Stupisce certamente anche me notare
che non poche sono, nei nostri dialetti, le parole che possono ragionevolmente
essere ricondotte alla lingua greca ma che non presentano nessuna
caratteristica che possa farle qualificare come termini culturali, tecnologici,
burocratici, commerciali più o meno facilmente veicolabili da un paese
all’altro, da una lingua all’altra.
Segno — come
affermavo nell’articolo Nella Marsica, ma
anche altrove in Abruzzo […] del mio blog— della presenza materiale di
popolazioni greche nella nostra terra a partire perlomeno dalla metà del II
millennio a.C. Non può quindi in alcun
modo trattarsi di prestiti linguistici provenienti dalle città magnogreche. Il caso di crisómmela ‘albicocca, pesca’ diffuso in tutto il centro-meridione
d’Italia è secondo me emblematico. I
linguisti affermano che il termine corrisponde al gr. khrysó-mēlon ‘mela cotogna’ ma, letteralmente,
‘mela d’oro (khrysó-)’. La questione
va a mio avviso posta in altri termini: il greco stesso evidentemente rietimologizzava
una parola antichissima per ‘rotondità, bulbo, palla, testa, ecc.’ composta di
due componenti tautologiche. A Torano-Ri la voce suddetta indica infatti la
’testa’[1]
tout court: c’è una bella differenza tra l’uno e l’altro referente per quanto
riguarda la dimensione! Pertanto è difficile immaginare un uso figurato del
termine partendo dal valore di ‘albicocca’.
A Magliano Romano i carasò-mmeli
sono i testicoli del toro, mentre a Spinazzola-Ba la voce craeso-maelae indica ‘grossa defecazione’, significato che può
rientrare in quello di ‘grumo, cumulo, mucchio, ammasso’ vicino a quello di
‘rotondità, protuberanza’[2].
Questi fatti ribadiscono che la parola molto
difficilmente è da ricondurre supinamente
al gr. khrysó-mēlon ‘mela
cotogna’, e fanno piuttosto capire che essa era in circolazione almeno in
quest’area della Grecia e dell’Italia centro-meridionale da moltissimo tempo, così da poter risalire addirittura alla più o meno profonda preistoria e
risultare molto anteriore sia alla civiltà micenea (II millennio a.C.) sia a
quella della Magna Grecia (VIII-VII sec. a. C.). Gli uomini preistorici si spostavano molto,
soprattutto prima della scoperta dell’agricoltura (10-12mila anni fa). La vicenda, poi, dei vari significati che
questa parola presenta nelle varie lingue e dialetti ci invita a riflettere sul
modo in cui da una radice originaria con un significato altamente generico come
è quello di ‘rotondità’ si sono sviluppati gli altri. Il processo non
assomiglia affatto a quello di una tranquilla successione lineare in cui un
significato rampolla col tempo dall’altro, come saremmo portati a credere
semplificando e distorcendo terribilmente il fenomeno. Il significato generico d’origine è spinto a
specializzarsi, per il semplice motivo che una lingua con soli significati
generici richiede un maggiore sforzo di comprensione da parte dell’ascoltatore che, per così dire, deve mettere a fuoco il
vago messaggio che riceve, adattandolo alla situazione specifica. Questo fenomeno per la verità si verifica
anche oggi con le lingue moderne, ma in misura molto minore. Le diverse messe a fuoco di una medesima comunicazione
linguistica, infatti, sono alla base delle diverse posizioni dei critici nei
confronti delle opere di un medesimo autore. Bisogna prendere atto, allora, che
una parola ereditata da più comunità che si sono diramate da una iniziale, nel
naturale e continuo espandersi degli uomini nomadi verso le terre circostanti,
è destinata allo stesso modo ad allargare il ventaglio dei suoi significati i
quali potrebbero, al limite, nascere anche contemporaneamente nelle varie
comunità: non è il tempo, per quanto
importante, il fattore essenziale della diaspora dei significati, bensì la
formazione di agglomerati umani separati che saranno spinti a specializzare in
modo diverso il significato generico di una parola ereditata in comune.
Così,
ad esempio, il concetto di “rotondità” potrà assumere i significati più diversi
da esso dipendenti quali bacca, palla, pomo, mela, pera, testa, capo, colle,
monte, pietra, masso, escremento animale rotondeggiante, ecc., ecc. L’incrocio col significato di altri termini
più o meno omofoni, con cui una lingua viene molto spesso a contatto, amplia
enormemente le possibilità di questo vitale fenomeno di specializzazione. Nel gr. khrysó-melon, come abbiamo già visto, la prima componente khrysó-, che inizialmente indicava una
‘rotondità’ come la seconda componente, si è avuto l’incrocio col sostantivo gr.
khrys-ós ‘oro’ che ha piegato il composto
(nel quale il membro -melon aveva
assunto già il significato specifico di ‘mela’) a significare ‘mela d’oro’
sollecitando una nuova messa a fuoco del significato e anche l’individuazione,
tra i vari tipi di mele, di quello più rispondente (la mela cotogna) al nuovo
significato di superficie. Per questo
motivo è spessissimo vano, come ho più volte sottolineato negli altri articoli,
pensare che le parole siano nate per nominare il referente che si trovano oggi
ad indicare, il quale spessissimo è lontano da quello d’origine. Questa consapevolezza risulta molto utile
nell’individualizzazione degli etimi giusti: quando l’etimo presunto di un
termine è piuttosto lontano dal significato nudo e crudo del rispettivo
referente si può essere praticamente certi che bisogna ancora scavare per trovare quello giusto, il quale dovrà per forza combaciare con quel significato.
Si dà il caso, infatti, che a Trasacco la voce
crisò-mmëla di cui si discute, oltre al
significato consueto di ‘albicocca’
ne abbia un altro del tutto diverso: ‘zampata, graffiata di animale artigliato’.
Come mai? Cosa è successo? Nulla di eccezionale! La parola, che come abbiamo
affermato è antichissima, all’origine possedeva un significato genericissimo, a
monte sia di quello più diffuso di ‘rotondità’, come abbiamo notato, sia di
quello attualmente raro di ‘graffio, graffiata’. La rotondità è una specializzazione della protuberanza, che è effetto di una spinta, e una graffiatura
(e simili) è effetto ugualmente di una pressione
di un oggetto su un altro. Più
concretamente, va notato che in alcuni
dialetti italiani (viterbese, marchigiano, salentino, ecc.) la voce cresimà (e varianti) vale anche ‘danneggiare,
rompere, lesionare, escoriare’. Si sa
che l’it. cresima deriva da gr. khrîsma ‘unzione’, a sua volta dal
verbo gr. khrí-ein ‘ungere,
spalmare’ ma anche ‘pungere, ferire, picchiare, scalfire, ledere’. Questa
radice khris- (col valore in questo
caso di ‘scalfittura’) si può individuare facilmente nel primo componente di
trasaccano crisò-mmëla
‘graffiatura (di animale unghiato)’. Il secondo componente corrisponde a mio
avviso al secondo elemento di it. gra-mola, strumento per dirompere gli
steli di canapa[3], col
valore in questo caso di ‘dilacerazione, scalfittura’.
Il viterbese cresimà ‘cresimare’, ma anche ‘ferire
picchiando’ e in forma riflessiva ‘prodursi escoriazioni soprattutto sulla
fronte’[4], è
emblematico del modo in cui i significati si plasmano, stando a contatto o
incrociandosi con altri significati dello stesso termine d’origine o di altri
termini. L’autore del vocabolarietto
dialettale naturalmente pensa che tutti i significati della voce cresimà, tranne quello di ‘cresimare’,
siano scaturiti in via figurata da quest’ultimo
ritenuto proprio. E così penso che nemmeno si preoccupi di andare a
controllare i significati del verbo gr. khrí-ein ‘ungere, spalmare’ ma anche
‘ferire, picchiare, ecc.’ come abbiamo visto. Allora è da pensare che anche
questi ultimi significati fossero legati ab antiquo alla voce viterbese cresimà e non derivati successivamente
da quello ritenuto proprio. La cosa potrebbe anche far pensare alla presenza di questo termine in queste
aree geografiche già prima dell’avvento del Cristianesimo, come eredità dei
Greci micenei, considerato che nel greco classico il sostantivo khrísma (da cui it. ‘cresima’) non
aveva il significato di ‘colpo, ferita’ presente invece nel relativo verbo: il
sostantivo poteva avere anche questo
significato in qualche parlata a noi ignota del greco miceneo. Inoltre c’è da notare che sia il significato
di ‘ungere,spalmare’ che quello di ‘ferire’ scaturiscono anch’essi da uno
anteriore comune di ‘passare la mano (o altro) su un corpo (con intenzione
carezzevole o con intenzione violenta o ostile)’. La precisazione «soprattutto sulla fronte» rivela che il verbo era spinto verso ulteriore
specializzazione del suo significato di ‘ferire’ dal fatto che la cresima era ed è impartita solitamente dal vescovo, il quale unge a questo scopo la fronte del cresimando tracciandovi un
segno di croce con olio benedetto. Benchè il buffetto dato dal vescovo sulla guancia
destra del cresimando si inscriva in tradizioni consimili di investitura come
l’alapa militaris ‘schiaffo militare’
romano, la motivazione per me più impellente per questo atto (checchè ne
pensino gli studiosi) sta tutta nel significato di ‘colpire’ contenuto nel
verbo di cui sopra che assomiglia pure al verbo gr. krû-ein ‘colpire, percuotere’ col
relativo sostantivo krûma
o krûsma ‘colpo, percossa’. Ad Avezzano, nella Marsica, cresimà significa ugualmente ‘assestare
uno schiaffo’ allo stesso modo in cui il vescovo dà un buffetto al cresimando — spiegano gli autori del vocabolario da cui prendo
questa voce[5].
E’ chiaro, dunque, che la cresima dei Cristiani si è appropriata
il primo piano tra gli altri significati della parola i quali finiscono col
pagare lo scotto all’altro, pur potendo essere stati gli unici che la parola avesse
in territorio italiano prima dell’avvento del Cristianesimo.
Anche i termini cosiddetti eufemistici, che
si usano per evitare la crudezza di quelli più diretti e che quindi proprio per
questa loro natura sembrerebbero inventati ad hoc dal parlante, in realtà sono
in genere parole desuete che in strati linguistici precedenti avevano la stessa
crudezza che vogliono eliminare[6]. La Lingua ricorre a tutti gli stratagemmi
per ottenere quello che le necessita al minimo costo riciclando, quando
è possibile, il materiale di scarto.
Volesse il cielo che i politici ne seguissero l’esempio!
Le
parole sono solitamente antichissime e travalicano facilmente i limiti della
romanità. Un verbo come
l’abruzzese-laziale assëmà ‘diminuire, togliere, sfoltire’ a Trasacco nella Marsica
assume anche il significato di ‘far coincidere il contenuto liquido di una
bottiglia o di una lattina con una tacca
che indicava la misura esatta nelle usuali operazioni di vendita al minuto’[7]. In questo significato mi pare chiaro che ci
sia lo zampino, per così dire, del termine greco sêma ‘segno’, diffuso, nella forma sima e spesso col valore di ‘cicatrice’, nel Salento, Lucania,
Calabria, Sicilia e, nella forma semu, in
Sardegna. In Abruzzo e a Trasacco
questa voce, che io sappia, non è attualmente presente: ma, a giudicare dal
significato del verbo del dialetto trasaccano, si deve dedurre che essa lo era
nel lontano passato preromano, quando evidentemente il greco non era una lingua
straniera dalle nostre parti. A Valenzano-Ba la voce assemà vale ‘accorgersi, intuire, fiutare’[8]:
anche qui come non vedervi l’influsso della stessa radice presente, in forma
ampliata, nel verbo gr. semaín-ein ‘indicare, segnalare, ordinare, far comprendere’ ma anche
‘fiutare, rintracciare (detto di cani)’[9]? A Trasacco il verbo intensivo e riflessivo rassëmàsse vale anche ‘evaporare’, significato
scaturente dalla diminuzione del
volume di un liquido in un recipiente per effetto della evaporazione.
Ora
passiamo a definire l’etimo della radice in questione nel significato di
‘riduzione, diminuzione, sfoltimento’.
Tutti i linguisti pensano giustamente che il verbo abbia la stessa
radice di it. scem-are ‘diminuire,
ridursi, ecc.’ che risalirebbe al lat. tardo *ex-sem-are (dall’agg. sem-um ‘mezzo, non pieno’, lat. class. semi- ‘mezzo’, gr. hēmi-) da cui il dialettale assëmà,
col significato di partenza di ‘ridurre a metà’. Ma in provenzale sem-ar[10],
oltre che ‘diminuire’, significa ‘separare, privare’, valori che a mio parere
mal si adattano all’altro e, piuttosto, richiamano l’avverbio del dialetto di
Valenzano-Ba che suona sìm-ëtë e vale ‘separatamente, da parte, in disparte’. Oltre a ciò, il lat. tardo sem-u(m) valeva anche ‘mutilato’ e il verbo
sim-are (sem-are) valeva ‘mutilare’[11].
Allora è legittimo cercare una radice più appropriata col significato di
‘tagliare’ come quella da me individuata già diversi anni fa e che appare nei
termini gr. smi-nýe ‘bidente,
zappa’ e smí-le ‘coltellino,
trincetto, scalpello’[12]. Ma le profondità della Lingua sono
spessissimo vertiginosamente abissali e i due concetti di “parte” e “metà”
saranno forse da riannodare insieme in quanto la metà è comunque una porzione
di un tutto: la radice sem può indicare sia l’unità, il
tutto che la parte di un tutto, come abbiamo visto nei precedenti articoli[13]. Che il verbo assëmà fosse connesso con una radice per ‘tagliare’ ce lo
suggerisce anche il significato particolare che esso assumeva a Trasacco: il
contadino d’un tempo, quando vendeva i cereali usando come misura la coppa (un recipiente di doghe di legno
strette tra loro che poteva contenere circa 11 Kg di cereali), era solito passarvi sopra un listello per
pareggiare il contenuto e determinarne una misurazione precisa, eliminando l'eccedenza. Il listello era chiamato rasóra (it. rasièra), cioè strumento atto a radere, che permetteva di assëmà (raschiar via, tosare) il contenuto, appunto[14].
Interessantissime per diversi motivi, come vedremo, sono le voci del
dialetto trasaccano e di altri come scénna
d’àjje e scénna de cipólla che
significano rispettivamente ‘spicchio d’aglio’ e ‘spicchio di cipolla’. Le due espressioni
assumono anche i significati di ‘aglio o cipolla interi appena sradicati con
tutto il fusto’. A me sembra che la voce
scénna non sia altro, in questo caso,
che il gr. skhîn-os ‘scilla,
cipolla marina’. Skhino-képhalos ‘testa (oblunga) di cipolla
marina’ era in fatti il nomignolo del grande Pericle (495-429 a.C.). Il dialettale scénna (sciòenna a
Castiglione Messer Raimondo-Ch.) nei nostri dialetti significa normalmente
‘ala’. Tutti i linguisti lo derivano dal
lat. axill-a(m) ’ascella’, diminutivo del lat. ax-e(m) ‘asse (del carro, mondo)’, ma io
ho i miei legittimi dubbi. In effetti
queste voci dialettali, per il meccanismo che abbiamo visto operante, tra
l’altro, nella parola it. cip-olla[15],
possono prestarsi ad indicare sia il tutto
(cipolla o aglio) sia la parte
(spicchio o squama). Anche la parte superiore della piantina della cipolla ha
l’aspetto di un cespuglio costituito dalle varie foglie inguainate alla
base. Il gr. skhoîn-os, simile a skhîn-os, significa ‘giunco, ciuffo di giunco’, una piantina di aspetto
cespitoso anch’essa. Ebbene, questi sono
tutti significati che rimandano a quello di ‘gruppo, insieme’ simile, se
vogliamo, all’insieme costituito dalla serie di penne, ben ordinate, che danno
forma ad un’ala. E’ quindi più che legittimo, secondo i principi
ormai assodati della mia linguistica, avvicinare il dialettale scénna ’ala’ a questi termini greci che esprimono concetti similari[16].
Skhoîn-os vale anche ‘porzione’ e si riaccosta
così all’idea di ‘parte, spicchio’. Continuando questa operazione scardinatrice
di punti fermi segnati dalla linguistica tradizionale, asserisco con forza che
lo stesso lat. al-a(m) ‘ala’ non è
un derivato da lat. ax-e(m) ‘asse’
attraverso una supposta forma *a(ks)la
(che pure trova riscontro nel ted. Achsel
‘ascella’) ma che esso vada avvicinato piuttosto al ted. all ‘tutto, ogni’, gr. al-és ‘radunato, coacervato, stretto’, gr.
alí-a ‘assemblea’, lat. alli-u(m), ali-u(m), al-u(m) ’aglio’,
in quanto ‘insieme di spicchi o di foglie’.
In latino il termine al-a(m) indicava anche l’ala
dell’esercito dove normalmente era schierata la fanteria alleata insieme a
squadroni di cavalleria ausiliaria, ma a
mio avviso non bisogna farsi ingannare: Virgilio usa questo termine per
‘squadre di cacciatori o battitori’[17]. Forse anche il lat. ele-mentu(m) ‘elemento, lettera dell’alfabeto, atomo’ appartiene a questo gruppo.
In
abruzzese si incontra anche la voce scélla
’ala’[18] che
deriverà, questa sì, da lat. axill-a(m), ma non ne sono completamente sicuro perché in gr. si ha
anche skíll-a ‘scilla,
cipolla marina’ che ha tutta l’aria di essere una sorta di variante di gr. skhîn-os di cui sopra, dall’identico
significato. Che l’analisi da me
condotta sul dialettale scénna colga
nel segno me lo conferma il gr. skené
‘scena, baracca, palco, ecc.’, termine che all’inizio doveva indicare qualsiasi
struttura in legno composta, appunto,
di più elementi interconnessi. Nel
dialetto di Trasacco, poi, si incontra anche la voce squën-ócchië o scun-ócchië ‘rumore caratteristico di qualcosa che viene spezzato,
schiacciato o semplicemente sottoposto a pressione come le nocche delle dita’
ma anche, stupendamente, ‘spicchio di cipolla’[19].
Questo fatto ci dà la sicurezza che la forma scénna ‘ala, spicchio’ non può derivare da lat. ax-ill-a(m) ‘ascella’, come sostengono tutti, ma da un termine corrispondente al gr. skhîn-os ‘cipolla marina, scilla’, col
suffisso diminutivo lat. -culu(m). Il
termine si è poi appoggiato a squën-ócchië (c’è anche il verbo squënucchià
‘crocchiare, ecc.’ il quale meriterebbe un’analisi etimologica, che rimando ad
altra occasione) per mantenere la pronuncia gutturale senza trasformarla nella
fricativa palatoalveolare sorda di scénna[20].
Altri sicuri grecismi sono il sostantivo femminile singolare leppa ‘scaglietta di legno, fuscello’ ad
Aielli; ‘insieme degli stecchetti che restano attaccati alla fibra della
canapa, dopo la gramolatura’ a Trasacco.
Interessante la precisazione del Lucarelli che definisce il termine come
collettivo. In greco si ha in effetti il
sostantivo neutro lépos, che al pl.
diventa lépē < lépea. La voce
trasaccana potrebbe essere il risultato, quindi, di un neutro plurale,
diventato poi femminile singolare collettivo. La stessa cosa è avvenuta per
l’it. foglia, originariamente neutro
plurale di lat. foli-u(m) ‘foglia, foglio’.
E’ incredibile! Come nell’espressione a mezza
rèsta ‘a metà’[21]
che nascondeva un superlativo greco, anche qui si arriva forse a rintracciare la
morfologia di tanti millenni fa!
L’aiellese arcaico cia-fàgna[22] ’afa,
specie quella del caldo torrido e umido’
sarà emanazione diretta del gr. dia-phan-és che significa ‘trasparente’ ma anche ‘ardente,
infuocato’. Il passaggio dia- > cia- lo abbiamo già spiegato a proposito del termine
dialettale trasaccano ciàlëfë ‘fango’
nell’articolo Nella Marsica, ma anche
altrove in Abruzzo […] presente nel mio blog (giugno 2014).
Veramente strano è l’avverbio e aggettivo
trasaccano strèusë (stràusë ’strano, bizzarro’ ad Aielli; strévësë/strévëzë[23]
‘strano, eccentrico’ ad Avezzano) che
nel gioco indica la mano a rovescio, rispetto al modo
tradizionale di distribuire le carte, concessa per scaramanzia una volta sola
in una partita. Come aggettivo vale ‘strano, dal carattere scontroso’ o ‘che fa
le cose non rispettando le regole o la tradizione’. Nel vocabolario abruzzese del Bielli la voce
suona strèuzë ‘strambo, sbilenco’.
Ora, a me pare che la radice alla base di questa curiosa parola sia quella del
verbo gr. stréph-ein ‘volgere,
rivolgere, rovesciare, torcere, lussare, sconvolgere, ecc.’, radice che non
solo aveva diverse varianti apofoniche, ma poteva ricondurre la labiale
aspirata /ph/ a labiale sonora /b/ come in gr. strebl-ós ’torto, losco, astuto’, gr. strób-os ‘vortice’, gr. stróbil-os ‘trottola, pigna’[24],
Nel Bielli si incontra anche la voce stravisë ‘scortese, senza garbo,
sciattino, cosa fatta senza garbo’, la quale deve essere l’immediato precedente
della forma aiellese stràusë, con
l’accento tonico però spostato a quanto pare sulla penultima sillaba: se lo
ricollochiamo sulla prima, dove secondo me si trovava all’inizio, otteniamo una
forma stràvisë da cui stràusë. All’origine possiamo allora porre un
legittimo gr. *strabis-os che, nella
variante *strebis-os, è testimoniato dal gr. streps(i)- ‘torto’ usato come primo elemento di composto. Faccio
presente ai gentili lettori che non conoscono il greco che in questa lingua
qualsiasi labiale (sorda, sonora, aspirata) dinanzi alla sibilante /s/ diventa sorda. Un’altra voce presente nel vocabolario del
Bielli è strëvérië ‘persona senza
garbo, deforme, sciatta. Lavoro fatto alla peggio’: sembra di stare a leggere i
significati del sopraccitato stravise,
perché evidentemente la parola sfrutta la stessa radice strev-,streb-, strav-, strab- di cui abbiamo parlato, ampliata in -er.
Ad Aielli strëvérië ha
mantenuto solo il significato di ‘bruttissima’ (scaturito da quello di
‘deforme’) riferito esclusivamente a donna che più brutta non si può (E’ nu strëvérië!).
Il
trasaccano trufëlà ‘ingrassare,
nutrire abbondantemente, divenire rotondetto, ecc.’ rivela una chiara radice
greca, quella del verbo tréph-ein ‘nutrire, alimentare, far crescere, condensare, coagulare,
ecc.’ con i derivati troph-é ‘nutrimento, cibo, viveri’, troph-alís ‘formaggio, caciotta’ (come effetto della coagulazione), traph-er-ós ’solido, fermo, pingue, ben
nutrito’, ecc. Ad Avezzano con tritéjjë
oppure truféjjë[25]
si indicava il ‘grano grossolanamente macinato, usato per confezionare mangimi
per gli animali’. In italiano abbiamo il
termine tritello che significa più o
meno la stessa cosa e rimanda etimologicamente a tritare. Il concorrente truféjjë dallo stesso significato
dovrebbe significare semplicemente ‘alimento, mangime’, stando a quello che
abbiamo detto poco fa sulla radice di gr. tréph-ein ‘nutrire, ecc.’. Ma un alimento non deve essere per forza
triturato per essere tale. Un principio
della mia linguistica stabilisce, infatti, che la Lingua è solita nominare i
referenti molto direttamente: quindi bisogna prendere atto che l’idea della triturazione è diversa da quella dell’alimentazione. Epperò in greco esiste una parola come trýph-os ‘frammento, pezzo’ (cfr. gr. thrýp-t-ein ‘rompere, stritolare, sminuzzare’) che va a pennello per l’avezzanese truf-éjjë ‘tritello’. Incredibile! Un dialetto che, come il marsicano, distingueva tra
le due radici simili (che oggi sono inevitabilmente confuse tra loro) per
‘nutrire, far crescere’ e per ‘triturare’, due nozioni assolutamente essenziali
per le comunità contadine preistoriche e perciò espresse con parole certamente autoctone
(non importate da pastori transumanti!), ci grida a gran voce che in tempi
lontanissimi qui il greco era di casa.
Che bella riconferma!
Ad
Aielli la voce tròfëla indicava un
‘denso cespuglio’, magari isolato. Nel vocabolario
del Bielli si incontra trofë ‘pianta
di gran cesto; ulivo che ha molti tronchi rigogliosi sulla stessa ceppaia;
gruppo di gambi da una sola radice’.
Siamo sempre nell’ambito della crescita,
più o meno rigogliosa, espressa dalla radice di gr. tréph-ein ‘far crescere, nutrire’ che ha qualcosa a che fare, a mio
avviso, con l’ingl. thrive ‘crescere vigoroso, crescere rigoglioso, prosperare’. Molto interessante è la voce calabrese trifalùnu 'spineto,complesso di arbusti spinosi' e in senso figurato 'donna grassa e ingombrante' (cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato I Dialetti Italiani, UTET 1998). Il termine vi viene spiegato come " accrescitivo di trifàla 'groviglio di arbusti spinosi', voce di apparenza greca che non trova, però, nessun riscontro nel vocabolario ellenico, passato e presente". Il significato figurato si riscontra anche nella voce abruzzese trùfele, usata per indicare un bambino molto grasso (cfr. D. Bielli, cit.) ma anche per 'deretano'. Come si può ben vedere da questi esempi, il significato di fondo di questa radice è molto generico, come del resto avviene per le altre.
Ricordati, o Critone, che dobbiamo un gallo ad
Asclepio. Queste furono le ultime enigmatiche parole di
Socrate, il più saggio di tutti gli uomini, a detta dell’oracolo di Apollo a
Delfi. Una persona specchiata che moriva
(per rispettare la legge ateniese, perché avrebbe potuto salvarsi!) ad opera di
politici che volevano liberarsi di un uomo la cui vita e la cui stringente
dialettica, manifestata nelle piazze e vie di Atene, erano come un tafano fastidiosissimo
per le loro cattive coscienze (399 a.C.).
Viva l’onestà, abbasso
i ladroni e gli imbroglioni di ogni risma!
[2] Cfr. il mio post Commento dell’articolo di Riccardo Regis […] nel mio blog (novembre 2009), per un’analisi più
approfondita del termine crisòmmela.
[5] Cfr. U.Buzzelli – G. Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese,
Avezzano-Aq, 2002.
[6] Cfr. il post “Fischia-froce”=fischietto
[…] del
mio blog (aprile 2011), in cui si parla dell’eufemismo fresca usato al posto di fregna.
[7] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.
[9] Cfr. L. Rocci, Vocabolario greco italiano, Società
edit. Dante Alighieri, 1990.
[10] Cfr. il Vocabolario etim. di O.Pianigiani in rete, s. v. scemare
[11] Cfr. in rete: Du Cange, Glossarium mediae et infimae
latinitatis.
[14] Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà A-E,cit.
[15] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo,
Avezzano-Aq 2003.
[16] Cfr. per la voce scenna l’articolo L’abruzzese zecchine ‘scintille’ […] nel mio blog (ottobre 2011). Lì ancora accettavo l’etimo corrente per scénna, dal lat. axilla(m)’ascella’.
[17] Cfr. Virgilio, Eneide, IV, 121.
[18] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla
edit., Cerchio-Aq, 2004.
[19] Trasacco farebbe bene ad onorare
adeguatamente, se ancora non lo ha fatto, Quirino Lucarelli, autore ormai
deceduto dei tre tomi dell’opera citata Biabbà.
Egli vi ha lavorato con amore per tutta la vita innalzando un vero e
proprio monumento al dialetto e alle tradizioni del paese. Il suo lavoro ha spianato la via alla mia
linguistica.
[20] Tutta la questione di scénna e squënocchië l’avevo già trattata nell’articolo L’abruzzese zecchìnë […] presente nel mio blog (ottobre 2011). Me ne ero dimenticato. Allora ero meno esperto circa il rapporto tra
la parte e il tutto, ma il risultato cui giungevo era lo stesso.
[22] Cfr. G.Gualtieri, La Crestonta, Edizioni dell’Urbe, Roma 1984, p.98.
[23] Cfr. U.Buzzelli-G. Pitoni, Vocabolario
del dialetto avezzanese, Avezzano-Aq
2002.
[24] Vale la pena ricordare che anche gr. strómb-os , che presenta la stessa radice ampliata con l’iserimento della
labiale /m/, vale ‘trottola’. Il termine
ha dato origine al centro-meridionale strùmmëlë ‘trottola’.
[25] Cfr. U.Buzzelli-G. Pitoni, cit.
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