ĺscia!!!
oppure íiih!!! si gridava dalle nostre parti al
cavallo quando si voleva che si fermasse.
Secondo me si tratta del puro gr. ískhe (imperativo presente, 2 pers.
sing.), col significato di ‘fermati!, trattieniti!’ del verbo gr. ískh-ein, forma secondaria di ékh-ein ‘avere, tenere, trattenere,
fermar(si) ecc.’ e con la normale palatalizzazione del nesso consonantico –skh-. ĺscia si è inserito poi nella 1°
coniugazione, latina e italiana, dei verbi in -are. Nel Vocabolario abruzzese del Bielli[1]
è registrato il lemma jsce! (pronunciato íscë!) con la spiegazione: ‘voce per
fermare un somiere o nel vedere che sdrucciola’. Ora il somiere
è un animale da soma, categoria in cui rientra il cavallo, ma soprattutto
l’asino e il mulo. Quindi l’ordine di fermarsi originariamente era diretto
almeno a tutti gli animali del genere Equus. A Trasacco lo stesso comando,
rivolto ai buoi che trainavano il carro, diventava èeeh![2]. Come mai? Anche qui bisogna fare i conti
con la lingua greca. Questa forma dovrà risalire, infatti, al gr. ékh-e ‘fermati!’ o ékh-ete ‘fermatevi!’ (imperat. pres. 2 pers. sing. e pl. del verbo gr.
ékh-ein di cui sopra). Va da sé che col
passare del tempo e la perdita della consapevolezza del valore preciso di questi comandi,
rimaneva solo la forma singolare, la più usata, col valore di
interiezione. Nella lingua nulla, a mio
avviso, accade senza un motivo anche se noi non sempre, per mancanza di dati
reali e per nostra ignoranza, riusciamo a scovarlo. Ma qui io credo che si possa ragionevolmente
sostenere che questa restrizione del comando ai soli buoi sia dovuta
all’influsso, in tempi lontanissimi, di un termine come l’ingl. ox
‘bue’, gallese ych ‘bue’, gr. okheî-on ‘stallone; qualunque animale tenuto
per far razza’ incrociatosi col comando.
In quel di Latronico-Pz (Lucania) la voce isci ha lo stesso
significato di ‘fermati!’, ma essa viene usata non per il nobile cavallo bensì
per il suo simile, che riesce un po’ goffo e risibile al paragone, l’asino[3]. Come mai?
Anche qui io suppongo che la voce, inizialmente impiegata per tutti gli
animali di cui l’uomo si serviva per i suoi bisogni, abbia risentito della
vicinanza del gr. on-ísk-os ‘asinello’, parola che a sua volta si prestava al
gioco di essere intesa, per etimologia popolare, come ón(e), ískhe ‘asino (óne),
fermati (ískhe)!’. Riflettendoci bene, però, qualcuno potrebbe
obbiettare a ragione che lo stesso gioco poteva ripetersi col gr. hipp-ísk-os ‘cavalluccio’. Allora bisogna puntare lo sguardo ad una
radice simile a quella dell’armeno ēs ‘asino’, ted. Es-el ‘asino’ (che probabilmente fa il
paio con la prima componente di lat. as-in-um ’asino’ di cui, la seconda –in-, va a corrispondere tautologicamente al gr. ínn-os ‘muletto’, gr. hýnn-os ’muletto’) per poter pensare ad una variante palatalizzata *escë ‘asino’ incrociatasi col
comando ad essa simile isci
‘fermati’ di cui sopra[4].
Sempre
dalle nostre parti l’ordine di fermarsi impartito al somaro era poccë! con
qualche leggera variante qua e là. L’etimologia
di questa voce mi ha dato, e mi dà ancora, molto da fare. Sta di fatto, però, che nel dialetto di
Borgorose-Ri, paese confinante con la Marsica, il verbo ‘m-poccià vale ‘sostare’[5]
senza alcun cenno al somaro (almeno nello scarno elenco presente nel web) e nel Vocabolario
abruzzese del Bielli sopra citato pucce
significa anche ‘asino’ e ‘voce per chiamare l’asino e il mulo’. Con questo si riconferma il principio, da me
qualche altra volta affermato, secondo cui noi ricercatori potremmo
risparmiarci notti insonni passate alla ricerca tormentosa di qualche etimo.
Una cosa è certa: una volta individuato con sicurezza il significante di una
parola, non sbaglieremmo affatto a darle, senza nessun tentennamento, il
significato fondamentale e diretto della parola di cui cerchiamo l’etimo:
l’etimo è sicuramente quello, anche nel caso limite di non trovarne alcun
riscontro nelle lingue e dialetti nel corso del tempo. Per poccë
sarei comunque incline a considerarlo un imperativo di verbo denominativo del
tipo *pauc-ere, con la
stessa radice di lat. pauc-u(m) ‘poco’, la quale, come il lat. pau-sa(m) ‘sosta, cessazione, fine’,
richiama il gr. paú-ein ‘cessare,
smettere, riposare’. Talvolta nei
dialetti poccë! diventa poggia! subendo l’influsso di it. poggiare, col significato di ‘deporre,
posare, appoggiare, accostare’, che pare avere tutt’altra origine (cfr. lat. podi-um ‘rialto, podio, ecc.’). Ma non è
escluso che il significato di ‘fermare, sostare, riposare’ si sia evoluto da
quello di ‘poggiare’, perché nel vocabolario del Bielli sopra citato è presente
una forma ‘mpujà ’far sosta,
fermarsi’ derivante presumibilmente proprio da un precedente *im-podi-are.
Con
molta meraviglia, mi accorgo solo ora, riflettendo sul verbo ‘mpoccià ’sostare’ sopra citato, sul suo
sosia abruzzese ‘mpujà ’far sosta,
fermarsi’[6]
nonché su ‘mpuojjë ‘fermata, riposo’[7],
che le supposizioni precedenti sul loro etimo sono errate. La verità che giace
al fondo è sempre diretta, come vado ripetendo da molto tempo, e non ha bisogno
dell’intermediazione del lat. podium
‘podio’ di ascendenza greca. Il verbo infatti ha a che fare, a mio avviso, col
verbo gr. em-podé-ein, usato dal grammatico Discolo, equivalente al gr. em-pod-íz-ein
‘impedisco, impaccio, incateno’, da cui poté svilupparsi il significato di
‘stare saldo, fermo, saldare, fermare, sostare’. Solo che sia il lat. im-ped-ire
‘avvolgere, legare, impedire, intralciare, ecc.’ che il gr. em-pod-iz-ō
vengono spiegati da tutti i linguisti più o meno come «mettere (lacci) nei
piedi» facendo riferimento al lat. pes, ped-is ‘piede’ e al gr. poús, pod-ós ‘piede’. Errore molto grave: d’altronde i linguisti hanno l’obbiettiva
giustificazione che quello che le due parole mostrano in superficie son solo i
piedi e nient’altro. E’ vero. Ma è mai possibile che la Lingua per dare un nome
all’azione di ‘mettere i lacci’ indichi solo la parte del corpo dove quei lacci
andrebbero messi? Secondo me, no! Perché molti sono stati i casi che ho
incontrato, nei miei anni di ricerca, in cui bisognava scavare più a fondo, per
togliere l’incrostazione superficiale delle parole e arrivare al vero etimo.
Sicchè la spiegazione di questi verbi è a mio parere la seguente: «mettere i
lacci (nei piedi)». Cioè i verbi avevano all’origine un significato generale,
concreto e diretto, dell’azione di ‘allacciare’ e poi, quando si sono incontrati
con le rispettive parole per “piede”, hanno subito una specializzazione che ha
comportato una metamorfosi profonda. La quale ha stravolto il modo di procedere
della Lingua, facendo diventare addirittura sottinteso il significato
originario diretto (dei lacci che dovevano essere applicati) e mettendo in
bella mostra i “piedi” dove essi dovevano essere applicati. Si aggiunga inoltre il fatto che nel
frattempo queste radici per “laccio, legame” erano magari scomparse dalla
lingua, e l’operazione di oscuramento ermetico della verità diventava completa.
Tuttavia il diavolo sa fare le pentole ma non i coperchi, e qualcosa gli è
sfuggito che ci mette sulla giusta via. Le due voci latina e greca per “piede”
hanno anche un significato particolare quando indicano la ‘fune’ alla base
delle vele: ecco ricomparire allora il primitivo concetto di “laccio” sotto la
specie della “fune, scotta”! E tutto
l’inganno viene scoperto! In ogni modo, anche in questo caso, la forza delle
parole per “piede” nelle due lingue opera imperterrita: sì, è vero, le parole
hanno mantenuto il significato di ‘laccio, fune’ ma esso viene riservato solo a
quelle funi ai “piedi “ delle vele. Come viene spiegato, inoltre, l’agg. gr. ém-ped-os
‘saldo, stabile, incrollabile’? Si ripresenta il ragionamento artificioso
di « che sta (saldo) sul suolo –pédon)».
E così, come per la spiegazione degli altri termini, il concetto fondamentale
di “saldo” finisce indebitamente tra parentesi. Esso si è qui sviluppato,
invece, da quello di ‘legato, fermo, fisso’.
Naturalmente anche i numerosi altri casi simili in greco necessitano di
una spiegazione più semplice e diretta. Esiste
anche il termine podo-pédē ‘pastoia’ (sebbene in Tzetzes, 11° sec. d. C.) con le
due radici per “piede” unite, su cui non è però applicabile la solita errata
interpretazione. Insomma, si avrebbe qui il concetto di “pastoia” indicato con
quello di “piede” ripetuto nei due membri? Ma è mai possibile una cosa del
genere? La semplice verità è che il significato di ‘laccio, pastoia’ viene
ripetuto tautologicamente nei due membri. L’albanese pud (simile a gr. pod- ) significa ‘abbraccio, stringo
fermamente’. L’it. giuridico, storico ap-podi-are
significa ‘annettere, aggregare al dominio feudale’ ribadendo, quindi, l’idea
dell’ “unire, stringere”, da un lat. medievale *appodiare.
L’impoccià ‘sostare, fermare’ di cui
sopra, nel Lazio aveva anche il significato di ‘meriggiare’, detto delle pecore
che, nelle ore calde della giornata, si
aggregavano e stringevano, ciascuna
con la testa sotto la pancia dell’altra, all’ombra di qualche albero (se c’era)
per ripararsi dalla calura e dagli insetti.
Evidentemente qui il significato del verbo era quello fondamentale di
‘stringersi, connettersi, stare ferme e addossate l’una all’altra’ formando un
gruppo saldo, unito e non disperso. Del
resto non sarebbe del tutto campata in aria l’idea che il dialettale impoccià
nasconda sotto di sé la radice dell’avverbio greco pýka ‘in modo compatto,
saldamente’. Lo stesso significato ho potuto riscontrare nell’altro termine
dialettale abbafà usato per ‘meriggiare’[8].
Non si può quindi accettare la
spiegazione secondo cui il verbo deriverebbe dal fatto che il muso della pecora
premeva contro la poccia ‘mammella’
dell’altra.
Ma
chiuse queste considerazioni se ne aprono altre, ugualmente interessanti, circa
questo benedetto significato di ‘sostare, riposare’ e simili.
A Trasacco, nella Marsica, esiste il verbo appullà ‘dormire; andare a letto molto presto’[9]
fatto derivare, naturalmente dal lat. pull-u(m)
‘pollo, piccolo di altri animali’. Ma a
Rocca di Botte-Aq si incontra la voce appùju
che significa ‘luogo scelto, per passare la notte, dai volatili allo stato
libero’.[10] Il luogo non era che un grosso albero
fronzuto adatto per ripararsi durante la notte.
Questo termine appùju
ha la stessa radice del trasaccano appull-à
‘andare a dormire (dei polli)’: allora appare evidente che il verbo
trasaccano non può essere legato ai polli,
visto che nel dialetto di Rocca di Botte indica il luogo di riposo della notte
per tutti gli altri uccelli, magari tranne i polli. A me pare che come il verbo
it. apposare è un denominale da lat. paus-a( m) ‘pausa, sosta’, ampliamento della radice del verbo gr. paú-ein ’far cessare, smettere, ecc.’, così
il verbo trasaccano ap- pull-are ‘andare a dormire’ deve essere denominale dal gr. paūla
‘ riposo, quiete, cessazione’ col prefisso lat. ad ‘a,verso’.
Naturalmente l’appùiu ha subito la palatizzazione della liquida –l-,
fenomeno antichissimo, ma che non ha interessato, almeno nei nostri dialetti,
la parola pollo. Anche in latino esisteva la radice paul-u(m) , ma col significato di ‘poco’,
come lat. pauc-u(m) ’poco’:
tutte e due erano ampliamenti della radice di gr. paú-ein ‘far smettere, cessare’.
Nel dialetto di Luco dei Marsi si incontra appullà ‘appollaiarsi per
dormire (dei polli)’ molto simile all’altra, presente anche a Luco dei Marsi,
di appojà ‘che significa sia ‘poggiare,
appoggiare’ sia ‘posare, riposare’ collegandosi così anche alla radice pod- che abbiamo supposta, più sopra, per impoccià
‘sostare’: allora sorge spontanea la domanda, se si tratta di due radici
diverse che finiscono per confondersi anche nella forma arrivando allo stesso
significato di ‘fermarsi’, l’una partendo dall’idea di ‘cessare, smettere’ (paū-ein), l’altra da quella di ‘stringere,
saldare, fermare’ (em-pod-ìz-ein ‘impedisco, incateno’). A me sembrano percorribili ambedue le
strade. C’è ancora da dire, e finisco
l’argomento, che anche l’it. ap-pollai-arsi, oltre al veneto polecàrse
‘appollaiarsi’[11] hanno
poco a che fare con i polli e i pollai.
Altro interessantissimo verso di richiamo o incitamento (per pecore) è
quello che a Trasacco assume forme
leggermente differenti tra loro: pruc-zè!, pr-zzà!, prutciàh! Il pastore indirizzava questo comando alle
pecore, esortandole a non uscire dal percorso e a non invadere i campi
coltivati ai lati della strada, sollecitandole ad andare avanti. Queste sono
più o meno le parole usate dal Lucarelli per spiegare le tre espressioni.[12]
Ora, sembrerebbe che i pastori nel lontano passato si siano un po’ divertiti a
variare la forma del comando suddetto, ma in realtà le diversità trovano
ciascuna una spiegazione linguistica, come al solito. A mio avviso pruc-zè! è quasi il perfetto sosia del puro gr. pro-ek-thé-ete ‘correte avanti, procedete!’,
imper. pres. 2 pers. pl., perché il comando è rivolto a tutte le pecore o a
parte di esse che sbandano ai lati della strada, attratte dai coltivi. Il verbo è il gr. thé-ein ‘correre’ preceduto dai due prefissi pro- ‘avanti’ ed -ek-
‘fuori’ (come lat. ex ). Se si tiene conto del fatto che in greco
l’incontro delle vocali /o/ ed /e/ dà normalmente come esito /ou/ (pronunciato
come l’it. /u/) e che, nella perentorietà enfatica dell’ordine impartito, la
parte finale della parola facilmente cade, come abbiamo visto per ìih!
al posto di ì(scia)!, ci accorgiamo
di ritrovarci tra le mani un’espressione
che suona proprio come il trasaccano pruc-zè! La forma pr-zzà!
(che più correttamente andrebbe scritta prë-zzà!) ne
è un derivato con assimilazione regressiva della /c/ alla /z/ e passaggio del
verbo alla 1° coniugazione latina e italiana
in –are. La terza forma prutciàh sembrerebbe avere la dentale /t/ di
troppo. Ma non è così, a meno che non si tratti di banale errore di stampa per prusciàh, più diffuso altrove[13]. Non furono i pastori ad innovare motu proprio! In greco esiste il verbo pros-thé-ein ‘correre verso,
accorrere’ con il prefisso pros- ‘verso, avanti, oltre’ il
quale aveva alcune varianti come protí-, portí-, potí-: la prima di queste potrebbe aver generato una
variante del verbo in questione, dando un legittimo *proti-thé-ein da cui sarà derivata la forma
dialettale prut-ciàh attraverso la
chiusura della /i/ di proti- e successivo dileguo nonché
con la palatalizzazione in -ciàh
della probabile, e precedente nel tempo, affricata /z/ della sillaba *-zè, esito dell’imperat. gr. *proti-thé-ete, che passava nel frattempo alla 1°
coniugazione dei verbi latini in –are. La palatalizzazione è stata propiziata dalla
vocale palatina /è/ ma soprattutto, penso, dall’incrocio con l’altra forma più
diffusa pruscià, prusciàh.
Altrove in Abruzzo si incontrano le forme pruccià! o prùccë! senza
la dentale /t/ rispetto al trasaccano
prut-ciàh! o anche, con l’accento
ritratto, prùscia! (Avezzano, Aielli). Ad Avezzano esiste però anche la forma
normale accentata sull’ultima sillaba, nell’espressione zarè pruscià,[14] comando
rivolto sempre alle pecore perché vadano avanti in modo sollecito o perché si
tengano strette tra di loro senza allontanarsi dal gregge. A pensarci bene non è impossibile che questa
forma pruscià derivi dal gr. pros-ápt-e, o pros-ápt-ete ‘state
attaccate, seguite l’una l’altra’, diventato, come gli altri, tronco: pros-á,
pruscià.
C’è da fare un’osservazione. I due
concetti fondamentali espressi sostanzialmente da queste espressioni sono
quello di “andare avanti” e di “tenersi unite, strette”. Orbene, sembrerà
strano, ma in greco si incontra un verbo che può dare come esito pruscè o pruscià ma che ha un’origine diversa dai precedenti verbi, sopra
citati, e che esprime chiaramente il 2° dei due concetti . Si tratta di pros-ékh-ete (che è un composto,
con prefisso, del verbo ékh-ein ‘avere, tenere, fermare’ sopra incontrato a proposito di iscia!), imperat. pres. 2° pers. pl. del verbo pros-ékh-ein che vale,
nella forma intransitiva, appunto ‘seguire, stare unito, rimanere attaccato,
aderire’. L’imperativo può pervenire,
per la solita via, e con la caduta della
parte finale successiva all’accento, ad una forma *prusè, e quindi, con
palatalizzazione della fricativa /s/ per influsso della /è/ palatina, a forme
come pruscè o pruscià (con il passaggio alla 1° coniugazione). Buon ultimo, non si può escludere che pruscià sia l’esito di gr. pros-ág-ete ‘andate avanti, avanzate’.
Signori
miei, non si può assolutamente negare che qui nella Marsica, ma anche altrove,
almeno nell’Italia centrale, i nostri antichissimi antenati parlassero correntemente
il greco, prima che arrivasse, molto tempo dopo, qualche influsso dalla Magna
Grecia, come ho sostenuto anche negli articoli precedenti, dedicati ai grecismi
nella Marsica.
Un
altro comando interessante, ancora a Trasacco, è arriàh! sempre rivolto alle pecore, equivalente
per significato agli altri sopra analizzati, cioè ‘state compatte, non vi
separate!’. In un primo momento mi ha impedito di capirne il significato l’altro comando arri! molto diffuso in Italia, che dalle nostre parti, come ad
Aielli e Avezzano[15],
assume perlopiù la forma di arri
là!, arri qua! rivolta all’asino incitato a procedere in una direzione o in un’altra. Ma i due comandi non collimano, pertanto debbono
avere un’origine diversa. In effetti arriàh parte, a mio avviso, dal gr. ar-ár-ete. ‘restate unite, compatte!’,
imperat. aor. 2 del verbo ar-ar-ísk-ein che, usato intransitivamente, ha proprio il valore di
‘accostarsi, stringersi insieme, serrarsi’.
Il verbo è costituito dalla radice ar- raddoppiata, abbastanza produttiva
sia in greco che in latino, col significato fondamentale di ‘connessione,
unione, armonizzazione, ecc.’. Come per
gli altri comandi, tutta la parte finale del verbo dopo l’accento finì per
cadere, lasciando però un problematico ar-à- che avrebbe potuto confondersi
con l’imperativo lat. del verbo ar-are, 2 pers. pl.: a quel punto deve essere arrivato un benefico
influsso dal comando arri, arri là, arri
qua! che fece depositare una /i/ al posto giusto dando ari-àh!
o il rafforzato arri-àh! Del resto, sempre a Trasacco, esiste il
comando arrièh! ‘dietro!, vai indietro!’ di tutt’altro significato ed
origine (cfr. lat. retro ‘indietro’). Resta
ora da interpretare il valore del comando impartito all’asino, che qualche
linguista, sia pure in linea suppositiva, spiega come adrĭge (aures) che in latino
vale ‘drizza le orecchie, fai attenzione!’. Ma non ci siamo! Qui adrĭge (arrĭge) ha,
secondo me, il valore di dirĭge (cursum ‘corso’) o (iter’cammino’) e vale, quindi, ‘dirigi il cammino per di là (lat. illac) o per di qua (lat. hac)’, cioè ‘vai per di là’ o ‘vai per
di qua’ o semplicemente ‘vai!’ quando non c’è specificazione alcuna. Era ai miei tempi molto usata la forma
ridotta àah! che incitava la
bestia a mettersi in moto o a continuare, magari accelerando, il cammino. A
Trasacco essa era rivolta non solo al somaro, ma anche agli altri animali,
cavalli, muli, e vacche.
La
mia spiegazione di arri là (pronunciato
naturalmente con raddoppiamento fonosintattico llà, compensatore della
presunta caduta della sillaba -ge del
verbo precedente) che mi sembrava sostenibile, ora non mi pare più tale, soprattutto
perché nel nostro dialetto di Aielli, e degli altri paesi marsicani, una –i
finale non accentata è impossibile che non si trasformi nel suono indistinto di
–ë: allora c’è da supporre che quella
–i
resiliente non sia altro che la seconda persona sing. dell’imperativo latino
del verbo i-re ’andare’ che era
appunto i ‘vai’, o che,
almeno, essa sia stata avvertita come tale sebbene l’interiezione provenisse da
tempi anteriori al latino. Questa consapevolezza dovette essere presente anche
nella mente del parlante se essa impedì la trasformazione della vocale finale –i-
in suono indistinto –ë-. D’altronde nei dialetti in genere, e in quelli marsicani
in particolare, forme e tempi del lat. i-re ‘andare’ sono ben presenti compreso
l’imperativo i ‘vai’ se è vero quanto
sostengo nell’articolo Sottigliezze
grammaticali dei nostri dialetti presente nel mio blog (19 dic. 2019). Nel
greco moderno si ha appi! ‘arri!’, che forse viene dal greco antico áp-ithi
‘parti’ (con la caduta del thi finale), letteralmente ‘vai (-ithi)
via da (apό)’, imperativo di ap-iénai
‘andar via, partire’; ma, accanto ad esso si ha anche ári! simile ad arri!.
Resta da spiegare la parte arr- di arr-i! Ci sono due possibilità. La prima consiste nel considerare arr- una forma con la liquida –r-
rafforzata di una originaria latina arcaica ar- , rotacizzazione, nei
composti, di lat. ad-, preposizione di moto a luogo. Per il rafforzamento si
tenga presente, ad esempio, l’it.coppa
< lat. cup-a(m)’botte’ o il dialettale aiellese dόppë rispetto all’it. dòpo. L’espressione latina adire
illo o illac significava
‘andare là, passare per di là’. Ma
nonostante questa soluzione io preferisco considerare il supponibile verbo *arr-i-re
del latino parlato, come un termine tautologico in cui il primo
ripeteva lo stesso significato della radice i- di ire ‘andare’. La radice ar(r)-
può rintracciarsi, a mio avviso, nei verbi gr. όr-ny-nai ‘mettere in
movimento, muover(si); avviarsi, sollevarsi, scagliarsi, ecc.’, oré-esthai ‘affrettarsi, slanciarsi’ oroú–ein ‘balzar su, avventarsi’. La stessa
radice ha originato in greco il termine όr-nis ‘uccello’, in gotico
ara ‘aquila’, in tedesco Aar ‘aquila’, in latino or-iri ‘nascere, sorgere’. Che la
radice ar- in qualche lingua del lontanissimo passato portasse in sé
il significato di ‘scorrere, fluire, passare, andare, ecc.’ è secondo me
indicato dal fatto che essa ricorre in diversi corsi d’acqua europei, come l’Ar-ar
(con radice raddoppiata) e l’Aar(e) in Isvizzera; fiume Ara
nella comarca di Subrarbe dell’Aragona, in Spagna; torrente Aia, affluente del Tevere, in Italia. E
ce ne saranno diversi altri, compreso anche il torrente Erro, in piemontese Er, con
la stessa radice, forse, del verbo latino err-are ‘vagare, errare, sbagliare’ e altre voci europee e
indoeuropee. Ampliamenti in –s- della radice sono i vari rio Arso,
a Calestano-Pr, rio dell’Orso, a Castelvecchio Pascoli-Lu,
rio dell’Orso, canale di Venezia, ecc.
Nel greco moderno si ha appi! ‘arri!’, che forse viene dal
greco antico áp-ithi ‘parti’ (imperativo di gr. ap-iénai ‘andar via,
partire’) , letteralmente ‘vai (-ithi) via da (apό)’; ma, accanto ad esso si ha anche ári! simile ad arri!.
Da non dimenticare, poi, la voce veneta ara ’canale, ruscello,
rigagnolo, ecc.’. [16]
La
voce zarè
dell’espressione avezzanese di cui sopra, rivolta alle pecore, credo abbia
qualcosa da condividere con l’aiellese zirì ttèh! , invito rivolto però alla capra perché si avvicini. Il ttè!
può essere inteso, a mio avviso, sia come esito di gr. thé-e ‘corri, accorri’, imper. pres. 2 pers. sing. del dell’infinito thé-ein ‘correre’ (già incontrato a
Trasacco nel comando per le pecore pruc-zè!), sia come forma apocopata dell’imper. lat. te(ne) ‘tieni’ (dialettale ‘tèh’
con la /e/ aperta), nell’eventualità che con essa si incitasse l’animale ad
approfittare di qualcosa di buono tenuto magari nella mano tesa verso di esso. La mia opinione in proposito è che
l’espressione sia partita come greca, ma abbia finito con l’incrociarsi con il
lat. tene! ‘tieni!’. A
Trasacco zìrrë è uno dei nomi del capro, corrispondente all’aiellese zùrrë ‘capro’ e evidentemente apparentato con l’altro termine trasaccano
zaùrrë
‘capro’. Che l’affricata /z/ iniziale di queste voci vada risolta in dentale
/t/ ce lo suggerisce il termine tirri, comando per le capre usato a Roccasalli, frazione di Accumoli-Ri[17]. Pertanto io suppongo che queste voci vadano
confrontate con ted. Tier ‘animale’,
ingl. deer ‘cervo’, gr. thér ‘animale selvatico, semplice
animale, creatura’, gr. taûr-os
‘toro’, fenicio thór ‘bue’, sp. zorro ‘volpe’.
Il
comando rivolto al cane perché si avvicini (Aielli, Trasacco) è il semplice ttéh!
con la /e/ chiusa. A mio parere
l’espressione condensa, per così dire, due significati: ancora quello
dell’imper. gr.thé-e. ‘corri’ sopra
incontrato (anche se bisognerebbe spiegare la differenza acuta/grave della /e/ nei due casi) e quello di un termine
per ‘cane’ che dovrebbe essere simile all’ingl. doe (cerva, coniglia,
lepre femmina), alemanno tē ‘doe’, gr. thō-s dal signifcato incerto, forse ‘sciacallo’, un canide, appunto.
Che il significato di ttéh! debba pure corrispondere a un
‘vieni!’ o ‘accorri!’ lo fa capire anche l’espressione ironico-sarcastica
trasaccana ttéh fatì’! che
significa ‘vieni, accorri, o fatica!’
rivolta ad uno scansafatiche rappresentato nell’atto di invocare l’arrivo
sollecito della fatica, che invece lui evita di fatto come la peste. Ma nonostante ciò non è assicurata,
all’origine, la funzione ironico-sarcastica, perché poteva trattarsi solo di
una realistica rappresentazione dello sfaticato come di uno che dice: «fatica,
corri (via) da me!». A Gallicchio-Pz il
verso di richiamo per il cane è teccuà![18],
da sciogliere certamente in té qua! Nella
forma –zzè, già incontrata sopra nel richiamo pruc-zè! ‘correte
avanti!’ usato a Trasacco per le
pecore, il comando ritorna, sempre a
Trasacco, nell’ordine ucce-zzè! oppure occe-zzè! impartito al maiale,
che non esprime un significato unico quanto alla direzione del moto cui
viene sollecitato l’animale, potendo esso essere, ad esempio, di uscita o
entrata rispetto al porcile. Ad Aielli,
relativamente al maiale, era rimasta solo l’espressione òccë a jjàccë ‘maiale,
(torna) al tuo giaciglio’, col valore presumibile di ‘maiale’ per òccë,
da attribuire anche alle rispettive voci trasaccane. E un suo parente probabile mi sembra l’ingl. hog ‘maiale’ ma anche, dialettalmente,
‘pecora giovane’. Strada facendo, però,
la parola dové incontrare anche l’avv. lat. oci-ter, oci-us ‘rapidamente, velocemente’ o l’agg. gr. ōký-s
‘veloce’ dando all’espressione aiellese il significato di ‘subito, al
giaciglio!’ e a quella trasaccana ‘corri (-zzè) subito!’, al giaciglio o fuori
di esso. Probabilmente l’espressione prese le mosse proprio da questi ultimi
significati.
Arrivato a questo punto posso dichiararmi abbastanza pago per quanto
riguarda la ricerca dei grecismi nel nostro territorio, e spero che il gentile
lettore possa trarre dai miei articoli diletto e qualche utile insegnamento,
nonostante alcune ineliminabili difficoltà che, chi non ha una solida
preparazione linguistica di base, senz’altro incontrerà leggendoli, per quanto
io cerchi di stare alla larga da certi tecnicismi propri delle riviste specialistiche
che a volte impauriscono anche me. Io
sono e resto in fondo un dilettante, uno come te, con parte dei difetti formali
che questo status comporta, ma anche con qualche pregio.
[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla
editore, Cerchio-Aq, 2004.
[2] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.
[3] Cfr. sito web: www.old.consiglio.basilicata.it/pubblicazioni/rossi/Rossi.pdf.
[4] Cfr. anche ingl. ass
‘asino’, ted. Es-el ‘asino’, turco ȩš-ek ‘asino’, la cui seconda
componente a mio avviso corrisponde tautologicamente al lat. equ-u(m) ’cavallo’. A questa radice fanno capo anche le forme dialettali scécchë, scicchë, scéccu ‘asino’ (abruzzese, calabrese, siciliano).
[5] Cfr. sito web: www.prolocoborgorose.it/Tutto
Paesi/Tutto Torano/3.VOCABOLARIO .
[6] Cfr.
vocabolario del Bielli, cit.
[7] Cfr.
vocab. Del Bielli, cit.
[8] Cfr.
l’articolo Nella Marsica, ma anche
altrove […] presente in
“pietromaccallini.blogspot.it” (giugno 2014).
[9] Cfr. Q.
Lucarelli, cit.
[10] Cfr. M.
Marzolini, “me ‘nténni?”, Arti
grafiche Tofani , Alatri-Fr. , 1995.
[11] Cfr.
Cortelazzo- Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.
[12] Q. Lucarelli, Biabbà E-P, cit.
[13] Contro l’errore di stampa, in questo caso, sembra
deporre il fatto che la parola in questione viene scritta sempre allo stesso
modo sia nel lemma prutciah! sia sotto i lemmi pruc-zè e pr-zzà, dove viene richiamata.
[14] Cfr. U.Buzzelli – G. Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese,
Avezzano-Aq, 2002.
[15] Cfr. Buzzelli-Pitoni,
Vocabolario del dialetto avezzanese,
Senza indic. di editore, Avezzano-Aq, 2002.
[16] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italini, UTET,
Torino, 1998.
[17] Cfr. sito web: www.roccasalli.it/vocabolario.htm . Sempre in questo dialetto si incontra il richiamo pocchi tè! rivolto però alle pecore. Non viene data altra
precisazione. Comunque la parola pocchi forse richiama quella abruzzese,
sopra analizzata, di pucce ‘nome
dell’asino o del mulo’ e ‘voce per chiamarli’.
[18] Cfr. sito web: www.dizionariogallic.altervista.org/index.htm
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