Nei dialetti marsicani spuntano qua e là delle parole di ascendenza
chiaramente greca. Siccome non si tratta
in genere di termini culturali nel senso che non attengono a miti, riti,
manufatti tecnologici e quant’altro di questa natura, veicolato attraverso la
transumanza —alcuni
pensano così— dal
meridione d’Italia ove fiorì la civiltà della Magna Grecia (VIII-VII sec. a.C.)
si deve dedurre, anche in base alla nota ricerca genetica di Luca Cavalli Sforza[1], che
dalle nostre parti, e almeno nel resto dell’Italia centro-meridionale, si
fossero insediate stabilmente popolazioni di stirpe greca a partire grosso modo
dalla seconda metà del secondo millennio a. C.
Quindi non si tratterebbe, a mio
avviso, di sporadici fenomeni linguistici di contatto con l’area grecizzata
della Magna Grecia ma di veri e propri stanziamenti di Greci micenei in questo
territorio, in un periodo antecedente a quello magnogreco. Lo attestano anche alcuni toponimi come
quello di Fiume ‘Natolia (< Anatolia), un’abbondante sorgente del tenimento d’Aielli nei pressi
dell’antico alveo del Fucino e quello di Sant’Anatolia,
un paese in provincia di Rieti al confine con la Marsica, dove esistono
abbondantissime sorgenti. Questo
idronimo è di puro stampo greco, perché esso combacia col gr. anatolé
‘il sorgere del sole, sorgente di fiume, ecc.’.
Anatella è il nome di altra
sorgente del territorio di Rovere-Aq, il quale richiama anch’esso il puro gr. anatéll-ein ‘sorgere, elevarsi, sgorgare’. Di Fonte
Ranë a Celano, italianizzata in Fonte Grande, supposi la derivazione dal
gr. kréne,
dorico krána ‘fonte’, già nell’articolo I Santi Martiri di Celano […] presente nel mio blog (giugno
2009). Sarà avvenuto l’incrocio col lat.
granu(m), dialettale ranë ‘grano’
che ha causato la normale caduta della velare /g/. La cosa è tanto più
credibile giacchè nel dialetto celanese anche la vocale /a/ finale si riduce nella
vocale evanescente /ë/. La
presenza della liquida scempia e non doppia
nel nome dialettale della fonte impedisce inoltre, a mio avviso, di
connetterlo col dialettale rannë ‘grande’,
presente in qualche parlata della Marsica ma non a Celano né ad Aielli.
L’aggettivo usuale per "grande" in tutta la Marsica è gróssë o róssë. I toponimi in genere, che solitamente sono radicati stabilmente nel terreno,
non potevano essere veicolati da pastori
transumanti che portavano qualche novità linguistica dai paesi dove avevano trascorso
il periodo invernale. Perché mai,
infatti, la gente rimasta a casa avrebbe dovuto cambiare denominazione a fonti,
fiumi, monti che avevano già i loro bei nomi fissati da tempo immemorabile?
Ora, esaminiamo alcuni termini del lessico marsicano. Cominciamo col cerchiese ‘mbambanì ‘intontire, istupidire,
frastornare’[2]
(cfr. trasaccano ‘mbambalì[3],
aiellese ‘mbambalunì col medesimo
significato, luchese ‘mpampanìtë ‘tonto,
trasognato’[4]). A Trasacco il verbo ha anche il valore rivelatore
di ‘abbagliare, accecare’ che impedisce di collegare queste voci all’it. rimbambire col signif. etimologico di ‘tornare o far
tornare bambo, bambino’. Ugualmente
l’it. imbambolarsi, che ha il
significato di ‘rimanere attonito, perdersi con lo sguardo nel vuoto’, credo
rimandi ai verbi dialettali precedenti piuttosto che all’it. bambolo, con cui certamente si sarà
incrociato. In effetti si incontra in greco il verbo pamphain-ein ‘risplendere oltremodo, brillare’,
significato che provoca quello di ‘abbaglio, accecamento, intontimento’ che fa
al nostro caso. Ora, il precedente gr. pam-phain-ein viene inteso normalmente come composto di gr. pan ‘tutto’ e gr. phain-ein ‘apparire, splendere, ecc.’, ma per me si tratta solo di
raddoppiamento della radice phan- che poteva avere una variante pan- come in gr. pan-ós ‘torcia, face’[5]. Esiste anche il verbo simile gr. pam-phal-ân ‘guardare attonito, estatico, spaventato’ che
concorre con l’altro a stabilire l’etimo esatto delle rispettive voci di
Trasacco e Aielli. Va da sé che il
prefisso illativo in-, divenuto im- (‘m-) dinanzi a labiale, ha comtribuito a sonorizzare la sorda
originaria /p/ di queste voci come
avviene normalmente nei nostri dialetti.
Il verbo napoletano ‘mbambanì
(part.pass. ‘mbambanùtu)[6]
‘confondersi, trasognare’ allude ad un abbagliamento
piuttosto che a un rimbambimento.
Altro termine interessantissimo è l’aggettivo ciaffë (Trasacco)
‘prognato, col mento sporgente in avanti’ oppure ‘con i denti incisivi inferiori sporgenti’[7]. Ad Avezzano il medesimo aggettivo viene
riferito al cavallo ‘dai denti larghi’, qualità che determinava un
deprezzamento della bestia che così aveva difficoltà di masticazione[8]. Sembra impossibile, eppure vi è un participio
aoristo atematico di verbo greco che fa proprio al caso: dia-phý-s composto dalla prep. diá
‘attraverso’ e dal verbo phý-ein che ha vari significati come ‘generare, essere generato,
crescere, divenire’ e che corrisponde al lat. fi-eri ‘essere fatto, divenire,
succedere’, oltre che alla radice fu-
del perf. lat. fu-i (it. fui), come ogni
bravo studente di ginnasio già sa. Il verbo assume anche il signif. di
‘separarsi’, per via del diá che esprime spesso questo concetto di
‘distacco, separazione’. Ma c’è di più:
il relativo sostantivo dia-phy-é ha proprio il valore di
‘distinzione, separazione, interstizio’
riferito anche all’interstizio tra i denti in Plutarco. La differenza è solo data dal fatto che in ciaffē
questa separazione è piuttosta larga e anormale, ma sempre di
separazione si tratta. La Lingua nei
suoi concetti fondamentali non fa di simili distinzioni: è solo l’uso che
comporta poi le varie specializzazioni.
A questo punto immagino che i più continueranno a restare perplessi per
quel diȧ- iniziale che si sarebbe trasformato nel cia- di cia-ffë. Nessuna paura! Inizialmente si avrà avuto in dialetto una
forma *ja-phë ( dal
participio dia-ph-ýs)
come è avvenuto nel lat. diurnu(m) ,
ad esempio, passato al dialettale jurnë
e all’it. giorno, con la
palatalizzazione della semivocale /j/. L’esito finale sarebbe dunque stato *giàffë
con la normale riduzione, nei nostri dialetti, della parte terminale –ýs alla vocale evanescente /ë/ e con l’accento
ritratto sulla prima sillaba perché nel sistema di accentazione latino,
subentrato a quello greco, non esistono sillabe finali accentate. Si è
verificato poi probabilmente l’assordimento dell’iniziale /g/ per assimilazione
alla fricativa sorda /f/ della seconda sillaba.
Questo tipo di trasformazione fonetica si è avuto anche per il nome del
paese di Gioia dei Marsi che secondo me deriva da un originario Diavolo, denominazione rimasta intatta al vicino passo
montano. Tutta la questione l’ho
trattata nell’articolo Il diavolo non
vuole lasciarmi […] del mio blog
(agosto 2012). C’è inoltre da sottolineare che nel dialetto trasaccano
frequentissime sono le varianti sorde come si può vedere, ad esempio, proprio
nel termine diàvëlë ‘diavolo’ che
presenta anche il suo bravo allotropo tiàvëlë.
Quindi è da presumere che da un probabile *tjavëlë
non potesse che svilupparsi una forma ciaulë
> ciolë
> cioia. L’ultimo passaggio si è avuto per la diffusa
palatizzazione della /l/ nei nostri dialetti come nel trasaccano ciavie ‘ghiandaia’, derivante dall’altra forma,
più diffusa, ma anche trasaccana, ciàvela ‘ghiandaia’. Purtroppo bastano un paio di passaggi
fonetici a distorcere completamente una parola. Ma il linguista non deve farsi
ingannare. Anche il toponimo di Gioia dei Marsi è quindi secondo me il termine
greco dí-aulos ‘passaggio angusto,
stretto di mare’ incrociatosi con l’altro gr. diá-bolos che ha vari significati oltre a quello più fortunato, per
via del Cristianesimo, di ‘diavolo’.
Comunque, ripeto, una trattazione
più esauriente del termine la si trova nell’articolo poco sopra citato.
Forti
delle precedenti acquisizioni possiamo passare ad analizzare la voce dialettale ciàlëfë
‘fango, melma’ (Trasacco, Avezzano, ecc.)[9]. Se solo pensiamo alla possibilità che
l’iniziale cià- derivi da un precedente dia- ecco pararsi dinanzi a noi il gr. di-aleíph-ein ‘ungere, spalmare, cancellare’ (la
/a/ di diá naturalmente si elide dinanzi
all’altra /a/). La radice aleiph- richiama i gr. áleipha, áleiphar
‘unguento, unto, pece’ come pure gr. aloiphé
‘grasso, olio, vernice, pece’. A questo
punto non è difficile dedurre che evidentemente il significato ancora più
generico del termine dovesse riferirsi a qualsiasi cosa untuosa o appiccicosa,
una poltiglia di sostanze attaccaticce come è in effetti la melma ma anche, ad es., il muco o moccio: infatti a Luco dei Marsi si ha il composto tautologico moc-ciàlëfë ‘moccio’[10]
con semplificazione (aplologia) delle due sillabe simili di moc-cio e cia-lëfë la cui conservazione avrebbe
generato una cacofonia. E così il grande
mistero della strana parola rivela la sua vera fisionomia. Cialëf-ónë, a Trasacco e altrove, è una
persona sporca di fango o che sa solo
pasticciare le cose che fa[11].
Lo stesso valore ha , in quel dialetto,
la parola ciaff-ónë la quale possiede
anche il significato del precedente cialëf-ónë, per caduta della vocale evanescente /ë/ ed assimilazione
regressiva di /l/ ad /f/. Ciaffo si incontra anche fuori d’Abruzzo
(Napoli, ad es.) col significato dispregiativo di ‘uomo rozzo, tamarro’ e
simili, ricollegabili facilmente a quelli del dialetto trasaccano.
Ad
Aielli, il mio paese, ‘m-bal-àsse significava ‘sporcarsi (le
scarpe) di fango’ e ‘m-bala-tùrë (forse da segmentare meglio
in ‘m-balat-ùre, se si considera la voce dialettale palta
‘fango’[12])
era un luogo pieno di fango. Ne è chiara la radice gr. pel-ós, dorico pal-ós ‘fango, melma, argilla molle, ecc.’ che si ritrova in forma ampliata
anche nel lat. pal-ud-e(m) ‘palude’ ,
il quale sembra variante, appunto, di ‘m-balat-ùrë o di palta. Quest’ultimo avrà dato vita a it. pant-ano, con sostituzione di /n/ ad /l/ per
assimilazione alla /n/ del suffisso -ano.
La certezza dell’origine e del
significato dell’aiellese ‘m-bal-àssë mi viene dalla voce pell-in-ë
‘d’argilla’ presente nel Vocabolario abruzzese del Bielli[13]
e rispondente al gr. pél-in-os (dorico pál-in-os)
‘d’argilla’.
E ora
veniamo al termine abbafà(sse) che a
Trasacco e altrove (non solo in Abruzzo, ma in tutto il meridione) ha il
significato di ‘portare le pecore a riposare all’ombra durante le ore calde del
giorno’ oppure quello di ‘spontaneo fermarsi e aggregarsi delle pecore all’ombra
nelle ore calde del giorno’. Ad Aielli
esisteva solo la forma riflessiva del verbo che indicava appunto il fermarsi e
aggregarsi di questi animali anche in luoghi non ombrosi, perché nei nostri
monti non si trovavano in genere alberi. Le pecore dopo aver brucato dal primo mattino,
appena il sole cominciava a farsi sentire, anche addirittura verso le h. 9 o le
h. 10[14],
si fermavano, purchè sazie, serrandosi strettamente tra loro, tanto che ciascuna di esse infilava
la testa, tenendola bassa, sotto la pancia della vicina, in modo non solo da
ripararsi dagli insetti che a quell’ora diventano insopportabili ma anche per formare
con i loro dorsi una sorta di corazza contro i raggi solari che in questo modo non
penetravano al disotto di essa. Veniva a costituirsi quindi, per tutta l’area
occupata dal gregge, una sorta di riparo che manteneva, con l’ombra esistente sotto
di esso, un microclima a temperatura di certo inferiore a quella che
furoreggiava all’esterno. Le pecore
intanto ruminavano placidamente
producendo naturalmente anche un po’ di bava dalle loro bocche. I più individuano appunto nella parola bava l’etimo del verbo. Noi non lo accettiamo, non fosse altro che
per il fatto che generalmente le parole, come ho ricordato diverse volte nei
miei scritti, vanno dritte alla cosa da nominare, piuttosto che girarvi intorno
sfruttando dei termini che indicano caratteristiche o significati secondari,
marginali rispetto a quello principale che qui, secondo me, è rappresentato
proprio dall’aggregarsi e fermarsi
delle pecore, indipendentemente dalla presenza o meno di alberi ombrosi. In genere i linguisti parlano solo del
significato di ‘caldo opprimente’ che sarebbe espresso da questa parola, senza
tener conto di altri significati che essa contiene, il che rende, a mio parere,
la loro soluzione alquanto fragile perché esclude a priori che la radice abbia
una polivalenza tale da poter riannodare insieme significati apparentemente
molto discordanti.
Nel Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli
compaiono tre significati fondamentali della voce abbafà: 1-satollare; 2- condurre il gregge a meriggiare; 3-
ammaliare, lusingare. Qualcuno penserà che
il primo sign. potrebbe essere scaturito dal fatto che quando le pecore si abbàfano generalmente hanno lo stomaco
pieno per aver pascolato già da diverse ore, ma vedremo che così non è. Il terzo sign. sembra essere completamente
estraneo al campo semantico dei due precedenti, ma in verità non lo è. La mia
convinzione, tratta dallo stesso nucleo della radice, è che il nostro verbo
abbia molto da spartire con i verbi greci aph-ápt-ein (ionico ap-ápt-ein) ’attaccare, annodare, appendere’, gr. aph-ân ’toccare, palpare’. La radice è ap, aph uguale a quella
del lat. ap-isci ‘raggiungere,
ottenere, comprendere’ e lat. apt-u(m) ‘attaccato, legato, adatto’. In greco esiste anche ap-aph-ísk-ein ‘ingannare, deludere’. E’ chiaro che il sign. di fondo di questi
verbi è quello di ‘legare, unire’ che si specializza anche in quello di
‘toccare, palpare’ da cui deriva l’altro di ‘ammaliare, lusingare’ della voce
abruzzese. Infatti il sost. aphé, che deriva dalla stessa radice del verbo, ha
anche il raro valore di ‘suggestione’[15],
concetto simile a quello di malia,
che facilmente può tramutarsi in illusione
e delusione. A Scanno-Aq e nel Molise la voce abbe significa 'meraviglia'. Sembra strano ma, sempre a Scanno, il verbo abbafà significa anche ‘abbeverare’.
Come è possibile? Si tratta dello stesso verbo? La mia risposta è: sì! La forma
medio-passiva ápt-esthai, in
effetti, significa anche ‘prendere, assumere (cibo o acqua), mangiare, bere’: così si spiega, anche per influsso del verbo it. abbuffarsi o abboffarsi, il significato 'satollare' di abbafà. Allora è più che accettabile supporre che una
probabilissima forma composta originaria *ap-aph-ân (da aph-ân citato), inserita nel sistema linguistico italico-latino, abbia
dato come esito il nostro abbaf-are. Il prefisso ap- corrisponde alla preposizione apó (lat. ab) con valore completivo, ma io sono propenso a credere che qui si
tratti di radoppiamento tautologico della radice –ap. Dimenticavo l’osservazione più importante: il gr. ápt-ein vale anche ‘accendere, ardere,
bruciare’ e aphé vale anche ‘accensione,
ardore’. E così si spiega il significato
di ‘caldo opprimente’ dei dialettali abbafatura,
abbafo che hanno anche il valore di
‘sonnolenza, appisolamento’, scaturito forse dal ciondolare della testa di chi si appisola, la quale resta come appesa: uno dei significati della
radice. Il verbo, però, sarà stato
talora inteso, dall’inconsapevole e spigliata etimologia popolare, come uno dei
numerosi composti preceduti dal prefisso ad-
+ bafare, il quale avrà dato,
quindi, le varie forme di bafagna,
bufagna ‘caldo umido opprimente’ ecc.
Va da sé, come ho affermato più sopra, che io considero primario il
significato di ‘aggregarsi, attaccarsi tenacemente (presente nella radice)’
delle pecore tra loro, indipendentemente dal posto ombreggiato o meno in cui
avviene il ‘meriggiare’. Altre
osservazioni si dovrebbero fare su questo abbafar(si)
e forme collegate, ma mi fermo qui per non dilungarmi troppo.
Interessantissime sono poi le espressioni che vivono ancora oggi nei
dialetti e che nascondono parole di puro
conio greco. Ad Aielli ed altrove, ad
esempio, usava rivolgersi o riferirsi ad un ragazzino impertinente con
l’epiteto di mëcchëlùsë ‘moccioso’, dimin. mëcchëlusìjjë, per sottolinearne la ‘piccolezza’ nonostante la
quale o a causa della quale egli aveva comportamenti piuttosto riprovevoli. Ma
nel Molise l’epiteto ha valore di ‘bimbo frignante’ senza alcun riferimento al
‘muco’ del naso, probabilmente perché il termine si era incrociato con un altro
simile, ad esempio, al trasaccano muculià
‘guaire, miagolare’[16].
La cosa è confermata da un abr. mmucculòsë ‘persona a cui scende spesso
il muco dal naso, ma si chiamano così anche i ragazzi troppo capricciosi’[17].
Straordinario è quindi constatare con
somma meraviglia che dietro queste espressioni bisogna vedere un originario
greco mikk-ós, mik-ýl-os ‘piccolino’, varianti del
più noto mik-r-ós ‘piccolo’. L’abr. mìculë
significa ‘scarso (nel mangiare)’[18]. Anche a Rocca di Botte-Aq miccu[19]
significa ’piccolo’! In un certo senso si continua a parlare greco senza che ce
ne accorgiamo! Si può dire che nostri
antichissimi antenati vivono ancora in queste parole che non sono scomparse nella
trasmissione plurimillenaria di generazione in generazione!
Curiosissima è l’espressione del dialetto avezzanese Lum’ alle récchië ‘Lume alle orecchie’
usata nei confronti di chi per fame arretrata e scarso nutrimento avrebbe le
orecchie trasparenti[20]. Io non so se questo fenomeno accade veramente,
ma so di certo che chi mangia poco da molti mesi e anni mostra la sua
condizione a vista d’occhio, nel volto e nel corpo, senza nessun bisogno di un
controllo sulla trasparenza delle sue orecchie! Sicchè mi è venuto in mente
quasi subito il gr. lim-ós che significa
sia ‘fame’ che ‘affamato’. Per il resto dell’espressione ho dovuto pensarci un
po’ su per arrivare ad accogliere l’aggettivo verbale an-orekt-ós ‘elevato,
teso in alto’. Nel vocabolario ho trovato in verità solo la forma semplice orekt-ós ‘teso, proteso’, ma è probabile che
tra i vari dialetti parlati circolasse anche l’altra forma derivabile dal verbo
an-orég-ein
‘tendere in alto, sollevare’, presente nel vocabolario del Rocci. Il significato di tutta l’espressione doveva
essere allora quello di una fame “elevata”, cioè ‘grande, cospicua, arretrata’.
L’etimologia popolare, nel periodo del passaggio dallo stadio greco a quello
latino, ha evidentemente storpiato la frase interpretandola come Lume alle orecchie. Essa, come è noto[21],
è capace di ben altre e incredibili trasformazioni! Ma, molto probabilmente,
questa trasformazione sarà stata favorita da un’altra espressione che doveva
circolare in quest’ambiente grecizzato che si avviava alla latinizzazione. Essa
dovrebbe essere lým-e allë récchië ‘sporcizia alle orecchie’,
con lým-e ‘sporcizia, sudiciume’ appena un po’
diverso da lim-ós ‘fame,
affamato’. In italiano c’è anche il modo di dire Essere sudicio come un lume[22]. Si spiega dicendo che i lumi un tempo erano
spesso imbrattati di unto o di cera, ma non è una spiegazione che mi soddisfi
in pieno. Penso che le persone pulite lo mantenessero in ordine come ogni altro
oggetto di casa e che la spiegazione potrebbe venire dal termine greco di cui
parliamo: la frase doveva suonare, all’origine, come Essere lurido come la Sporcizia in persona. D’altronde il termine aveva molti sosia anche
fuori della Grecia, secondo me, come il lat. lam-a(m) ‘pantano, palude’, il lat. limu(m) ‘limo, fango’, ted. Lehm
‘argilla’, ingl. lime ‘calcina,
pania, glutine’, ted. Leim ‘colla,
vischio, pania’ e, con prefisso –s-,
ted. Schleim ‘muco, catarro’, ted. Schlamm ‘fango’.
Del
grecismo rappresentato dal primo membro della voce dialettale crëst-ónda ‘bruschetta unta d’olio con una
passatina d’aglio’, membro che corrisponde al gr. khrist-ós ‘unto’, abbiamo gia parlato
nell’articolo La “panonda” […]
presente nel mio blog (febbraio 2014).
Conosco anche altri esempi di grecismi nei nostri dialetti, ed altri
ancora ce ne saranno tra le loro pieghe a me ignoti. Straordinario è a Scanno-Aq, paese che comunque
non fa parte della Marsica, il caso della voce uiè ‘figlio’, che è pari pari il gr. hui-ós ‘figlio’, che presenta anche un tema huiéu-
[23]. A Carrito, nella Marsica, si incontra il verbo sëckiè ‘aversela a male, risentirsi’
[24]
il quale non può che essere denominativo dal gr. skiá ‘ombra’ da cui il
significato di ‘oscurasi, rabbuiarsi, adombrarsi’. Fra la fricativa /s/
e la velare /k/ si è inserita una cosiddetta vocale
anaptittica come avviene abbastanza spesso in questi casi: cfr. sëllitta
‘slitta’ a Trasacco oppure sëllam-àssë ‘andare a precipizio,
rompersi l’osso del collo’ ad Aielli e altrove, dalla radice del verbo it. slam-are, cioè smottare, franare. Di chiaro stampo greco è la voce avezzanese blécchë, blecc-ónë
‘uomo di scarsa intelligenza, privo di verve’[25]:
in greco infatti si hanno blák-s ‘pigro, codardo, lento, fiacco, stupido, torpido’ e, con
ampliamento in /r/, blekh-r-ós ‘debole, languido,
lento, molle’. Nel vocabolario del
Bielli è registrata la stranissima voce ja ‘scaturisce, scorre (detto
dell’acqua)’. L’accento cade sulla lettera /j/
che qui rappresenta una /i/ rafforzata,
come si spiega nelle note sulla pronuncia e scrittura premesse al vocabolario.
Per me si tratta del gr. híē-si, 3° pers. sing. pr. ind. del verbo hié-nai ‘mandare, inviare’ che, usato intransitivamente, ha proprio il
sign. di ‘spargersi, diffondersi, scorrere’ riferito a fonti e fiumi. E’ comprensibile la
caduta della desinenza –si e la trasformazione della /ē/ in /a/
perché forse il verbo (anche se rappresentato da quest’unica voce) è
stato inserito nella coniugazione latina dei verbi in –are.
Traendo
il succo di quanto detto finora, ribadisco l’affermazione fatta all’inizio, che
per me è assodato che in tutta l’Italia centro-meridonale si parlassero dialetti greci ben prima del
periodo magno-greco (VIII-VII sec. a. C.), dialetti che possono essere definiti come micenei perché
appartenenti probabilmente a quella civiltà (II millennio a. C.). Resterebbe da spiegare, comunque, il prevalere,
nei termini che ho individuato, delle forme doriche conservative in ᾱ (alfa) lunga, presenti del resto anche
negli altri dialetti tranne nell’ionico-attico dove l’ᾱ muta in η (eta). D’altronde
la ricerca genetica di Luca Cavalli Sforza condotta su campioni di sangue non
lascia dubbi sulla presenza più o meno marcata di geni greci nel sangue degli
italiani abitanti in quest’area geografica, ed anche oltre. Pertanto io penso che anche i diversi
grecismi della cosiddetta Tavola di Agnone nel Molise (III sec. a.C.) debbano
essere interpretati non come frutto di contatti religioso-culturali più o meno intensi
con la Magna Grecia ma come patrimonio epicorio di quelle popolazioni che
l’avevano ereditato ab antiquo dai loro antenati micenei[26]. Infine non risulta nessuna notizia o indizio
di trasferimento consistente di popolazioni dalla Magna Grecia verso le nostre
terre.
Il problema della presenza di parole greche nei dialetti abruzzesi, prima del periodo magnogreco, mi si era presentato già qualche anno fa, nell'articolo del 3/12/2012: La Madonna della Libera di Pratola Peligna (nota 9).
Il problema della presenza di parole greche nei dialetti abruzzesi, prima del periodo magnogreco, mi si era presentato già qualche anno fa, nell'articolo del 3/12/2012: La Madonna della Libera di Pratola Peligna (nota 9).
[1] Cfr. L. e F. Cavalli
Sforza, Chi siamo, Ediz. CDE
spa-Milano (su licenza della A.
Mondadori S.P.A.), 1993.
[2] Il verbo mi è noto per esperienza diretta. Esso comunque ricorre frequentemente nel
centro-meridione d’Italia.
[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003.
[4] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi,, Grafiche
Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[6] Cfr. sito web:
glosbe.com/nap/it/mbambanì
[7] Cfr. Q. Lucarelli, cit.
[8] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, Avezzano-Aq
2002.
[9] Cfr. Q. Lucarelli, cit. nonché Buzzelli-Pitoni, cit.
[10] Cfr. G. Proia, cit.
[11] Mi vengono in mente le voci
di Aielli e altri paesi ‘mbëcà (ssë )‘sporcar(si)’ e ‘mbëcónë ‘sporcaccione,
imbrattatore, pasticcione’ che rimandano al lat. pic-e(m) ’pece’.
[12] Cfr. G. Devoto, Dizionario etimologico, Edizione CDE
spa- Milano, 1984 s.v. palta.
[13] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Edit., Cerchio-Aq. 2004. La stessa voce pell-inë significa anche ‘di vista corta’.
In questo caso essa è da riportare, credo, al gr. peli-ós ‘fosco, scuro’, con le varianti péll-os e pell-ós dallo stesso
significato.
[14] L’informazione me l’ha gentilmente data il
pastore Tonino Maccallini detto i
ruscë
‘il rosso’, che ringrazio.
[15] Cfr G.Gemoll, Vocabolario
greco-italiano, Ediz. Sandron, Firenze 1951, 23.sima ediz.
[16] Cfr. Q. Lucarelli, cit.
[18] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, cit.
[19] Cfr. M. Marzolini, “…me ‘nténni?”, Arti grafiche Tofani,
Alatri-Fr 1005.
[20] Cfr. Buzzelli-Pitoni, cit.
[21] Ho portato begli esempi di etimologia
popolare nell’articolo Il rosmarino […] presente nel mio blog (dicembre 2013).
[22] Cfr. C. Lapucci, Modi di dire della lingua italiana, Valmartina Editore, Firenze
1969.
[23] Cfr. sito web: www.scanno.org/scanno_termini_dialettali.htm. L’abbinamento oscurità del volto = ira, risentimento è antichissimo, com’è
naturale. Nel 1° libro dell’Iliade Omero paragona il dio Apollo, che si
precipita irato contro i Greci dalle vette dell’Olimpo, alla notte (nyktì eoikós ‘simile alla notte’, v.47). Il Monti tradusse: […] ed ei simìle/a fosca notte giù venìa […].
[26] Cfr. Aa. Vv. Popoli
e civiltà dell’Italia antica, v. VI, Biblioteca di Storia Patria, Roma
1978, p. 830 sgg. e p. 1080 sgg.
Che ne pensa del termine 'addonarsi - addunato' che sta a significare accorgersi di qlc?
RispondiEliminaGentile lettore, la prima regola di civiltà è di presentarsi con nome e cognome. Comunque se lei ha pazienza e qualche preparazione linguistica e filosofica credo che capirà quanto dico nel post intitolato "Principi di gnoseologia..." dell'agosto 2013. Vi troverà, tra l'altro, la risposta che cerca. Comunque il verbo da lei citato ha svariati altri significati. Grazie dell'osservazione
EliminaPietro Maccallini