il seme stesso a generare questi coleotteri chiamati ad Aielli-Aq cëlléttë, femm. pl., mentre altrove sono anche maschili cëllìtti. Quest’ultima voce coincide con il nome dialettale per ‘uccelli’, i quali però hanno pochissimo in comune con questi Bruchidi e potrebbero avere un etimo diverso.  Infatti, sempre nel dialetto del mio paese esisteva la voce cëll-àsse, uguale all’altra, con però il significato di ‘gallar(si)’[3]: un uovo cëllàtë era un uovo fecondato dal gallo.  Queste cëlléttë o cëllìtti, quindi, lungi dall’essere della stessa stirpe degli ilari uccelli, traggono il nome dal fatto di essere generati, come dice la loro radice, dall’essere, insomma, creaturine o animaletti, concetto che può prestarsi ad indicare anche i bambini o fanciulli o ragazzi, come si verifica nel dialetto di Nettuno-Rm, dove cellitto, bello cellitto vale ‘bel bambino’ e cello vale ’bel ragazzo’ e dove, però, i celletti sono semplicemente gli ‘uccellini’[4], come in tante altre parti d’Italia dove la voce può significare anche ‘uccelli (in genere)’ o ‘passeri’.  Sicchè risulta piuttosto difficile stabilire se quest’ultima voce celletti appartenga alla radice di cui si sta parlando o invece sia un diminutivo aferetico di it. (u)ccello il cui etimo rimanda al lat. tardo au-cellu(m) ‘uccellino’, au-cella(m) ‘uccellino’ diminutivo di lat. femm. av-em ‘uccello’, attraverso un *avi-cella(m) femminile.  Anche l’ingl. child ’bambino’ mi pare presupponga all’origine un termine simile a cellitto, sottoposto però ad un forte accento sulla prima sillaba radicale e conseguente caduta delle vocali atone successive come è normale per il germanico. L’ingl. colt ‘puledro’ dovrebbe essere della partita.  Non è molto credibile che attraverso una normale metafora si possa passare, nel lessico più o meno recente di una lingua, dal concetto di “uccellino” a quello di “bambino”. Sono più frequenti altre metafore come cucciolo, cucciolotto, leprotto, ecc. In inglese si ha kid ‘bambino’, propriam. ‘capretto’.  A meno che non si riesca a vedere in azione, dietro i significati delle parole, la grande metafora del linguaggio che operò sin dall’origine in modo da coprire distanze paradigmatiche o associative che ora sarebbe impossibile  accettare, se non in un contesto fortemente poetico.  Per capire meglio questo mio pensiero invito a riflettere su una parola come il gr. móskh-os, ad esempio, che significa sia ‘germoglio, verga, ramo’, sia ‘vitello, animale giovane, rondinino’, sia ‘fanciullo, ragazzo, giovane’.  E ciò si è verificato non perché nel tempo si sia passato metaforicamente dal significato originario di ‘germoglio’ a quello di ‘giovane animale’ e subito dopo a quello di ‘giovane uomo, fanciullo’ ma semplicemente perché questi tre significati (come tutti gli altri potenziali e non attuati) erano già inclusi in quello della grande radice madre originaria col valore generico di ‘anima, essere vivente’, significato che avrebbe potuto generare anche quello di ‘animale’ o ‘uomo’ tout court, senza la precisazione di giovane

   La stessa cosa avveniva per ogni altra radice la quale, di specializzazione in specializzazione, arrivava ad esprimere tutti i concetti da essa effettualmente originatisi. Il concetto di “rondinino”, ad esempio, è una specializzazione di quello di “giovane animale”. Specializzazione che attua però un salto semantico improvviso e apparentemente immotivato perché la distanza tra il nome di rondine , distinto da quello di ogni altro animale, e quello di animale sembra essere incolmabile proprio in virtù dei nomi specifici di ogni animale i quali sembrerebbero giustificare per ciascuno di essi una distinzione semantica originaria.  Ma la Lingua in realtà agisce in altro modo.  Per capirci meglio, è solo un caso se il gr. móskh-os vale anche ‘rondinino’: al posto di questo significato ci sarebbe potuto essere quello di passerotto, piccioncino, gabbianello, merlotto ecc. riferito di volta in volta ai piccoli di qualsiasi altro uccello.  Non sono quindi le caratteristiche varie di ogni referente a plasmarne in qualche modo il nome relativo ma la natura essenziale di animale, nonostante talora lo strato superficiale della parola sembri avvalorare proprio questo tipo di nominazione basata sulle idee distinte, confondendo le acque. 
 
    Ora, in Irpinia si incontra il verbo ceglià ‘germogliare’ con numerose varianti nel calabrese e nel pugliese.  Questo verbo è un denominale dal dialettale ciglio, cigghiu, ecc. che significa ‘germoglio’ e che non può essere fatto derivare, senza pensarci prima due volte, dal lat. aquileu(m), acileu(m), varianti di aculeu(m) ‘pungiglione, spina della pianta’[5]; esso a mio avviso va legato alla radice dell’abr. cëll-arsë ‘fecondarsi, nascere, generarsi’ sopra analizzata, in quanto tutto ciò che riguarda la nascita e la crescita nel regno vegetale ricade sotto questo concetto. Non è escluso, naturalmente, un incrocio fra le due radici.  Infatti nel dialetto lucano di Gallicchio-Pt la voce ciglië significa ‘germoglio’ ma anche ‘pungiglione, dolore acuto, fitta’[6]. Si faccia ben attenzione, però, perché la derivazione di quest’ultimo significato dal lat. acileu(m) non è strettamente necessaria, in quanto il concetto di “punta, protuberanza” è insito anche in quello di “germoglio”, il quale è effetto della spinta dirompente del rigonfiamento delle gemme. Infatti, sempre a Gallicchio, si ha la voce femm. cuglië ‘ernia, membro virile’ che a me sembra variante della precedente, col significato base di ‘rigonfiamento, protuberanza, escrescenza’.  Anche nel dialetto abruzzese di Trasacco-Aq la voce cujja ha il valore, tra l’altro, di ‘gibbosità, ernia inguinale’. Alla fin fine, allora, queste voci non possono non condividere la loro natura profonda con i composti di lat. *cell-ere come lat. ex-cell-ere ‘elevarsi’, lat. ex-cel-su(m) ‘eccelso, alto, eminente’, lat. colu-mna(m) ‘colonna’, lat. coll-e(m) ‘colle’, ingl. hill ‘colle’, lat. cul-mu(m) ‘gambo, stelo’ con cui si spiega facilmente il valore di ‘membro virile’ del suddetto lucano cuglië: d’altronde in Marziale il termine colu-mna(m) assume anche il significato di ‘membro virile’ con valore osceno.  Un altro interessante vocabolo è l’abr. chëlï-èndrë[7] ‘prime gemme degli alberi’ che presenta una pronuncia velare al posto della palatale della radice cell- di cui si parla.  E’ molto utile il raffronto col lat. cali-andru(m), cali-endru(m) ‘capigliatura posticcia, parrucca’ che esibisce, nella prima componente, la variante cali-: i capelli sono ugualmente ‘escrescenze’ come le gemme, i germogli, i rampolli dei due regni vegetale e animale, compreso l’uomo[8].  Tanto è vero che nel dialetto di Villapiana-Cs la voce cagli-andrë significa ‘fanciullo’[9]. La voce dialettale cal-andra corrisponde, guarda caso, ad uno dei numerosissimi nomi per il membro virile. 

    Ora, tutto questo induce a credere che i vari nomi dialettali masch. cello, céllë, céjjë, femm. cèlla per ‘membro virile’ sono espressione diretta di questa radice il cui comportamento semantico è stato or ora analizzato.  Essa è stata confusa irrimediabilmente col termine italiano (u)ccello per effetto anche, nei dialetti, della deglutinazione della vocale iniziale –u-, assorbita dall’articolo -lo- (dial. –lu-, -u-, ecc.), la quale ha fatto interpretare la parola come lu (lo) cello, forma perfettamente sovrapponibile all’altra per ‘membro virile’. Destino beffardo e impietoso di una parola che, abituata a respirare l’aria limpida delle variopinte, leggere e gioiose creature, ha finito col ritrovarsi in basso luogo a reggere la foglia di fico per le pudende dell’uomo. Il quale ne ha, appunto, sùbito approfittato, infischiandosene di quelle creature aeree, per indossare l’abito di chi sa usare il termine eufemistico giusto nel consesso civile (generalmente ipocrita) per indicare certe cose un po’ pruriginose o interdette[10]. Ma di certo egli non può farsi bello della sua inventiva, perché è stata la Lingua che casualmente gli ha offerto, su un piatto d’argento, l’espressione eufemistica che oggi è lontanissima dal farci dubitare che sotto di essa viva ancora intatto uno dei termini popolari o volgari, duri e crudi (per la nostra mentalità schizofrenica disturbata dal contrasto tra natura e cultura), per ‘membro virile’, simile a mazza, nerchia, randello, ecc., facenti capo all’idea originariamente innocente di “germoglio, verga, bastone” espressa, appunto, anche dalla radice cell- soggiacente al termine uccello. La dialettale cèlla ‘vulva’ non è il femminile di cello come taluni[11] sostengono, ma deriva secondo me dalla radice di lat. cella(m) ‘cella, stanzino, cella di alveare’, attingendo all’idea di “buco, cavità”.

    Da ultimo vorrei far notare che il lat. au-cell-u(m) < *avi-cell-u(m) ‘uccellino’ è, a mio parere, un composto tautologico la cui seconda componente -cell- (uguale alla radice di cui parliamo), prima di passare a fungere da suffisso diminutivo, ripeteva, all’origine, il significato di ‘uccello’ della prima (cfr. lat. av-em ’uccello’). Non risulta, comunque, che il lat. ave(m) o aucellu(m) avessero anche il significato traslato di ‘membro virile’, anche se questa era una delle possibilità del termine come del resto di ogni altro termine: semplicemente non si è verificata.  Il che conferma il nostro assunto.  

    Ormai, data la ripetitività di questi fenomeni già incontrati in molti altri casi presi in esame nei miei articoli precedenti che si susseguono da circa un quinquennio, si può con forza affermare che la Lingua, espressione di uno sviluppo naturale del cervello umano, all’origine aveva dato vita a rapporti diretti con i referenti che indicava, anche se con significati molto più generici degli attuali. La metafora alludente ad altro significato rispetto a quello diretto sottostante si è sviluppata quando sulla superficie di una parola è andato a depositarsi del tutto casualmente, per affinità di forma esteriore, un altro significato, più o meno lontano da quello del referente, distogliendo la nostra attenzione dalla verità naturale soggiacente, e quindi abituandoci, in concomitanza con il senso di civiltà che cresceva, ad attenuare, coprire, non pronunciare certe cose, per natura né morali né immorali, ma che la cultura e la civiltà orientavano in un senso o in quello inverso, producendo anche come sottoprodotto la nostra inclinazione a sottacere, ammorbidire (qualità che possono essere talora positive) ma anche ad aggirare, falsare e mentire, qualità deleterie per il consorzio umano, oggi così in auge.  La civiltà di certo ci ha allontanato dalla Natura, di per sé amorale, e ci ha reso meno diretti ed onesti, qualità che ho sempre istintivamente preferito, anche a mio discapito. Esse, se fossero state coltivate dalla maggioranza degli uomini, avrebbero risolto o perlomeno attenuato i crudi problemi per i quali oggi così accanitamente ma anche ipocritamente[12] (perchè la coscienza non è sempre tranquilla) ci accapigliamo e che rischiano di portarci alla rovina.

Il mio metodo ermeneutico, ancora una volta, ribadisce la norma della nominazione diretta del referente agli albori del linguaggio, rendendo così molto più facile e attendibile, perché incanalata entro binari stabili, una delle operazioni spesso più aleatorie, irte di pericoli e mai definitivamente sicure che l’uomo abbia mai dovuto affrontare, cioè la ricerca dell’etimologia di un termine, come ogni addetto ai lavori ben sa. L’etimologia! Pochi oggi sono quelli che vi si dedicano. Il grosso dell’umanità, immerso nell’assordante presente, a mala pena ne conosce il significato. Eppure essa riguarda le parole costitutive di ogni lingua, creazione dei nostri antenati remoti che continuiamo ad usare meccanicamente ogni giorno. Sono esse il simbolo più luminoso del nostro essere uomini, capaci di trasformare i suoni inarticolati che la Natura ci ha fornito in elementi armonici portatori di significato e di luce, rendendo la convivenza umana, oltre che efficiente e produttiva, meno buia, meno fredda, meno triste.  Direi dunque che l’interesse per l’etimologia crescerà allorquando l’uomo si libererà della zavorra materiale che lo spinge sempre più in basso e saprà spiccare un volo verso l’azzurro immateriale dei cieli. Allora una persona che continuerà a non cercare di conoscere la natura delle parole che escono dal suo intimo sarà per me un uomo dimidiato, retrocesso inesorabilmente quasi al rango dell’animale da cui proviene. 


Il flauto agreste


Disteso su tenera sponda
bacio col flauto antico
lo stupore dell’alba
che schiude appena le labbra sottili e subito
in vaghi trapassi sfuma nell’aria.

Flauto agreste
strumento dei fauni
mi affido alla cava tua voce
perché vi si adagi il giorno che nasce
e all’orecchio sussurri
i mille segreti ronzanti nei suoi alveari.

Voglio seguire quel raggio
riflesso dall’acqua fugace
tra ciglia verdi
diafana tra pietre sinuose.
Lì dove esso svanisce
voglio che tu il fiato sospenda
un istante
e ascolti il tenue gorgóglio che lo risveglia.
Voglio specchiarmi dentro una pozza
chiusa tra massi
e zigzagare nel muto scompiglio di spauriti girini.

Flauto divino
è d’uopo che tu ricorra
ai tuoi stratagemmi riposti
se vuoi ch’io prenda dai favi
il miele difeso dalle api.
Se le avide labbra
mi perfora un aculeo
gusterò l’amaro veleno
mescolato al profumo dei fiori
e all’anima ebbra apparirà
il mistero delle cose.

Quando il disco del sole
già pieno
i campi rischiara
e desta la fatica degli uomini
è meglio ch’io
l’iniziato
cerchi il folto del bosco
o l’ombra di rupe romita
e il mio aspetto alterato
così non spaventi l’ignaro che guarda.
Soffierò sulla canna solo
a sorreggere il volo dell’aereo falco
a dare il suo tinnulo verso alla cincia che passa
e se la terra mi tedia
a scrutare le nubi gonfie
che s’accumulano bianche nel cielo
e sospingerle in alto
verso l’azzurro magnetico.

Arrivata la sera
fino allo spasimo dilaterò le mie gote
perché una nota
alta e struggente
accompagni la morte cruenta del sole.
Se il labbro scoppierà impotente
nello sforzo sovrumano sarà dolce
mischiare il mio sangue a quello del tramonto
o amato mio flauto.
E non tardi chi ti raccolga
munito dell’infula sacra
e possente cavi da te quella nota
che a me fu negata.

Sulle ali del fiato
solcherò il ferrugigno occidente
crogiuolo inquieto
dove bolle tra bagliori di fuoco
la colata di lava
dei giorni che verranno.

Se l’abbaglio si spegne
si risveglino i sogni
e con loro io voli
verso luoghi lontani nel cielo.
Renderò finalmente alla stellante orsa i miei occhi
e le dita alla lira sonora
e le braccia lascerò che s’impiglino tra quelle di Cassiopea.

Allora guarderò
attraverso filigrana appena vibrante
l’anima nuda al pallore dei raggi degli astri
e immemore planerò tra le note d’una ignota melode.


Pietro Maccallini

 









[1] Cfr. M. Cortelazzo- P-Zolli, DELI, l’Etimologico minore, Zanichelli, Bologna 2004.

[2] Questi coleotteri erano noti sotto altri nomi come punteruoli, gorgoglioni, ecc..

[3] Data anche la somiglianza tra la radice cell- e gall- l’it. gall-are non deriva da gallo, come tutti pensano.  Alla sua origine c’è il significato di ‘fecondare, germogliare, crescere’. Cfr. l’it. galla.

[5] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino 1998, s. v. céglià.

[7] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq 2004.

[8]  La voce latina è in collegamento col gr. káll-ynthr-on ‘rami di palma’ ma anche, nella variante káll-yntr-on, ‘scopa, ornamento della testa delle donne, caliendro’.  Il significato di base deve essere quello di ‘germoglio, escrescenza, capigliatura’.  L’incrocio  col verbo kall-ýnō ‘abbellisco, pulisco’  ha determinato il significato aggiunto di  ‘abbellimento, ornamento’.

[9] Per una esauriente analisi del termine cfr. il post Guaglione presente nel mio blog (marzo 2010).  L’avezzanese cell-óne  (detto di uomo grande, alto) sembra contenere sia il signif. di ‘uomo’ che quello di ‘grande, alto’ di lat. ex-cel-su(m) ‘eccelso, elevato’. Cfr. U.Buzzelli-G. Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, Avezzano-Aq 2002.

[10] La stessa cosa è avvenuta per la voce  fresca, considerata a torto eufemistica per fregna. Cfr. l’articolo “Fischia-fròce”=fischietto[ ] del mio blog (aprile 2011).  Il fatto conferma bellamente che il mio metodo interpretativo non brancola nel buio, perché scopre sempre lo stesso meccanismo di fondo nel comportamento dei cosiddetti eufemismi. I quali, a ben riflettere, non sono mai voluti direttamente dal parlante allo stesso modo dei concetti di cui le parole si caricano accidentalmente nel corso della loro storia, come ho più volte sottolineato nei miei articoli richiamandomi al grande Saussure.

[11] Cfr. M. Cortelazzo- C. Marcato, I dialetti.., cit., s.v. cèlla ‘membro virile’.  Vi si sostiene, senza battere ciglio, anche la derivazione della voce dal lat. aucella ‘uccellino’,  per quanto non possa essere del tutto escluso un possibile incrocio, già molto per tempo, di questa voce con la radice cell- che conosciamo.  Vi si sostiene, inoltre, che questi termini possono riferirsi indifferenziatamente all’organo maschile o a quello femminile, ma probabilmente le cose stanno diversamente se il dial. cèlla ‘vulva’ trae origine dal lat. cella(m) ’cella, stanzino, buco’  come ho sopra indicato.

[12]  Una società in cui il 62% degli studenti universitari, che dovrebbero essere la punta avanzata dell’onestà, serietà e coscienza civile, fa invece autodichiarazioni di reddito familiare false per ottenere indebiti favori (sottraendoli magari a chi ne ha veramente bisogno) non può nemmeno sperare di cambiare in futuro le cose.  Questi presunti studenti si riverseranno, infatti, domani nella bella provincia italiana in cerca di potere e la imbratteranno con l’immonda rapacità di soldatesche pazze di soldi e di razzia.

2 commenti:

  1. Caro amico Pietro,
    Senza voler esagerare, devo confessare che questa tua poesia (IL FLAUTO AGRESTE) e' la piu' bella che io abbia mai letto dei poeti italiani, da Dante fino all'ultimo Montale.
    Angus Walters

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    1. Caro Angus, ti ringrazio del tuo giudizio sulla poesia la quale piace anche a me. Conosco la tua preparazione in materia, ma non posso dire altro che sono gli eventuali lettori come te che potrebbero confermarne o meno la sublimità espressa dal tuo giudizio che un po' mi fa girare la testa. Grazie ancora

      Pietro Maccallini

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