In alcune parti dell’Abruzzo
si registra l’usanza di andare a passà
l’ácquë ‘passare l’acqua’ in
occasione della scampagnata del lunedì successivo alla Pasqua. L’espressione vale anche come sostantivo
maschile (a Colonnella-Te) che indica comprensivamente la gita del lunedì dell’Angelo, nota altrimenti come pasquetta. Il linguista abruzzese
Ernesto Giammarco[1]
sostiene che l’espressione deriva appunto dal fatto che il lunedì di Pasqua era
di rito attraversare, saltando, un ruscello.
Ora, chi mi segue negli
articoli del blog ricorderà che in molti
casi simili ho mostrato come bisogni ragionevolmente pensare che siano il rito, la costumanza, il mito a
dover essere spiegati dalle relative espressioni, normalmente generate da
automatiche reinterpretazioni di sostrati linguistici precedenti, e non il contrario, tanto che ormai io
considero questo un metodo sperimentato, efficace ed insostituibile. In mancanza di esso a mio parere si cade
purtroppo in banalità interpretative che lasciano intatto, a pochi centimetri
dalla superficie, il tesoro linguistico, e non solo, sottostante. E’ come se si fosse muniti di un detector inadatto a scoprire l’oggetto che si vuole
trovare, ma di cui ci si fida ciecamente con la inevitabile conseguenza di chiudere
di fatto negativamente e definitivamente la ricerca, abbagliati da quello che
il detector rileva e che peraltro sembra possedere tutti i
crismi di una verità self-evident. E’ superfluo dire che è
stato per me un gioco facilissimo, oltre che gradevolissimo, scoprire anche in
questo caso il luccicante tesoro a portata di mano se non di detector. Naturalmente vorrei che chi la pensa
diversamente al riguardo avesse anche la compiacenza di propormi un suo
ragionamento altrettanto credibile, in modo che io possa rivedere il mio.
Scartata quindi la
praticabilità della spiegazione del rito basandosi sul significato attuale
dell’espressione che sembra essere l’immagine riflessa del rito, non resta che
tentare la strada inversa di cercare, entro i limiti formali della stessa
espressione, un significato più profondo che rovesci il rapporto suddetto
facendo diventare il rito una naturale conseguenza di quella.
A me che pure non sono un
cattolico praticante, ma che comunque conosco qualcosa sulle origini della
Pasqua cristiana, la quale per il nome rimanda a sua volta a quella ebraica, è
balenato subito nella mente che sotto quella espressione si nascondesse il
termine dell’antico ebraico pesach, pesah
(aramaico pasha) da cui deriva il
nome delle festività in questione e che significa ‘passaggio’ o meglio ‘saltare
oltre’. La Pasqua ebraica, come
illustri studiosi affermano[2],
era certamente una remotissima festività legata alla primavera (mese di Nisan)
e probabilmente alla transumanza di tribù semitiche preistoriche già millenni prima delle storicizzazioni della festa nei
modi e nei fatti di cui narra la
Bibbia , i quali ne fanno il ricordo a) del presunto passaggio del popolo ebraico attraverso
il mar Rosso, b) del passaggio di Yahweh che punisce gli Egizi uccidendone i
primogeniti maschi ‘passando oltre’ le case degli Ebrei marcate dal sangue
dell’agnello pasquale, e c)del raggiungimento della libertà dalla schiavitù.
Passando ad altro, a me pare
che sia molto verosimile che tribù semitiche nomadi, ancor prima forse che si formasse il nome ebraico e avesse
origine la storia di questo popolo, siano giunte da noi per espansione naturale,
anno dopo anno, a partire dalla cosiddetta Mezzaluna fertile, portando con sé i
propri usi, costumi e festività i cui nomi, col favore del caso e della impagabile
tradizione, sono potuti talora arrivare
fino ai nostri giorni anche se i loro significati sono stati più o meno
stravolti per l’incrocio con altre parole di strati linguistici successivi.
Il semitologo Giovanni
Semerano, morto una ventina di anni fa, sosteneva che le lingue europee, lungi
dal discendere dall’abbastanza congetturale ed astratto indoeuropeo comune,
avessero stretti rapporti con antiche lingue semitiche dell’area mesopotamica
di circa 5000 anni fa. La sua visione a
mio avviso va certamente corretta ma è indubbio che contiene molti aspetti
veritieri, checché ne pensi la maggior parte degli studiosi.
A dire il vero avevo avuto
sentore della presenza di parole semitiche nei nostri dialetti già nell’articolo
intitolato Le categorie aristoteliche
ostacolano la comprensione dei concetti generali all’origine del linguaggio
(giugno 2009) a proposito di due parole del dialetto di Lecce nei Marsi-
Aq che mi sembravano mostrare un gioco
di gradazione vocalica simile a quello che normalmente caratterizza le parole
semitiche. In alcune di queste lingue,
come l’arabo, il gioco apofonico interno alla radice, costituita
dall’impalcatura semantica delle consonanti, è sfruttato al massimo per
piegarla a svolgere varie funzioni morfologiche. La radice araba qtl ‘colpire’, ad esempio, dà
il perfetto attivo qatala, passivo qutila, imperfetto attivo ya-qtulu, passivo yu-qtalu. Questi fenomeni si
rintracciano più o meno cospicuamente in varie lingue arioeuropee in cui essi comunque
erano in fase di decadimento come il greco, le lingue germaniche, l’antico
indiano e anche il latino.
Ora, tornando
all’espressione passà l’acquë di cui sopra, mi sembra che essa possa e debba essere
agganciata alle parole ebraiche pesach, pasach
‘passaggio, saltare oltre’ non solo per l’evidente somiglianza fonetica
della espressione dialettale e del termine pas-ach, specie se si toglie
l’articolo all’espressione abruzzese con concomitante elisione di una delle due –a- (compiendo in sostanza l’operazione
inversa rispetto a quella che aveva generato l’espressione), ma anche per la
precisazione che Ernesto Giammarco dà dell’uso di passare, saltando, un ruscello come se fosse presente, nella coscienza di
coloro che già nella notte dei tempi eseguivano dalle nostre parti questo rito,
il significato (o uno dei significati) della radice che costituiva il nome
della loro festa primaverile, celebrata anche con una danza cultuale da tutte le religioni semitiche, come del resto
invitava a fare il significato del nome stesso della festa[3].
Se si vuole essere pignoli bisogna
notare anche la voce abruzz. acchë ‘acqua’, sovrapponibile
perfettamente all’-ach di pas-ach ‘passaggio’[4]. A chi nutrisse qualche
dubbio circa la possibilità di sopravvivenza del rito e della relativa parola da
un’epoca così lontana, ricordo che quasi sicuramente si trattava di una delle feste
più importanti delle comunità primitive, e che almeno per gli ultimi duemila
anni circa il rito ha potuto sopravvivere senza sforzo alcuno perché è rimasto
agganciato alla festa cristiana della Pasqua e alla radice di questo nome.
Inoltre la tradizione della
gita fuori le mura assurge secondo me a simbolo del nomadismo delle le tribù
primitive, le quali, dopo la sosta del periodo invernale, riprendevano la
marcia verso altre terre o magari, se erano divenute stanziali, verso pascoli
montani.
E non è tutto. Sintomi della presenza di questa radice si
avvertono, a mio avviso, anche nella voce abruzzese pasahà[5]
‘girellare’ e nel dialetto di Trasacco-Aq dove l’espressione passà l’àcqua[6] , oltre al significato letterale di ‘passare
l’acqua’ significa ‘essere presuntuoso, arrogante’ con un passaggio semantico abbastanza rintracciabile
che parte dall’idea originaria di ‘passare o saltare oltre’ per toccare quella di ‘eccedere’ ed arrivare all’ultima
di ‘esagerare, esaltarsi, inorgoglir(si), in-superb-ire, ecc.’. Non è quindi da credere che quest’espressione
trasaccana sia nata in riferimento agli emigranti che nei secoli scorsi si
recavano in America o in Australia i quali, appropriandosi di essa, le davano
un significato del tutto positivo esprimente l’orgoglio, l’esperienza e le
capacità che avevano acquisito con il coraggio di abbandonare il luogo natio
per cercare di fare fortuna altrove: l’antichità della corrispondente
espressione indicante, anche se con significato alquanto diverso, il rito della
scampagnata del lunedì dell’Angelo impedisce, a mio avviso, la praticabilità di
simili scorciatoie esplicative. Del resto mi pare realistico immaginare il
senso di orgoglio che doveva nascere
e forse nasce ancora nell’animo degli ebrei quando celebrano la Pasqua, e
meditano sulle grandi imprese e capacità di resistenza dei loro antenati che
fuggirono dalla schiavitù dell’esilio e tornarono alla terra promessa, guidati
da Mosè.
Le parole sono molto più antiche di quanto
talora si possa supporre. Lo stesso
inglese passage (mutuato dal
francese) nel significato di ‘spostamento, scarto laterale (del cavallo)’ sembrerebbe resuscitare lo slancio contenuto nell’espressione rituale
abruzzese di cui sopra. Ma l’exploit
finale la radice semitica lo raggiunge nella passac-àglia o passag-àglio
o passag-allo ‘antico ballo popolare di probabile origine
spagnola o italiana’ il cui etimo
supposto è piuttosto banale ed infelice, a mio avviso, giacchè lega la parola
alla sua veste spagnola pasacalle intesa come composta di pasar ‘passare’ e calle ‘strada’[7]. Passare
per la strada, dunque, in riferimento a gente allegra e a suonatori di
chitarra che accompagnavano chi andava a cantare la serenata alla sua bella,
dato che la pura origine ballerina della passacaglia era via via scaduta a
favore di questa o quella usanza nei vari paesi in cui il termine si
ritrovava. Nel siciliano la sua variante
passagagghi indica ‘damerini che ronzano per le strade a
corteggiare’ (con influsso di –gallo
a quanto pare) oppure il semplice ‘viavai’,
ribadendo uno dei significati di fondo della parola, cioè quello di
‘passaggio, passeggio, passeggiatore’. Ma l’altro antico significato di ‘ballo’, che
è un saltare, lega il termine a filo
doppio col pesach, pasach ‘saltare
oltre’ di cui abbiamo parlato. Si deve
aggiungere ad esso solo un suffisso –alia,
-ale o simili per ottenere il
sostantivo che ha provocato la confusione etimologica, essendo d’altronde la
sua radice semitica non propriamente a portata di mano mentre la calle ‘strada’ spagnola era lì in evidenza per portare fuori
strada.
Ora, nel napoletano, passag-àglio significa ‘passero solitario’,
cosa che riapre l’interessantissimo capitolo sulla estrema plasticità o
elasticità dei significati delle radici, secondo il mio ormai sperimentato modo
di vedere. In effetti un significato
probabile , ricavabile dalla Bibbia, dell’ebr. pesach, pascha (il valore di ‘salto’ attiene propriamente ad ebr. pesichà) potrebbe essere stato ‘agnello’
in tempi lontani, significato che a mio parere non fu tratto per metonimia dal
nome della festa ma che dovette costituire una sorta di variante semantica
della stessa radice di quel nome, specializzatasi ad indicare gli esseri
viventi, gli animali, esseri cioè
dotati di anima, soffio, respiro e
che vivono grazie al sostentamento fornito dal Sole e dal suo calore. Un’altra radice simile alla precedente è il
lat. passer ‘passero’ che secondo me alterna
semiticamente con gr. psár, ion. psér ‘storno’. Nel dialetto di
Castellafiume-Aq si incontra poi la singolare parola pasqu-arella [8]‘farfalla’
che aveva attratto naturalmente la mia attenzione da tempo e che ora posso
capire in profondità, credo. Essa per il
significato richiama il gr. psykhé ‘farfalla’ ma anche ‘soffio,
alito, anima, vita’, gr. psák-al-os ‘animale nato da poco, cucciolo’.
Le tre parole finiscono col coincidere non
solo nel significato ma anche nel significante, se le si inquadra nell’ottica
della spesso sbrigliata variabilità apofonica delle vocali all’interno di
parole semitiche di cui ho parlato più sopra, che del resto vengono individuate
semanticamente solo dalla nuda struttura consonantica. E fanno anche indovinare con buona
approssimazione quale dovette essere il significato originario del nome della
festa primaverile: quello di forza, di luce, di calore vitale, di rinascita e di gioia
che la Natura
e il Sole a primavera ricominciano ad offrire ai poveri mortali infondendo in essi un
rinnovato spirito di fiducia in sé e di slancio ottimistico verso la vita (cfr.
ingl. Spring ‘primavera’, ma anche ‘salto,
balzo’, significato che ci riporta onomasiologicamente
all’ebr. pesach ‘salto’, parola che indicava però anche la festa
primaverile). E’ facile così collegare i due concetti e farne scoccare tutta
l’energia, il turgore, lo slancio, l’impulso e l’ardore caratteristici del
risveglio della Natura a primavera.
Alla luce di queste osservazioni si può pensare, a mio avviso, che anche
l’italiano arcaico pascóre
‘primavera’ unito all’aggett. provenzale pascor
‘di Pasqua’, da cui deriverebbe, potrebbe essere il risultato di un
preesistente termine per ‘primavera’ incrociatosi con la voce Pasqua portata dal Cristianesimo. A
questo punto il significato nascosto del nome della festa che più sopra
individuavo con ‘buona approssimazione’, diventerebbe certezza: primavera!
Che il racconto biblico
relativo alla Pasqua ebraica si sia formato attraverso i millenni per accumulo
lento ma inesorabile e continuo di incroci di termini di parlate e lingue varie
che sono andati ad interferire e ad arricchire a mano a mano la narrazione
partendo da un nucleo originario, ce lo chiariscono ormai anche le poche
osservazioni da me fatte in merito alla festa: il suo nome stesso spiega perché
i pastori eseguivano la danza durante la sua celebrazione; perché
la festa sia anche un memoriale del vero o piuttosto presunto passaggio del Mar Rosso, episodio a mio
avviso (ma anche la stragrande maggioranza degli studiosi ne nega la veridicità)
originatosi come corollario non solo del nome della festività ma anche
dell’altro presunto (non esiste nessun documento storico che lo attesti)
episodio dell’esilio degli Ebrei in Egitto e della loro fuga verso la Terra promessa; perché
l’Angelo del Signore passò oltre le
case o le tende degli Ebrei portando la
morte in quelle degli Egizi; perché – se si vuole prendere per buona la mia supposizione fatta più
sopra- un agnello veniva sacrificato in onore del Signore da ogni famiglia
ebraica.
Sono andato per curiosità a
rileggere il brano (Esodo, 19 ss.) del passaggio del Mar Rosso e sono stato
attratto dal passo seguente: «[...] e il
Signore con un forte vento orientale fece ritirate il mare tutta la notte,
rendendolo asciutto. Allora i figli di Israele entrarono in mezzo al mare
all’asciutto […]». Ho fatto le seguenti
osservazioni: 1. L’idea di ‘vento’ è inclusa in quella di gr. psykhé ‘soffio, alito, respiro’; 2. L’idea di ‘asciutto’ è inclusa nel corradicale
verbo greco psýkh-ō ‘io soffio, respiro, raffreddo, secco, asciugo’. Persino l’idea di ‘notte’ si può abbastanza agevolmente
ricavare dal gr. pséph-os ‘oscurità,
tenebre’, se una pronuncia che mantenga solo il soffio dell’aspirazione nella
labiale aspirata di questa parola (cioè *pséh-os) va ad incrociarsi con una pronuncia simile della velare
aspirata nel sempre presente psykhé (cioè
*psyh-è). Mi si obietterà che la Bibbia era
scritta in ebraico. Rispondo asserendo che alle origini lontane dell’ebraico, come
abbiamo in qualche modo mostrato più sopra, potevano esserci state parole che
condividevano la radice con quelle greche corrispondenti.
Naturalmente bisognerebbe
conoscere l’ebraico per un’analisi più dettagliata e profonda di tutto il
racconto, ma in ogni modo mi pare che la scampagnata del lunedì dell’Angelo o
Pasquetta, in uso in Italia e non
altrove, si configuri proprio come uno spostamento,
una trasmigrazione della comunità
oltre i limiti del centro abitato, come avveniva quando le comunità
preistoriche si spostavano a primavera per motivi di transumanza o di
nomadismo. Interessante sarebbe appurare
se simili usanze, oltre che nei paesi abruzzesi di cui sopra donde avrebbero
potuto diffondersi altrove, esistevano anche in altre località. Una volta arrivato il Cristianesimo, la
scampagnata, un tempo forse elemento centrale e rituale della ricorrenza
preistorica, si secolarizzò trasformandosi in una gaia gita informale fuori
porta. Ritornando, in chiusura, al brano del libro dell’Esodo mi chiedo perché
mai il Signore fece spirare il vento per tutta la notte, se poteva all’istante
aprire le acque e asciugarle ipso facto.
Per rendere tutto più naturale nascondendo
la sua maestà? E prendendo per buona questa
considerazione che, pure, deve lasciare qualche spazio a tratti irrazionali e
mitici del racconto, dovrei io forse non fidarmi delle scoperte del mio
intelletto che, sia pure a fatica, ha modestamente rintracciato con qualche
rigore scientifico una strada che conduce ad una soluzione del problema che a
me sembra a dir poco altrettanto naturale e concreta?
[1] Cfr. M. Cortelazzo/C.
Marcato, I dialetti italiani, UTET,
Torino 1998, p. 323, s.v.
[2] Cfr. Alfredo Cattabiani, Calendario, Edizione Mondolibri S.p.A,
Milano 2004, p. 167
[3] Cfr. Alfredo Cattabiani, cit., p.
167
[4] Cfr. Domenico Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla
Editore, Cerchio-Aq 2004.
[5] Cfr. Domenico Bielli, cit..
[6] Cfr. Quirino Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo,
Avezzano-Aq 2003, p. 545.
[7] Cfr. M. Cortelazzo/ C.
Marcato, cit., p. 323.
[8] Cfr. Dante Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2007, p. 215.
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