La proposta di Ottavio Lurati circa l’etimo di sgamare, giovanilismo romanesco, ma ora diffuso in tutta Italia, è certamente molto articolata e meditata anche se mostra secondo me qualche punto debole che mi permette di inserirvi quasi furtivamente queste mie osservazioni che mirano ad un’altra proposta. Chi volesse leggere il testo del Lurati, che fa parte del discorso di ringraziamento per la vincita del Premio Galilei 2003, può, cercando in Internet il suo nome, trovarlo sotto il titolo John A. Davis.
Scartata la derivazione da lat./it. squama (da cui si sarebbe formato, secondo alcuni, il verbo sgamare col sign. di ‘spulare il grano’) per la inverosimiglianza della cosa e per la scarsa vitalità gergale del termine squama, egli appunta l’attenzione sulla voce calmo nel senso di ‘gergo’(diffuso, antico e radicato) e fa derivare il verbo in questione proprio dal sign. dell’aggettivo calmo ‘quieto, pacato, tranquillo’ e quindi ‘segreto’, concetto che ritorna ad esempio in espresioni simili come fare qualcosa alla chetichella ’ cioè ‘in silenzio, di nascosto’, locuzione che parte da quieto, cheto. La voce riaffiorerebbe nel veneziano cal(u)mar ‘fare qualcosa in segreto, conseguire alla chetichella, di sotterfugio, rubare’, venez. calumarse drio a uno ‘seguire uno in segreto, pedinarlo’, venez. dar una cal(u)mada ‘ compiere un furto’ ma anche nel tipo ingalmire ‘parlare in gergo’ del Canton Ticino, Crealla (Piemonte), Bologna’. Da un tipo simile (s)galmare (Lurati non ne dà però dei riscontri) ‘parlare il calmo, il gergo, capire’ si sarebbe passati a sgamare (variante dell’Italia centrale). Si richiama il fenomeno dell’assimilazione «cui inclinano tante parlate centrali e meridionali» e si portano gli esempi di it. almeno>napol. ammeno, romanesco palma, la pianta, che dà pamma, il caso di *tolre/togliere/torre, il messinese sòddu ‘soldo’, lucano merid. upp ‘volpe’. Può considerarsi veramente insignificante il fatto che nessuno di questi esempi esibisca una consonante scempia lì dove è avvenuta l’assimilazione? In effetti a me sembra che nel centro-meridione sia la norma il raddoppiamento di una delle consonanti in casi del genere e in specie nel nesso –lm-, se si astrae dal romanesco che pronuncia scempia la -r- geminata e da alcune parlate come quella del mio paese di Aielli dove il nesso –lt- dà talora la sola –t- come in vòta ‘volta’, cótë p. pass. ‘colto’, futë ‘folto’ e il nesso –ls- dà talora –z- come in puzë ‘polso’, arcaico vuzë per it. arc. volse=volle . La forma sgamare, pertanto, potrebbe non essere il prodotto di un’assimilazione e rimandare ad altra radice che io individuerei nel dialettale (abruzzese, laziale, marchigiano, campano, pugliese, siciliano) cama ‘pula, loppa’, nel siciliano (a Francavilla) anche ‘velo che si forma sulla superficie del latte bollito’, cosa che quindi fa capire che il significato d’origine della radice doveva essere quello di ‘copertura,velatura, avvolgimento’ e simili. E allora essa doveva anche coincidere con quella di it. cam-er-ella ‘pula, loppa’, termine che è un semplice ampliamento del precedente, riscontrabile anche nel gr. kam-ára ‘camera, volta’, lat. cam-era(m) ‘volta’, lat. cam-ella(m) ‘tazza’ (considerata diminut. di cam-era(m) ma probabilmente lo era di una forma base *cama), lat. cam-ur ‘curvo, arcuato’, got. ga-ham-on ‘coprire’, ted. Himm-el ‘cielo’, ted. ge-heim ‘intimo, segreto, nascosto, occulto’ (che è fatto derivare, credo, dal ted. Heim ‘casa, patria’: ma, se ci si riflette, l’idea di casa non dovrebbe essere diversa da quella di cam-era, affine a sua volta a quella di ‘cavità, grotta, capanna’), it. cam-ice (prob. dal gr. biz. kam-asos' tunica'), it. cam-icia (dal tardo lat. cam-isiam, prob. di orig. celtica), it. gam-urra (anche camùrra, camòra, camòrra) ‘antica sopravveste femminile’, fatta derivare dubitativamente dall' arabo humur, pl. di himar 'velo da donna' . La camorra, ben nota associazione criminale di stampo mafioso, credo sia debitrice della sua denominazione alla precedente radice, che ben si adatta a designare la frode, il sotterfugio, l' agire coperto, il raggiro, l'imbroglio e la segretezza in cui essa opera. La radice, poi, è talmente profonda e diffusa da giustificare almeno la supposizione di un latino volg. *ex-cam-are ma non col senso specializzato di ‘spulare, togliere la pula (dal grano)’ come nell'abruzzese scamare, bensì con quello, probabilmente originario e più generico, che doveva essere ‘scoprire, togliere il velo, la copertura’, il quale facilmente trapassa a quello assunto da sgamare il cui valore, nel vocab. del De Mauro, è: 1) adocchiare di nascosto 2) notare, intuire, scoprire qcs. di volutamente nascosto o taciuto 3) cogliere sul fatto, beccare. Così verrà ad essere altrettanto facilmente spiegato l’altro significato di sgamare riportato dal Lurati, ossia ‘fuggire, sfuggire’. Egli lo spiega, a mio parere piuttosto artificiosamente, asserendo che «L’idea era quella dell’intuire con rapidità la malaparata e di sottrarsi destramente al pericolo che stava giungendo. Nell’un caso (capire al volo le allusioni che erano destinate ad altri) e nell’altro (sfuggire, sottrarsi destramente a uno) stava l’idea di base del farla in barba all’interlocutore. Affiorano materiali gergali che presentano non poche volte la processualità semantica: ‘capire al volo’, sottrarsi a un tizio, al poliziotto per esempio o al pericolo, (s)fuggire».
Per me, invece, lo sgamare nel senso di ‘(s)fuggire’ è semplicemente lo stesso verbo che ho proposto sopra ma usato intransitivamente, cioè un uscire dal guscio, uno sgusciare appunto (come vuole il significato generico di cama ‘involucro’), verbo quest’ultimo che talora assume proprio il senso di ‘sfuggire rapidamente e di soppiatto’. Le parole di Lurati mi pare che si dibattano nell’impossibile tentativo di enucleare da uno stesso termine due significati fondamentalmente inconciliabili tra loro come ‘scoprire, capire’ da un lato e ‘(s)fuggire’ dall’altro, se messi a contatto soltanto tramite la non necessaria connotazione, a mio avviso, dell’agire furbesco. Del resto i linguisti non recalcitrano dinanzi a simili operazioni che definirei di superfetazione interpretativa come quella che coinvolge il dialettale centro-meridionale nchianà, acchianà ‘salire’, spiegato come se si trattasse di un ‘arrivare al piano’ dopo una salita (cfr. Cortelazzo-Marcato I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998, s.v. chiàna). Anche qui essi introducono una idea di troppo, quella di ‘arrivare’ che sfortunatamente non si può estrarre da quella di ‘pianura’ e che avrebbe potuto prestarsi ad indicare anche l'azione opposta dello scendere, dato che dopo una discesa ugualmente si 'arriva al piano': a me sembra assurdo e complicato un neologismo del genere e pertanto sposto alla preistoria la formazione del termine in questione che, così come lo si intende , non risponde per niente alle capacità dell'uomo onomaturgo il quale, contrariamente all'idea che facilmente ce ne facciamo, non era a corto di mezzi adatti ad esprimere le differenze di questi significati basilari di movimento in salita o discesa attinenti all'idea fondamentale e primordiale di spazio e non era costretto, quindi, a ricorrere, per esprimere un 'movimento verso l'alto', all'idea quasi opposta di 'piano' per di più soggetta a fraintendimenti. E inoltre ai linguisti sfugge, cosa gravida di conseguenze, che a Buccino, un paese del salernitano, acchiàna significa ‘in salita’, locuzione avverbiale sostanzialmente modale e di stato che esclude ogni comoda intromissione abusiva nel suo seno di un verbo di movimento come arrivare e di conseguenza inchioda a cercarne l'etimo nell’ambito della sua quiete e della sua pace. Non resterebbe, allora, che prendere atto che le interpretazioni più semplici, immediate, dirette sono spessissimo da preferire a quelle fatte di circonlocuzioni più o meno divaganti, e rassegnarsi a dare il giusto significato alle decine di oronimi italiani formati da quell' appellativo (Piano), che attendono invano giustizia da migliaia di anni nonostante la testimonianza a loro favore del termine serbocroato plan-ina ‘montagna’ e della locuzione sopra citata. Ma abbandonare le proprie convinzioni maturate in anni di sudati studi alla lucerna, e basati su una tradizione lunga e gloriosa, significherebbe provare una delusione altrettanto cocente della mancata giustizia per i monti. Tutto sommato, quindi, per non provocare e diffondere panico è meglio non sconvolgere il sonno delle quiete acque stagnanti: la quantità di gioia che proverebbe qualcuno non compenserebbe minimamente la enorme quantità di delusione di molti altri.
Una ulteriore conferma della validità della mia etimologia di sgamare può derivare dall’analisi delle voci come camuffare, sgamuffare, correnti in molte parlate italiane e che il Lurati interpreta come ampliamenti, attraverso il suffisso –offa, della base sgamare ‘capire’(proveniente secondo lui da sgalmare, come abbiamo visto), di cui ripetono l’esatto significato. «Al verbo – afferma il Lurati- venivano poi fatte percorrere delle applicazioni contestuali che lo portavano ad essere usato nel significato di ‘capire al volo’, ‘interferire col pensiero di un altro’, ‘imbrogliare l’altro’ ecc. Infine, ‘mascherare una cosa, un imbroglio’, ‘celare’: il significato che ci è noto dall’uso corrente e che è più vulgato. Ma la matrice era gergale ed era quella di calmo/calmare/sga(l)mare». A mio parere la connessione, con questi ultimi termini, delle due forme camuffare, sgamuffare ‘nascondere, coprire, mascherare’ è da scartare, come ho già detto, perchè le considero come un semplice ampliamento (comunque problematico esso stesso, perchè io tendo, per principio, a vederlo come un’aggiunta di una radice omosemantica) della base cama ‘pula, involucro’ di cui sopra anche quando esse presentano i significati figurati di ‘scoprire, capire, capire al volo, ecc.’. Se dovesse fare difficoltà il camuffare ‘scoprire, capire’ senza la –s- privativa iniziale da lat. ex-, si potrebbero ricordare le due forme it. pelare/spelare dall’identico significato.
Resterebbero ora da spiegare le restanti voci con la –l- non assimilata fatte derivare dal Lurati sempre dal termine calmo ‘gergo furbesco’ e, per quanto mi riguarda, da tenere ben separate dalle precedenti senza la -l- . Io le farei dipendere tutte dalla forma veneziana cal(u)mar ’fare qualcosa in segreto, ecc.’ sopra citata, e considererei la -u- non una sorta di vocale anaptittica ma parte integrante della radice, la quale dovrebbe corrispondere, anche se non ne sono certo, al gr. kálymma ‘velo, copertura, oscurità’, tutti significati che andrebbero a fagiolo per ricavarne gli altri di cui essa si carica nei vari contesti. Ma non rifiuterei un influsso del lat. cl-am ‘di nascosto’, da avvicinare a lat. cel-are ‘nascondere’ nè un suo accostamento al lat. calumnia ‘calunnia, raggiro’ da calvi ‘ingannare, raggirare’.
Il verbo greco kalýptō, da cui deriva il precedente kálymma ‘velo’, ha essenzialmente l’unico significato di ‘coprire, avvolgere, nascondere’, ma l’altro verbo greco kléptō, che presenta la stessa struttura consonantica ma un gioco vocalico diverso, sembra essere comunque una variante del primo se si tiene presente la sua accezione di ‘nascondere, occultare’, appunto, oltre a tutte le altre che combaciano in pieno con quelle del venez. cal(u)mar sopra citato, ossia ‘rubare, fare qualcosa in segreto, di soppiatto, abbindolare, ingannare’.
L’abruzzese calima, calimë ‘foschia afosa’(cfr. I dial. ital., cit.,s.v. calìna) ci offre l’occasione per interessanti osservazioni. Esso dovrebbe risultare dall’incrocio e sovrapposizione di due radici, una col significato essenziale di ‘velo, velatura, foschia’ da accostare al citato gr. kálymma e l’altra con quello di ‘calura, afa’ da avvicinare al lat. cal-ere ‘essere caldo, ardente’, al napol. calimma ‘tepore, calduccio’. La variante abruzzese calìna ‘foschia afosa’ ma anche, soprattutto al plurale calìnë, ‘scintille del fuoco, allucinazioni’ mostra in filigrana la stessa alternanza semantica velo, foschia/calore, ardore. E pertanto non posso condividere il parere della Marcato, estenditrice della voce in questione nel dizionario citato, che presuppone un latino parlato *calina ‘calore’ per le due accezioni. A me pare assolutamente chiaro che il significato di ‘foschia’, incluso nel termine insieme all’altro, debba essere tratto dal lat. cali(g)ine(m) ‘caligine, nebbia, offuscamento, foschia’, attraverso il fenomeno della totale lenizione della –g- intervocalica attestato in tante parole dialettali abruzzesi e anche nelle voci fullìne,fullìnie ‘fuliggine’(cfr. Domenico Bielli, Vocabolario abruzzese, ristampa di Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004). Ad Aielli-Aq, il mio paese, il termine suona (suonava) fijjìna con palatalizzazione della liquida laterale alveolare. Anche lo spagnolo calina ‘caligine, nebbiolina’ credo debba avere la stessa origine. Il supposto latino parlato *calina può allora giustificare solo gli altri significati di ‘afa, calore, scintilla’. Che il suddetto fenomeno della lenizione ci sia stato è definitivamente dimostrato dalla forma abruzz. f. sing. calìe (cfr. D. Bielli) ‘ caligine’, chiaramente proveniente dal nominativo lat. cali(g)o ‘caligine’, nonchè dall'altra voce calienà (cfr. D. Bielli) 'vedere confusamente come in nebbia' che richiede un lat. *cali(g)in-are, ampliamento di lat. calig-are 'essere oscuro, tenebroso, non vederci chiaro, ecc.', termine gemello dell'altro calunie (cfr. D. Bielli) 'caligine, delle giornate afose' incrociatosi con it. calura. Ma il bello è che anche la voce calìe presenta altri significati tra loro inconciliabili cioè 1) ‘vigore, lena’, 2) ‘guasto, apertura in una siepe’, 3) ‘smottamento’. Ora, il primo credo possa essere messo in rapporto, nonostante qualche apparente difficoltà, col calabrese calima ‘calma, temperamento, alimento’ (cfr. I dial. ital., cit.), che ne sarebbe un ampliamento. La calma, infatti, mi sembra qui l’attributo di chi domina con forza e costanza i suoi stati d’animo e le sue passioni, e può essere essa stessa, quindi, epifania diretta di una forza interiore . L’ alimento è l’altra faccia del vigore che fa crescere gli esseri viventi. Il secondo e terzo significato, apparentemente irrelati, credo che trovino, invece, un punto in comune nel greco khaláo ‘allentare, abbassare, cedere, aprirsi’ da cui l’it. cal-are; cfr. anche gr. khál-asma ‘interstizio, spazio vuoto, apertura, crepatura’.
Il termine gergale calmo ‘gergo’ che Lurati, senza tentennamenti deriva dall’aggettivo it. calmo, anche se ne dà una spiegazione per il vero abbastanza consequenziale, a me sembra tuttavia che si presti anche ad altra interpretazione, diversa e forse più convincente anche di quella da me data più sopra che ne fa seguire il destino di venez. cal(u)mar, se lo si collega con il lat. carmen ‘canto, suono, poesia, formula magica, incanto, testo,ecc.’ per via del facile e diffuso scambio l/r seguiti da consonante, ma soprattutto perchè si incontrano in abruzzese diverse voci chiaramente legate ad esso come ciarmà ‘aggirare, ingannare’, ciarmatare ‘ciurmatore, ciarlatano’, ciarme ‘parlare insinuante, al fine di ingannare’ tutte influenzate nella pronuncia dal francese charme ‘incanto’, se non derivate direttamente da esso. E’ un fatto, però, che si incontrano in abruzzese anche altri termini legati ai precedenti ma con significato un po’ diverso come ciarmarécce ‘cicaleccio, bisbiglio, passeraio’ , ‘nciarmà ‘barbugliare (degli ubriachi), incantare’ e infine l’aiellese ‘ngiarmuttà ‘dire parole incomprensibili, farfugliare’ (forse incrociato col lat. mutt-ire ‘borbottare’). La mia idea è che questi significati, che insistono sul ‘risonare, rumoreggiare, cicalare, parlare in modo confuso’, non sono da considerare per forza uno sviluppo successivo del significato di ‘formula magica’ (e per questo oscura) incluso nel lat. carmen, ma che essi lo hanno affiancato fin dall’origine nei dialetti, come secondo me sta ad indicare l' altro suo significato di suono che è d'altronde quello del suo etimo corrente *can-men (cfr. lat. can-ere ‘cantare’). Così il lat. carmen dovette fin dagli inizi indicare un linguaggio particolare ed oscuro, un gergo, appunto, arrivato fino a noi nella veste di calmo vicina a quella originaria, ma un po' lontana, nella pronucia, dalle forme influenzate dal francese charmer riguardanti in genere solo il significato di ‘incantare, ammaliare, imbrogliare’ diffuso mi pare in tutta Italia. In Abruzzo l’influenza si è estesa anche alle forme avvicinabili a calmo per il significato.
Il verbo antiquato ciurmarsi ‘ubriacarsi’, derivato come il verbo ciurmare ’raggirare’ dalla forma ciarmare per influsso di it. ciurma, nasconde a mio avviso, dietro la facciata, il greco khárma ‘gioia, piacere’, termine del tutto adeguato a significare l’eccitazione e l’ebbrezza date dal vino, concetti abbastanza diversi da quello di malia, incanto. Ecco perchè l’abruzz. ‘nciarmà sopra citato, che doveva avere inizialmente solo il significato di ‘incantare, farfugliare’ ne acquisisce anche l’altro, come valore aggiunto, di ‘farfugliare degli ubriachi’: l’incrocio con altro verbo poi caduto in disuso o trasformatosi nel ciurmarsi ‘ubriacarsi’ di cui sopra, ha determinato l’ampliamento del suo significato.
Infine ritorno sul calabrese calima ‘calma, temperamento, alimento’ perchè credo di poterlo proficuamente confrontare con una voce ricorrente (un tempo) nella parlata del mio paese, e cioè con il verbo pronominale scalmàsse<*scalmarse ‘ perdere vigore, vapore, qualità, temperamento’, detto ad esempio del vino lasciato in una bottiglia o fiasco senza turacciolo: l’anima tutta del vino si sarebbe volatilizzata attraverso la bocca del collo priva di tappo. Questo significato è in perfetta armonia con quelli del termine calabrese che parla di temperamento e calma, la quale ultima deve essere vista, allora, in questo contesto come la qualità di chi riesce attivamente a temperare e dominare i suoi istinti e non come riflesso magari di una indole placida, apatica, inerte . L’altro suo significato di ‘alimento’ depone a favore di questa analisi. E mi viene allora anche il sospetto che l’etimologia corrente dell’italiano calma non sia corretta perchè il termine da cui esso è fatto derivare, il tardo latino cauma ‘forte calore’ dal gr. kaûma ‘ardore (del sole)’ può legittimamente rendere conto solo del ‘caldo’, appunto, non anche della quiete di tutti gli elementi della natura che spesso lo accompagna (calma), la quale mi pare possa trarre alimento, invece, proprio dall’antichissima voce calabrese cal(i)m-a, che fa il paio con quella dell’aiellese s-calm-àsse. Anche l’adagio popolare la calma è la virtù dei forti conferma questo antico nesso tra la forza e la calma. Ma quanto sia difficile a volte tracciare confini netti tra una forma e l'altra ce lo fa pensare l'abruzzese (cfr. Bielli) scalemarse 'scalmanarsi' , significato che indica un 'agitarsi, sudare (per calore o altro )' - e si spiega come un 'perdere la calma' - ma che sconfina anche nel campo semantico del 'calore' e della 'sete', come nell'abruzzese (cfr. Bielli) scalemarìe 'gran sete'. La radice sembrerebbe così riavvicinarsi all'idea di 'calore' che abbiamo scartata come etimo: ma questo non è sufficiente a farci cambiare idea sul percorso che ne abbiamo tracciato perchè l'idea del 'calore' è qui secondaria e favorita anche dall'incrocio di cal-ma con la radice di cal-ore. La spiegazione etimologica di tutti questi termini a mio avviso potrebbe avvitarsi ancora su se stessa quando si riflette che la forza che controlla le pulsioni dell'istinto, cioè la calma, è identica a quella che alimenta le stesse pulsioni e lo stesso calore. Tutto si tiene. Ma questa è un'altra storia, poco digeribile per i più.
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