domenica 25 ottobre 2009

Risposta a Dante Di Nicola

Ho letto, nell’ultimo numero di questa rivista (9/2008), l’articolo di Dante Di Nicola in cui si mettono in dubbio alcune considerazioni da me fatte, in un precedente articolo di quasi un anno fa, circa etimologie di parole del dialetto di Castellafiume, riportate nel suo pregevole libro Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano, 2007. Finalmente qualcuno con cui discutere di linguistica! Ma, prima di tutto, mi preme chiarire alcune cose. Io ho l’impressione che Di Nicola sia stato spinto a scrivere il suo articolo, anche perché forse un po’ risentito per l’espressione in cui sostanzialmente dicevo che alcune etimologie non possono non suscitare ilarità, come quella che si accontenta, ad esempio, del significato di superficie espresso dall’appellativo dialettale spara-pìngule ‘pipistrello’. Si può, di grazia, sostenere, senza una minima reazione da parte di chi la legge o la ascolta, che la motivazione di quel nome vada ricercata nel fatto che il pipistrello, nell’immaginario dell’uomo onomaturgo, sia stato visto come quell’uccello che vola sparando qua e là cocci (pingole), magari sulle teste di malcapitati? Eppure i linguisti sanno che simili assurdità non sono rare all’interno di quella che si chiama etimologia popolare, la quale cerca sempre di dare un significato purchessia a parole divenute opache per il significato, di cui essa si vuole in qualche modo riappropriare. In tedesco dromedarius, ad esempio, è diventato Trampel-tier ‘l’animale (-tier) che pesta i piedi’: l’etimologicamente oscuro (per i parlanti tedeschi) dromedarius si è trasformato in un composto contenente parole familiari, trampeln e Tier, ma l’etimo ne è stato del tutto stravolto! Allo stesso modo, come mi pare di aver ben spiegato in quell’articolo di un anno fa, in cui tra i tre termini dialettali riferiti al ‘pipistrello’, e cioè sopre-ppìnghe, spara-pingule, sparv-ingule indicavo quest’ultimo come rivelatore del loro vero etimo in quanto inglobava in sé la base di sparv-iere, bisogna di volta in volta aguzzare l’ingegno per scovare la verità sotto queste operazioni di maquillage che la lingua continuamente opera, non appena se ne presenti l’occasione. Con quella espressione che forse Di Nicola non ha gradito io volevo solo richiamare una maggiore attenzione su questi importanti fenomeni linguistici, che ognuno di noi farebbe bene a non dimenticare, e non certo brutalmente umiliare nessuno. Detto questo debbo anche ammettere che qualche volta la mia penna mi tradisce, e, sotto l’impulso di questa passione linguistica che mi porto dietro da una ventina di anni, mi lascio andare a qualche espressione forse un po’ rude nei confronti di qualcuno: non si abbiano comunque remore a ripagarmi con la stessa moneta, perché io non me la prenderei, anzi esprimerei i miei ringraziamenti per l’interessamento mostrato nei miei confronti. Del resto è indiscutibile che nell’incrociarsi delle spade di una polemica genuina e appassionata possa finalmente scoccare la scintilla della Verità alla quale soltanto sono incline a pagare il mio tributo, anche se solitamente ama starsene ben rincantucciata e nascosta.
Che la gazza non sia –contrariamente a quanto sostiene Di Nicola, dopo aver citato abbondandemente le definizioni di lessicografi e zoologi- lo stesso uccello rappresentato dalla cutrettola lo dimostra senza ombra di dubbio il fatto che la prima appartiene alla famiglia dei Corvidi mentre la seconda è un passeriforme dalle dimensioni molto più piccole. Del resto ho letto più volte la prima pagina dell’articolo di Di Nicola e non ne ho ricavato altro che la constatazione che gli studiosi da lui citati mettono da una parte l’uccello chiamato di volta in volta diversamente gazza, gazzera, gassa, agassa, cecca, pica, putta (termini con lo stesso significato dell’appellativo castellitto cotanzinzera) e dall’altra l’uccello chiamato variamente coditremola, cutrettola, ballerina, batticoda, motacilla alba (termini dello stesso significato dell’appellativo aiellese cuterenzìnzela – le /e/ sono tutte mute-). Affermando che qui forse Di Nicola ha preso un granchio o un abbaglio non intendo affatto ridicolizzarlo perché egli, dalle poche notizie che posso derivare dal suo libro, è certamente persona onesta, genuina, istruita e degna di rispetto. Siamo però uomini e come tali soggetti a tutte le défaillances della specie. Anch’io naturalmente commetto spesso sbagli, e nell’articolo cui si riferisce Di Nicola avevo, infatti, erroneamente affermato che noi Aiellesi chiamiamo “pica” la gazza. In verità quest’ultima la chiamiamo ciciaccòva: io conoscevo quest’uccello ma non sapevo che corrispondesse alla gazza. Nel dizionario Devoto-Oli si incontra anche un bel disegnino dell’uccello, rappresentato con una lunga coda e zone bianche sulle ali e sul ventre. La pica è in realtà da noi un altro Corvide, più piccolo, e uniformemente nero. Che non si tratti di altro nome dello stesso corvo?
Prendo lo spunto dalla or ora introdotta cicia-ccòva per spiegare come, a mio modesto parere, la Lingua opera nella formazione delle parole. C’è da premettere che circolano altre versioni di questo nome come ciaccia-cole o il semplice cole (cfr. Domenico Bielli, Vocabolario Abruzzese, A. Polla, Cerchio-Aq, 2004). Non posso pertanto lasciarmi sfuggire l’accostamento di cole al greco koloi-ós ‘cornacchia, gazza’ e il fatto che esso sia stato variamente maltrattato in bocca al popolo come nel secondo costituente del nome aiellese o in quello cerchiese ciccia-ccòra. Ora, mi sembra molto interessante collegare cicia- con l’appellativo cecca , uno dei diversi nomi per ‘gazza’ citati da Di Nicola, ma anche altro nome dell’occhiocotto, un passeriforme ( anche in questo caso un solo nome indica due uccelli diversi). I linguisti, che non immaginano o semplicemente non fanno simili connesioni, in questo caso sostengono che si tratti del nome di donna Cecca, diminutivo di Francesca, e risolvono bellamente il problema, ma dovrebbero anche spiegarmi perché ricorrono regionalmente ornitonimi simili come ceca ‘beccaccino’, ceci-òra ‘occhiocotto’, leggera variante omosemantica di cecca, e buon’ultimo, per non tediare troppo i gentili e pazienti lettori, céc-ero ‘cigno’, ma anche ‘airone cenerino’, nome risalente a un lat. volg. *cyc-inus , class. cyc-nus ’cigno’. L’unica spiegazione è secondo me la constatazione che queste radici, nella notte dei tempi, avevano un significato molto ampio, fino ad arrivare a quello che per me è alla base di tutte le parole, il significato di ‘forza, animo, spirito,vita, essere vivente, movimento, ecc.’. Questo voglio dire quando affermo che la Lingua procede per generalia: essa si muove da nozioni generalissime per specializzarle poi via via sempre di più.
Io non amo le sottili teorizzazioni sulla lingua che un po’ mi spaventano perché talora generano incresciosi fraintendimenti, e anche perché forse non sarei nemmeno in grado di svilupparle con abilità e maestria come fanno tanti dotti studiosi. Quando Di Nicola parla di “teoria della convenzione” presentandola, mi pare, come moderna sarebbe stato bene però ricordare anche che essa si trovava già nel Cratilo di Platone, opera da lui citata. Il suo sostenere, in modo critico nei miei confronti, che la parola sarebbe frutto di una convenzione basata sulla libertà di scelta, sull’arbitrio, ecc. ho l’impressione che scaturisca dal fatto che egli non conosce il mio pensiero al riguardo, non avendo magari letto i tanti miei articoli pubblicati precedentemente in questa rivista e raccolti, insieme ad altri, nelle mie Meditazioni Linguistiche, pubblicate lo scorso anno. Comunque egli può farsene un’idea leggendo l’articolo intitolato Fonte della Vita e Fonte Vipera pubblicato nell’ultimo numero (9/2008) insieme al suo intervento che sto commentando. A p. 25 di quel numero più o meno affermo che l’uomo delle origini si trovava nella comoda posizione di scegliere, per dar corpo alla parola, tra i vari suoni a sua disposizione, dato che per lui l’uno valeva l’altro: quest’idea non coincide forse con quella che Di Nicola mi rimprovera di non condividere?
Quanto al biunzo ‘bigoncio’ castellitto che viene riferito a due tipi di bigonci, l’uno fatto di vimini per il trasporto dello stallatico nei campi, l’altro di listelli di legno per il trasporto delle uve, voglio far sapere che ad Aielli essi erano indicati con due appellativi diversi: evidentemente la Lingua, come sostenevo sopra, aveva in questo caso ristretto, nel nostro dialetto, il significato più generico del castellitto biunzo. Difatti da noi la parola piunze designava solo il recipiente per le uve, mentre quello per lo stallatico era chiamato cestóne (con le due /e/ mute). Questo recipiente, quindi, non era in uso solo a Castellafiume, come afferma Di Nicola, anche se in forma dubitativa.
L’etimo dato da Di Nicola per il castellitto ronzane ‘gocciolamento dell’acqua piovana dai tetti senza canale di gronda, stillicidio’ mi offre il destro per fare delle osservazioni che definirei da manuale. Intanto il termine rispunta anche ad Aielli nella forma alquanto diversa di verenzàle (tutte le /e/ sono mute), il che dovrebbe far capire che l’etimo non può essere “onomatopeico” come sostiene Di Nicola in riferimento al “ronzio” causato dallo stillicidio. E ancora non si tratta di parola esclusiva di Castellafiume, come Di Nicola dubitativamente sostiene. A me pare evidente che egli abbia una visione piuttosto localistica del fenomeno lingua, la quale, invece, se potessimo conoscerla a fondo mostrerebbe in diacronia radici talmente profonde e talmente lunghe e vaste in estensione da farci rimanere sbalorditi. Sicchè potrebbe essere a mio avviso almeno ipotizzabile che il nome castellitto del pipistrello (cui Di Nicola accenna) nòttia, simile al lat. noctua 'civetta', possa affondare le sue radici in uno strato linguistico molto precedente a quello del latino, dove esso poteva avere un significato del tutto generico come ‘uccello’. Ma, una volta rimasto impigliato nello strato latino, ha conseguentemente stretto un patto di necessaria e mutua dipendenza con la parola latina noct-em ‘notte’, talché è difficilissima e quasi impossibile operazione, per i non iniziati in questa impietosa e severissima scienza etimologica, tentare di districarne il nodo strettissimo. Quando poi bisogna determinare l’etimo di una parola è indispensabile e fondamentale la comparazione di essa con quelle corrispondenti di altre parlate vicine e lontane. Perché una cosa è certa: una parola quasi mai è un prodotto locale, degli abitanti di un determinato paese. La forma aiellese verenzàle suggerisce che originariamente il termine faceva parte della famiglia a cui appartiene l’italiano gronda , lat. tardo grunda. E in effetti molte parole dei nostri dialetti presentano la perdita della gutturale sonora /g/ seguita da consonante, come è avvenuto a mio parere per ronzane nel dialetto castellitto, o, più raramente, la vedono trasformarsi in fricativa sonora /v/, come è avvenuto per verenzàle nel dialetto aiellese, dove tra l’altro si è avuta del tutto normalmente anche la chiusura della /u/ non accentata di un originario *grundjàle nella vocale indistinta schwa, meglio nota come /e/ muta. D’altronde ho sostenuto in altre occasioni che per me l’onomatopea difficilmente può essere considerata un fenomeno importante nella glottogonia, appartenendo essa alla sfera ludico-iconica più che a quella squisitamente conoscitiva dell’uomo. Ma non è il caso di cercare di approfondire la cosa qui. Lo stesso trattamento della gutturale sonora iniziale si ritrova nell’altro termine aiellese verescìle (tutte le /e/ sono mute) ‘ventriglio’, noto anche come ‘grecìle’, voce laziale diffusa anche in Abruzzo. La parola castellitta riccia ‘pietruzza, piccolo frammento di pietra’ corrisponde all’aiellese verìcca (la /e/ è muta)’ pietruzza’, ma originariamente il termine era *bricca, come attesta l’it. breccia.
Per ribadire il concetto della profondità e genericità dei significati credo sia il caso di portare un altro bell’esempio rappresentato dalla parola aùcchio ’gufo’ del dialetto castellitto, parola che francamente non può presuppore altro dietro di sé che una forma del lat. tardo *au-culus, class. avi-cula ’uccellino’ della stessa famiglia di tardo lat. aucellus, diminutivo masch. di class. avis (femm.). La forma immediatamente precedente ad aùcchio è pertanto *auc(u)lus, *auclu. C’è da osservare che molto probabilmente la parola si sarà incrociata con occhio, dati i due occhioni dell’uccello notturno, ma non per questo sarebbe legittimo un eventuale etimo fatto derivare da occhio, lat. oculus.
Così posso concludere osservando, senza scendere nei dettagli, che per me la cotanzìnzera di Castellafiume e la cuterenzìnzela di Aielli sono destinate a rimanere separate nel loro significato attuale anche se molti secoli o millenni fa ne esprimevano uno generico ed unitario, come del resto attesta il loro significante.
Do un consiglio, ognuno ne faccia naturalmente ciò che crede: se si vuole veramente andare al fondo delle parole, ci si tenga il più possibile lontano dalle teorie che pure possono servire di generico orientamento, di spunto e di verifica. Si leggano e studino i toponimi, cosa che io faccio da una ventina di anni senza perdere l’entusiasmo e la curiosità della ricerca. Essi sono stati i miei veri maestri che, umili e tenaci come querce, hanno sfidato i millenni, portando fino a noi i loro sensi nascosti, purchè li si sappia interrogare nel modo giusto. Non si dimentichi che anche nelle piccole cose sono scritti i grandi principi del nostro mondo, come ben diceva il grande Galilei.

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