Ancora una volta debbo constatare quanto sotterranea, subdola, imprevedibile
ma nel contempo fantastica sia la Lingua quando ci si mette di buzzo buono:
opera, dinanzi ai nostri occhi, i più meravigliosi sortilegi senza però darlo a
vedere, anzi, facendoci credere che esso, il sortilegio, sia la cosa più
naturale e certa di questo mondo, così che nessuno di quelli che si occupano di
essa e cercano di carpirne qualche segreto possa avere mai il minimo sospetto
che quello che una parola dice in superficie non debba corrispondere a quello
che la parola attesta in
profondità. E’ quanto è accaduto anche
al nostro parapetto. Non c’è etimologo, infatti, che per un istante
tentenni nell’emettere pressappoco questa sentenza, che io sappia: «il termine è composto dal prefisso para- che, come in altri casi simili, è
tratto dal verbo parare, di
ascendenza latina, il quale in questo contesto significa ‘parare, proteggere,
difendere’. La seconda parte –petto è di palmare evidenza e pertanto la
parola non può che indicare altro che un manufatto
(costruito lungo le sponde di un fiume, di un precipizio, ai bordi di un
terrazzo, ecc.) che trattiene il petto
di un uomo, impedendogli di cadere nel vuoto».
Non si riflette affatto sulla possibilità che, all’origine, la parola
abbia potuto indicare, tutta insieme, nient’altro che il suo referente, cioè il
manufatto, la struttura (di legno, metallo o in muratura), l’intelaiatura dell’oggetto stesso il quale ha una indiscutibile realtà
e priorità rispetto agli usi cui è destinato.
Francamente, stando all’etimo che svelerò fra poco, non posso non
constatare che la linguistica ha fatto pochi o poco incisivi passi in avanti (nonostante
il fiorire di varie e sofisticate teorie) rispetto a quanto ne sapevano gli
Antichi, tranne forse il grande Democrito di Abdera (V sec. a.C.), gigante del
pensiero razionalmente orientato, erede della cultura scientifica di Mileto, autore
di numerose opere su tutto lo scibile umano, finito con l’essere ingiustamente
oscurato dalla nuova filosofia di Platone ed Aristotele che costruiva sistemi teleologici
e idealistici, e soprattutto dal sopravvenire del Cristianesimo, tanto che le
sue opere andarono completamente perdute forse già nel III secolo d.C., o quando l’editto di Teodosio (380 d.C.) stabilì che
il Cristianesimo era l’unica e obbligatoria religione dell’Impero. Un filosofo
materialista del calibro di Democrito dovette essere avvertito come fumo negli
occhi da una cultura religiosamente orientata e poco incline a misurarsi con le
diversità[1].
Il parapetto, se si vuole
essere pignoli seguendo lo spirito superficiale della Lingua, non ripara nemmeno esattamente il petto, se solo si riflette sul fatto che in genere esso non si
eleva più su di un metro, altezza che corrisponde al ventre di una persona di
media statura, e quindi esso avrebbe dovuto chiamarsi più realisticamente para-pancia o para-ventre. Si dirà, con la solita sicumera e perentorietà, che è
l’uso estensivo del termine petto,
inteso come ‘il fronte, il davanti (di una persona)’ a giustificarne questo
significato. Ma è mai possibile che nessun linguista si accorga della
speciosità di questo modo di ragionare che rincorre vanamente se stesso, visto anche che in effetti sarebbe
poi tutta la persona ad essere messa al
sicuro da un parapetto il quale, con maggiore senso di precisione e completezza,
avrebbe dovuto avere quindi il nome di para-persona,
para-uomo e simili? A mio avviso è l’abitudine, ormai diventata
un duro callo della nostra conoscenza, attraverso i moltissimi millenni passati
da quando abbiamo cominciato a parlare, di considerare le parole tanto più credibili
e accettabili quanto più precisa è l’idea che esse esprimono, a farci girare
vanamente in tondo distogliendoci dalla verità che giace al fondo. Inoltre, altri due motivi impediscono ai
linguisti di imboccare la strada giusta, cioè il fatto che l’etimo di ogni
parola non indica mai l’uso che si fa di un oggetto, ma l’oggetto stesso, come
ormai vado ripetendo usque ad nauseam,
e che non possiamo limitarci al latino nella ricerca degli etimi, visto il
profluvio di radici greche che scorre sotterraneamente nella nostra lingua e nei
nostri dialetti, come ho mostrato in tre o quattro articoli del mio blog[2].
Nella lingua greca esiste il verbo para-pēg-ný-nai ‘attaccare presso, aderire a, essere connesso con’ composto
sostanzialmente dal prefisso para- (cfr.
prep. pará ‘vicino,presso, lungo, ecc.) e dalla radice pēg-‘fissare,conficcare’ presente con infisso nasale
anche nel lat. pang-ere ‘conficcare,
fissare, comporre’, lat. pac-e(m) ‘pace’, lat. pact-u(m) ‘patto’ ecc.
L’aggettivo verbale pēkt-ós (dorico pakt-ós) significa ‘saldo, ben connesso, coagulato, ecc.’. In Aristofane
(Acharnesi, 479) l’espressione tà pēktà tôn dōmátōn vale ‘ le imposte
della casa’. Quest’ultimo significato
combacia proprio con quello di it. para-petto,
il quale abbiamo detto che corrisponde a sua volta a quello di ‘intelaiatura,
struttura’. Le imposte sono infissi: i
due termini più che indicare oggetti che si pongono
in qualcosa o che si conficcano in qualcosa, come siamo portati a pensare, designano
invece oggetti che sono composti essi stessi di parti interconnesse, saldate tra
loro. Le parole, appena possono, per
specificare il loro significato e acquisire caratteristiche particolari, si
mettono in relazione con altre parole, anzi, si direbbe che normalmente il loro
significato prenda forma da queste relazioni, altrimenti esso tenderebbe a
sfumare nell’indistinto valore di fondo, comune a tutte le altre. Nella Lingua, per quanto attiene al significato, tutto funziona come nella fisica
dei quanti: una particella non ha una proprietà in sé, salvo quella immutabile
come la massa. Quando essa si scontra e
interagisce con altra particella, allora compaiono quelle caratteristiche sue
proprie (velocità, posizione, momento angolare, ecc.) che la rendono visibile, reale
e diversa dalle altre. La cosiddetta banda di
Copenhagen composta di scienziati di
altissimo livello quali Bohr, Heisenberg e Dirac, tutti insigniti di Nobel per
meriti diversi nell’ambito della fisica quantistica, se si fosse messa a
studiare le parole, non avrebbe tardato a mio avviso a scoprirne una
caratteristica fondamentale, specchio di quella che regola tutta la materia
dell’Universo: l’aspetto relazionale
di ogni esistente. Il quale ci dice che le “cose” stesse più che essere entità
squadrate una volta per sempre, sono solo fantasmi,
processi in movimento inquadrabili in
strutture sempre più astratte applicabili a numerosissimi fenomeni della immensa realtà.
Per definire meglio la natura del primo costituente di it. para-petto, termine affiorante dal sostrato
greco, come ho indicato poco sopra, è utilissimo confrontarlo, ad esempio, con
l’aggettivo gr. pará-seir-os, usato in genere ad indicare il
cavallo ‘attaccato a fianco’ e, estensivamente (per usare il linguaggio erroneo
dei linguisti), un ‘congiunto, un compagno, una persona unita ad un’altra’. In
realtà il significato originario dell’aggettivo, prima che si incrociasse con
la radice del sostantivo gr. seirá ‘corda, fune’ che ne favorì il
riferimento al cavallo attaccato a fianco
era semplicemente quello di ‘connessione, unione’ adatto ad indicare i rapporti
familiari concretizzatisi, ad esempio, nel lat. sor-or-e(m) ‘sorella’[3]. Che la funzione di prefisso e preposizione o
avverbio del costintuente pará- ‘presso, accanto, lungo, ecc.’
fosse in realtà un’altra metamorfosi di un significato più profondo ed astratto
di ‘connessione, collegamento, uguaglianza e unità’ ci è attestato, a mio
parere, dall’aggett. lat. par-e(m) ‘pari, uguale’ che come sostantivo valeva ‘compagno, coniuge’
e anche ‘coppia, pariglia, paio’ (in dial. paro,
parë). Queste semplici riflessioni causano il crollo
improvviso di tutto lo sclerotico apparato che il senso comune e la linguistica
tradizionale vede sorreggere le parole e le frasi di una lingua costringendole,
in verità, tra le maglie di una camicia di forza. Così è assodato che anche il para- di it. para-petto, tanti millenni fa, ripeteva tautologicamente lo stesso
significato di –petto, cioè
‘intreccio, intelaiatura’ e quindi, più genericamente, ‘connessione, legame’,
concetto che poteva concretizzarsi in tutte le forme possibili di connessione
tra cose, animali e uomini. Si concretizzò, di fatto, ad indicare l’oggetto che
conosciamo, ma le sue potenzialità originarie erano illimitate, come del resto
quelle delle altre radici. Il verbo lat. par-are che ruota
intorno al significato di ‘preparare, apprestare, apparecchiare’ rivela, a mio
avviso, il suo significato originario nel composto lat. se-par-are ‘separare,
dividere, disgiungere’, in cui la radice par- sembra avere il significato di
‘congiungere, unire’(come nel lat. par-em ‘pari,coppia’), rovesciato in quello di ‘dis-giungere,
dis-unire’ attraverso la particella separativa se-. L’it. par-ente, come abbia fatto a derivare dal lat. par-ent-e(m) ‘genitore’ (dal verbo par-ĕre ‘partorire’, come tutti dicono), me
lo sono sempre chiesto, dato il salto semantico quasi incolmabile tra i due
termini. Dopo quello che ho detto poco
fa sulla radice par-, mi è balenata improvvisamente nella mente la giusta
soluzione del problema. In verità il
termine lat. par-ent-e(m) doveva
significare all’origine quello che è rimasto a significare in italiano, un congiunto[4]. Quando esso si è
incrociato col verbo lat. par-ĕre ‘partorire’ si è specializzato a significare ‘genitore’. Del
resto lo stesso verbo par-ĕre ‘partorire’ deve essere imparentato col verbo lat. par-are, il cui significato iniziale doveva
essere sì quello di ‘connettere, congiungere’, come abbiamo visto poco fa, ma
aveva assunto il significato di ‘approntare, apparecchiare’, contiguo a quelli
di ‘comporre, costruire, produrre, partorire’.
Questa ricostruzione della vicenda di it. parente conferma ancora una volta la Teoria della Continuità di M.
Alinei, secondo la quale le forme dialettali (compreso l’italiano) sono coeve o
più antiche di quelle del latino classico[5].
Fa
parte del gruppo anche l’it. parete, lat. pariet-e(m), it. paret-aio ‘sistema di due reti per l’uccellagione’. La “parete” è un insieme o intreccio di
pietre, mattoni, o altro materiale. Naturalmente è poco credibile che il
termine para-vento, ad esempio, sia
nato col significato che esso mostra in superficie. E’ più sostenibile che il secondo costituente
risalga alla radice wind ‘avvolgere,
intrecciare’ di ted. wind-en ‘torcere, avvolgere, intrecciare’, ted. Winde ‘verricello, argano’, it. bind-olo ‘arcolaio, imbroglio, raggiro’. La radice riappare in forma apofonica nel
ted. Wand ‘parete, dirupo’. Curioso è il nome tedesco del paravento: spanische Wand , letter. ‘parete
spagnola’! La perplessità scompare come
neve al sole se cominciamo a scorgere dietro l’agg. span-ische ‘spagnolo’ la radice apofonica di ted. spinn-en ‘filare, tramare’ presente, ad esempio, nel medio oland. spann-en ‘legare, stendere’, ecc. La parola, quindi, doveva indicare
tautologicamente lo stesso significato di Wand
‘parete’. Sicchè è legittimo sospettare
che un termine come ted. Spinn-webe non sia nato come ‘tela (-webe)
di ragno (Spinn- ‘ragno’)’ ma come
composto tautologico, subito entrato nel vortice relazionale della Lingua.
L’it. para-petto[6]
si ritrova nel francese para-pet,
nell’inglese para-pet e nello
spagnolo para-peto. In quest’ultima
lingua esso va soggetto ad una ulteriore specializzazione, in quanto spagn. peto vale ‘pettorina’ e non ‘petto’ (pecho).
Il lat. pect-us, gen. pect-oris ‘petto’ mi pare possa essere
riagganciato alla radice peg, pag di cui ho parlato
sopra a proposito di gr. pēkt-ós ‘saldo, connesso’. Il
termine, infatti, doveva indicare probabilmente la struttura della cassa toracica, dato che il gr. kteís, gen. kten-ós ‘pettine’ ad esso legato può
indicare, tra l’altro, anche le ‘costole’, oltre alle ‘dita’, al ‘rastrello’ e
ai ‘peli del pube’, significati, gli ultimi due, che ritornano nel lat. pect-ine(m) ‘pettine’ e possono intendersi
quindi come un ‘insieme (di peli o di rebbi)’. Generalmente si assume che
kteís
derivi da precedente (pe)kteís,
gen. (pe)kten-ós.
Alla
luce di queste riflessioni, si può concludere che tutto il mio sforzo per
rintracciare la verità poteva essere evitato riconoscendo con rapida mossa, fin
dall’inizio, che tutte queste parole coinvolte avevano la stessa matrice dal
significato generico di ‘connessione, struttura, unione’ o, meglio, di
‘interdipendenza e relazione’ al di fuori delle quali le “cose” sembrano
addirittura svanire nel regno dell’inafferrabile e del nulla.
Viva la libertà e la semplicità alla
base di tutto l’esistente!
[1] Di Democrito ho parlato già
nell’articolo Principi di gnoseologia […] del mio blog (agosto 2013).
[2] Cfr. nel blog gli articoli Espressioni di richiamo o comando […] settembre 2014; Parole
greche nei dialetti […] agosto e luglio 2014; Nella Marsica, ma anche altrove […] giugno 2014.
[4] La voce dialettale parènti (ligure, lunigianese, toscano)
indica i frutti della lappa bardana. Notoriamente essi si attaccano alle gambe
degli uomini e zampe degli animali, ma non perché assomiglino a “fastidiosi
parenti” come vuole il Cortelazzo (cfr. I dialetti italiani, UTET, 1998). In
realtà, condividendo essi la stessa radice di it. parenti, non possono fare altro che ‘congiungersi,
aggrapparsi’. Anche l’ingl. friend ‘amico’ sfrutta la stessa radice
col normale passaggio della labiale /p/ iniziale a fricativa /f/: in antico
alto ted. friunt valeva anche
‘parente’ come nel dialetto scozzese friend
‘parente’. Ma non è finita qui: il romanesco par-anza vale ‘insieme di
persone unite da vincoli di amicizia, di lavoro, ecc. Nel gergo della camorra
la stessa parola indica un ‘gruppo di camorristi’. La par-anza, infine, è una imbarcazione attrezzata per la pesca a coppia. La componente –anza non è semplice suffisso perché
essa richiama la voce dialettale di
Gallicchio (basilicata) andĕ ‘ponteggio per muratori’,
una struttura insomma. Infatti ad
Ortona-Ch la par-anza è chiamata para-còccë, la cui
seconda componente è forse da accostare ad abr. cocchja ‘coppia’. Una teoria è tanto più valida quante più cose collega, affermava
Einstein!
[6]
Può sembrare strano ma
io credo che questa parola parapetto
sia variante di quella comparente in una espressione dialettale in uso nella Marsica, ma anche altrove nel meridione
d’Italia, e cioè para-patta e pacë! Essa è solitamente riferita
a due persone (giocatori, contendenti, ecc.) che si trovano in condizione di assoluta
parità e che non possono reclamare nulla l’una dall’altra. L’it. patta
‘parità’ condivide l’etimo col secondo componente di para-patta, che rimonta alla radice greco-latina pag, pak, peg, pek di cui ho
parlato. Ma qui, più che il senso di
‘patto, accordo’ prevale quello collaterale di ‘parità, uguaglianza’. Il lat. pact-us significa ‘fidanzato’ cioè chi forma
una coppia di eguali.
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