La derivazione di aiellese ruca’ sembra a portata di mano,
data la presenza dell’it. grug-àre, considerato, a mio avviso erroneamente, voce onomatopeica[1], da cui,
di primo acchito, dobbiamo trarlo, data la normale caduta, nel nostro dialetto,
della velare iniziale, come in rànnëla ‘grandine’,
in ròttë ‘grotta’ e arcaico ùstë ‘gusto’. Il
comportamento della velare –g- in aiellese l’ho trattato altrove
più in dettaglio.
Ma bisogna fare i conti anche col ted. ruck-en 'tubare (dei piccioni)', col fr. rouc-oul-er ’gemere, tubare (dei piccioni)’ma anche ‘sospirare,
spasimare’ considerato onomatopeico
anch’esso ma da una radice rouk-, rok-, rak- (cfr. a.slavo raka-ti ‘gridare’), simile, tranne che per la velare sonora -g- iniziale, alla radice di it.
grug-are. Ora, se una buona
volta non ci si libera da questo onomatopeicismo letale per la comprensione del
fenomeno lingua, non faremo altro che continuare a ciurlare nel manico, sia nel
tentativo di individuare la natura e il significato di una radice, sia in
quello di capire nel profondo il suo meccanismo glottogonico. La radice roc-, ruc- e varianti ritorna
in molte parole dialettali come nel lombardo, emiliano roc ‘rantolo del moribondo’, sardo racca
‘rantolo del moribondo’, corso ràg-anu ‘rantolo del moribondo’[2]. Si continua con siciliano rόcc-ulu ‘urlo di cane o lupo, piagnisteo di bambini’,
calabrese ruόcc-ulu, rόcc-ulu ‘lamento, rantolo’, calabrese rùcc-ulu
‘mugolio, brontolio’[3], senese ruc-àre ‘far valere le proprie ragioni con
tono alto e deciso’, senese rog-àre ‘brontolare a mezza voce tra sé e sé, mugolare dei cani in
atto di minaccia’[4]
Ora, ammesso che queste ed altre voci siano da riportare a qualche
onomatopea originaria, ci si troverà, però, in qualche difficoltà
nell’individuarne la natura: era essa una imitazione del tubare dei piccioni, del mugolare del cane, del gemere di una persona addolorata e del
suo sospirare, del latrato del cane, dell’ululato del lupo, o di altro? La cosa che non posso accettare è questo
procedere da un significato che doveva essere, per definizione, una quasi
esatta imitazione di un suono particolare per poi allargarsi ad indicare, con
la stessa radice, una molteplicità di rumori che hanno in comune, per la
verità, solo la natura di suono, non
importa di quale tipo. Ma allora faremmo bene a riflettere, prima di parlare di
onomatopea, che tutte le lettere dell’alfabeto, essendo prodotte dell’apparato
fonatorio umano, appunto, sarebbero adatte
a rappresentare l’idea generica di “suono”. Io pertanto sono convinto che, per spiegare
il senso delle radici, bisogna procedere piuttosto da un significato generale ad
uno via via più particolare e non viceversa.
Mi spiego meglio con qualche esempio.
Il lat. rug-ire non significa
solo ‘ruggire’ come potremmo pensare influenzati dall’italiano in cui il verbo
indica solo il verso del leone e di altri felini. Esso indicava anche il ragliare dell’asino, il bramire del cervo e il verso di altri
animali, che sono più o meno diversi tra loro, e quindi, se si vuole essere
ligi ad un’idea stretta di “imitazione”, richiederebbero onomatopee differenziate
tra loro. Non mi pare naturale supporre
che il termine sia magari nato per imitare la voce del leone o di altri
felini e poi sia stato usato per indicare anche quella, più o meno simile, di
altri animali. A me pare cosa più
razionale e naturale supporre che il verbo avesse un significato più antico e
generico di ‘rumore, suono, stridore, boato, ecc.’, adattatosi successivamente
ad esprimere il verso di un animale o di diversi animali dalla voce grosso modo simile: anzi, è proprio questa
genericità iniziale di fondo (non l’esclusiva specificità di partenza del raglio, del muggito, o del bramito) a
favorire, senza difficoltà alcuna, il passaggio dal verso del leone a quello
degli altri animali. L’uomo moderno, ma
anche quello che cominciò a parlare molte migliaia di anni fa, troverebbero una
certa difficoltà a chiamare raglio il
ruggito di un leone.
Il lat. rud-ere ugualmente
mostra diversi valori: 1) ragliare; 2) bramire; 3) ruggire; ma anche 4)
stridere, cigolare. Con quest’ultimo significato il verbo ci indica, a mio
parere, anche il suo significato più antico di ‘emettere un rumore, uno
stridore’.
Ma in questo procedere a ritroso è inevitabile che l’idea di “rumore”
rimandi a qualcosa di antecedente, di ancora più antico, direi originario, e
comune a tutte le altre radici: la spinta,
la forza, il movimento, l’anima che, per
quanto riguarda il rumore, si
concretizza appunto nel suono del rumore, ma avrebbe potuto realizzarsi in
tante altre entità come lo scorrere
di un fiume. E questo non perché un fiume che scorre fa rumore ma perché il fiume
che scorre è una forza che si concretizza nel suo muoversi e scorrere (cfr. lat. Rum-on, uno degli antichi nomi del Tevere), come il gr. ánem-os ‘vento’ è la concretizzazione del movimento dell’aria se il lat. anim-a(m) significa ‘soffio (vitale)’.
L’idea di “forza, anima” agisce dietro i verbi latini fl-are ‘soffiare’ e flu-ere ‘fluire, scorrere’ (simili anche nella forma) da cui flu-men ‘fiume’, appunto.
Dietro queste radici c’è un’idea di “forza, tensione” come si può vedere
agevolmente anche nella radice del verbo lat. e-ruct-are ‘eruttare’
che è una forma intensiva o iterativa di lat. e-rug-ere che vale ‘eruttare’
ma anche ‘uscire con forza, sgorgare (dell’acqua)’. La tensione
che anima questa radice si può materializzare (specializzandosi) nel rumore
del rutto (lat. ruct-um). Ma è molto interessante notare che
in Sant’Agostino il verbo significa semplicemente ‘proferire, dire’, materializzazione
della spinta necessaria a pronunciare
le parole, che sono anch’esse una sonorità,
d’altronde. A questo punto mi pare cada
a fagiuolo far notare che anche il lat. rug-ire ‘ruggire, ragliare, bramire’ di cui si parlava sopra, dovrebbe
essere una specializzazione della stessa radice rug-. Non importa, in
soldoni, l’intensità del suono emesso: si tratti di un rumore sommesso, come
quello di una normale, pacata parola o
quello del verso del piccione oppure, al contrario, si tratti di un grido o urlo,
come quello di un ruggito, l’idea
fondamentale che sorregge queste parole è quella di spinta verso l’esterno, per realizzare una espressione, qualunque ne sia il tono. Il lat. ex-prim-ere ‘spremere,
spingere fuori, esprimere, pronunciare’ rende bene l’idea, a mio parere. La spinta
può ancora materializzarsi in una scaturigine,
sorgente o getto d’acqua, significati di umbro rocchio < *roc-ul, il quale richiama il lat. e-rug-ere
‘sgorgare’ sopra citato. C'è anche l'ingl. roach 'foglio d'acqua schizzata in alto dietro il galleggiante di un idrovolante. O può materializzarsi in un tono di voce piuttosto robusto quale si ritrova nella rara espressione
rocchio
di voce. Come si può ben vedere, allora, molto diverse possono essere le realtà che
scaturiscono da una stessa radice, tanto che noi stentiamo, di primo acchito, a
credere alla loro stretta parentela originaria.
Ribadisco, quindi, che la direzione che bisogna seguire nello spiegare i
significati di una radice è quella che procede dal generico al particolare,
essendo stato in possesso di un unico concetto l’uomo che cominciò a parlare:
quello di anima che caratterizzò la primordiale fase
animistica della sua evoluzione.
Se entriamo in quest’ordine di idee faremo meno fatica a capire che una
medesima radice può indicare il suono
o il verso di un animale e nel
contempo l’animale stesso. Il quale,
come dice il nome stesso, non è altro che un essere animato, cioè fornito di quel soffio vitale (anima) che si può
concretizzare nel vento, come nel
greco ánem-os ‘vento’ o in un essere vivente, come nel lat. anim-al ‘animale’.
Ritornando all’aiellese-abruzzese rucà ‘grugare, tubare’, con cui abbiamo cominciato questa maratona, si deve
precisare che la voce ricorre in molti dialetti dell’Italia centro-meridonale.
In abruzzese rucchë oppure ruchë ruchë sono voci di
richiamo per i piccioni. Secondo me non bisogna credere che esse si riferiscano
al caratteristico verso dell’uccello, ma all’uccello stesso, come nell’irpino rucco
‘colombo’. Altrove ho fatto notare un
caso simile: l’espressione passa via
in uso nel mio paese di Aielli e riferita ad un cane per allontanarlo, va
spiegata intendendo quel passa come
reinterpretazione di un originario serbo–croato pas ‘cane’. Secondo me il termine rucco ‘colombo’ richiama l’ingl. rook ‘corvo (comune)’il
quale, rimandando all’ant. ingl. hroc ‘corvo’ con velare aspirata
iniziale, si avvicinerebbe all’it. grug-are ‘gemere, tubare’, come abbiamo visto all’inizio dell’articolo.
La
voce regionale rucc-azz-òla che
indica la columba livia, cioè un
piccione selvatico che nidifica spesso nelle rocce a picco sul mare potrebbe essere inteso, erroneamente, come
‘piccione delle rocce (rucc-)’ . La stessa cosa è avvenuta
nei termini ingl. rock pigeon oppure rock-er che indicano lo stesso tipo di piccione
selvatico nidificante nelle rocce. Si
tratta solo, a mio avviso, di un’opportuna specializzazione del termine che all’inizio
doveva indicare solo il piccione in genere. E’ ricca di risorse la lingua, e
questa è una delle più sfruttate !
Nel caso
in cui la parola d’origine avesse posseduto una velare iniziale, allora bisognerebbe
tener presenti anche le voci regionali italiane grucc-iόne, un tipo d’uccello, e gracchio, altro tipo di uccello, dal
lat. grac-ul-u(m) ‘cornacchia’. La stessa radice può indicare anche un altro
uccello, il rocch-étto, nome
regionale dell’anas querquedula, detta
anche rag-anella. Quest’ultimo
termine indica anche un anfibio simile alla rana, e richiama la voce dialettale
ragano, racano che vale ‘ramarro’. Nel dialetto di Pietraroja-Bn. la voce ragan-èlla[5] vale
‘lucertola’: non si può assolutamente continuare a pensare, come capita tuttora,
che questa radice sia onomatopeica!
[1] Io non
credo nell’onomatopea, come ho mostrato in un articolo di diversi anni fa, presente
nel mio blog. Cfr.l’art. “Chicchirichì (gheriglio della noce) e la falsità
delle etimologie” (25 giugno 2009).
[2] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani,
UTET, Torino, 1998.
[3] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, cit.
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