La festa ricorre la prima domenica
di maggio, quando le giornate cominciano ad essere più confortevoli e dolci in
Abruzzo, e i vari paesi aggrappati ai colli e ai monti o adagiati ai bordi
delle pianure o delle valli intermedie iniziano a celebrare con rinnovato
fervore le feste dedicate a questo o quel Santo, a questa o quella Madonna, le
quali spessissimo arrivano, cariche di tradizione, dalla lontana preistoria,
come vedremo, perpetuando riti, nomi, divinità attraverso una lunga teoria di
millenni. Grande era in passato, e dura
tuttora, l’afflusso dei pellegrini a Pratola da varie parti della regione,
compresa la Marsica ,
per onorare, nel giorno della sua festa grande, questa bella Madonna cui le
nuove coppie si rivolgevano devotamente per assicurarsi una sana e felice prole.
Narra la
tradizione che agli inizi del 1500 un tal Fortunato,
malato di peste, aveva lasciato Pratola in preda al morbo e si era
rifugiato in una chiesetta diroccata del borgo Torre dipendente da Pratola, ai piedi del monte Cerrano.
Il poveruomo si era lì addormentato col pensiero che, se doveva
morire, sarebbe stato in qualche modo confortante che ciò avvenisse in un luogo
sacro. Ma durante la notte fece un sogno
risolutore: gli apparve una donna bellissima che gli diceva di svegliarsi perché la pestilenza era
finita e la salvezza era così assicurata a lui e alla popolazione tutta. Appena si svegliò notò tra le pietre e il
terriccio un occhio che lo fissava,
allora si avvicinò, smosse il terriccio e si accorse che vi era sepolto un
quadro che raffigurava la bellissima donna che gli aveva parlato nel
sogno. Gridò al miracolo, accorsero i
suoi compaesani e il quadro venne portato in paese. Tralascio altri particolari del racconto che
non mi sembrano essenziali per il ragionamento che voglio desumerne. Lasciandomi guidare dall’idea che, secondo
me, questa Madonna della Libera, e molto probabilmente anche le altre diffuse
nel centromeridione d’Italia, debbano continuare il culto pagano di Libera[1], dea agreste della
fecondità, cerco di estrarre dal testo del racconto elementi che confermino
tale supposizione. Ed effettivamente, a
pensarci bene, il nucleo di questa narrazione appare come una bella metafora del
ciclo di morte e rinascita (o risveglio) del
chicco di grano che viene interrato in autunno, attraversa l’inverno, e si
consuma e distrugge per sostenere in vita il piccolo germoglio che da esso si
sviluppa con i primi tepori primaverili.
Semanticamente peste(m) in
latino vale anche ‘morte’, la morte che minacciava Pratola e il nostro
Fortunato, la morte della Natura tutta, nel lungo periodo invernale, pronta però
a risorgere con rinnovato slancio a primavera.
Si badi bene che la metafora cui ho accennato non è il prodotto
volontario di una mente che a tavolino voglia descrivere, con immagini e nomi
di fantasia, il ciclo del grano suddetto, ma in gran parte la conseguenza
involontaria del sovrapporsi di strati linguistici successivi nel corso dei
millenni. Non ha nessun valore, in
questo quadro che si va delineando, la data degli inizi del 1500 fornitaci
dalla tradizione come origine della festività: probabilmente essa, come
solitamente avviene, fa riferimento alla data di celebrazione più antica che si
conosca attraverso qualche documento parrocchiale.
Già il nome del
borgo Torre, nella cui chiesetta va
in un certo senso a seppellirsi il
nostro Fortunato come un chicco di grano sotto le zolle, credo fosse vocabolo
per ‘terra’ in qualche idioma antico del luogo di cui si parla: basta tener
presente il lat. ex-torre(m) ‘esule, profugo’, lett. ‘fuori della terra’ e il lat. terri-toriu(m), composto a mio avviso tautologico il
cui secondo membro –toriu(m) ripete il
significato del primo, e si allinea formalmente con i termini come dormitoriu(m)’dormitorio’, praetoriu(m) ‘pretorio’, portatoriu(m) ’che serve a portare’,
ecc. La cosa curiosa, poi, è
rappresentata dal fatto che questo borgo si trova alle falde del Monte Cerr-ano la cui radice è la stessa della
divinità agreste Cer-ere (da cui il
nome cereali[2]), nota nei
dialetti italici nella forma Cerria[3], tra le diverse
altre. Questi indizi a me sembrano rivelare
il luogo d’origine del culto della Madonna della Libera, sebbene la radice all’inizio
potesse indicare proprio l’altura che con quel nome era fatta apposta per
attrarvi il culto di Cerere. I toponimi,
resistenti e pazienti come querce, stanno lì a calamitare tutto quanto nel
territorio si succede attraverso i secoli e millenni, in fatto di lingua e di
religione. L’occhio che di tra il terriccio fissa Fortunato non è altro che la gemma della piantina del grano che
spunta tra le zolle del seminato. Non mi
pare ci possa essere interpretazione più accettabile, corroborata anche dal
significato di lat. oculu(m) ‘occhio,
gemma’ e di it. occhio che in
botanica, ma pure nel linguaggio comune oltre che in buona parte delle lingue
europee, vale appunto anche ‘gemma, germoglio’. Naturalmente ad essere coperto
dalla terra non era il quadro della Madonna della Libera ma Libera stessa, cioè
la ‘gemma’, il ‘germoglio, rampollo’ che essa non solo rappresentava, ma
indicava direttamente con alcuni dei significati antichi del suo nome, come ho
mostrato nell’articolo citato nella nota 1.
Il nome aveva in effetti anche il valore di ‘figlio’, il che spiega
perché le nuove coppie si rivolgono ancora oggi alla Madonna della Libera per
chiederle una prole che assicuri la
continuità della stirpe.
E siamo giunti,
così, al nostro Fortunato. Questo
nome in nessun modo deve essere inteso come parto della fantasia di qualcuno ma
nemmeno può esso essere un prodotto del caso, un nome gettato lì senza una
qualche motivazione. Ho più volte
sottolineato che questi tipi di termini sono reliquie venerande di antichissimi
parlari che arrivano a noi da epoche lontanissime, in questo caso anche dal
Neolitico o addirittura dal Paleolitico attraverso il culto della Gran Madre
Terra. Si potrebbe sostenere, piuttosto banalmente, che il nome dell’uomo alluda
alla fortuna di aver ritrovato sotto
uno strato di terra l’immagine della Madonna, ma si cozzerebbe contro
l’osservazione che comunque Fortunato un nome doveva pur averlo, prima che si
verificasse il miracolo. Allora, siccome
non possiamo credere in nessun modo alla sua gratuità, dobbiamo aguzzare
l’ingegno per tentare di scovarne l’origine.
Non sempre in questi casi si è arrisi dalla fortuna ma questa volta
credo di averla avuta piena, con un margine piuttosto ampio di credibilità.
Ho provato a dividere
Fortunato in Fortu-nato ottenendo un
secondo membro di un composto abbastanza accettabile nell’ambito di una Natura
che si risveglia e dà vita ai nati di
ogni regno vivente, dai vegetali agli animali e all’uomo: allora mi è stato
abbastanza facile scovare in Fortu- un’altra
radice tautologica rispetto a quella di –nato altrettanto credibile, pensando
a forme come ted. Ge-burt ‘nascita, stirpe’ o ingl. birth ’nascita, parto’
ma arcaicamente ‘feto, bambino, progenie’, forme che rispettano le regole stabilite
dai linguisti (legge di Grimm) in base alle quali alla labiale sonora germanica
deve rispondere in latino la fricativa
sorda –f- (ma vedremo anche in questo caso come esse
siano parziali e in fondo poco veritiere). L’equivalenza ted. –burt = latino-italico *fortu- ‘nato, bimbo, rampollo’ è allora
fuori discussione in base a queste regole. In altri termini il nome personale Fortunato, derivante da lat. fortuna(m) ‘fortuna, sfortuna, caso’,
qui coprirebbe un composto tautologico italico o protolatino col valore di
‘nascita’ in ambo i membri e quasi sicuramente di ‘erba, pianta, rampollo,
pollone, feto, bimbo, cucciolo, ecc.’ con ampio spettro di significati
interconnessi. Del resto anche il lat. fors fort-is ‘caso, sorte, fortuna’, e
il lat. fort-una(m) ‘fortuna
buona o cattiva, caso’ condividono la radice con la parola in questione che è poi
anche quella del verbo anomalo lat. ferre
‘portare’, ingl. bear ‘portare,
sopportare, produrre, partorire’: la fortuna
si configura dunque come ‘quello che essa porta’ agli uomini allo stesso modo
in cui un rampollo o feto o cucciolo o bimbo è ciò
che la Natura
o la Vita portano in termini di prodotti vegetali,
animali o umani. Questo ragionamento ha trovato
una bella conferma, diciamo così, a posteriori nella voce abruzzese FËRT-unë ‘ragazza’, scoperta successivamente
nel Vocabolario Abruzzese di D.Bielli
da me spesso citato. La voce ha anche il
significato di ‘dèmone’, che rimanda a quello primordiale di ‘spirito, anima,
essere vivente’, nonché l’altro di ‘malanno’ che è proprio del lat. fort-una(m) ‘buona o cattiva sorte, sventura’
più sopra analizzato. Per la verità si potrebbe intendere il personale Fortunato in questo contesto come part. passato di un verbo come lat. fortun-are 'rendere prospero' ma col significato leggermente diverso di 'far nascere, far crescere': le cose non ambierebbero.
Altra figura
caratteristica della festa di Pratola è quella della Mastra, la guida delle cercatrici
che durante tutto l’anno raccolgono, anche da paesi vicini o lontani, le
offerte della gente per la
Madonna della Libera.
La domenica mattina della festa il Presidente, accompagnato dai membri del
comitato e dalla banda, si reca alla casa della Mastra per prelevarla e
condurla al Santuario, cingendola con una fascia
azzurra, simbolo della sua ambitissima, anche se onerosa, carica. Ora, non può essere un caso se il nome di
questa figura coincide con il gr. mastér
o mastrós, nomi maschili col
significato di ‘ricercatore, indagatore’. Il femminile è másteira che corrisponde alla nostra Mastra, incrociatasi a sua volta con it. mastro, il quale deriva però dal lat. magistru(m) ‘capo, guida, maestro’. La funzione essenziale della Mastra[4], che
è quella di cercatrice sia pure
coadiuvata da collaboratrici, impedisce di ascrivere al latino l’origine del
suo nome, il quale a mio avviso vola dritto verso la protostoria o preistoria (come
l’altro nome di Fortunato), quando
le comunità dovevano essere molto piccole e le cercatrici, nell’ambito dello stesso nucleo abitato, potevano ridursi
anche ad una sola, la Mastra appunto. La fascia azzurra che essa indossa deve
essere simbolo di un fiore come quello dello zafferano, noto nell’antichità col
nome generico di lat. crocu(m), dal
gr. krókos, ancora oggi coltivato
nella non lontana Piana di Navelli, fiore che quando è ancora in boccia è
composto da cinque lunghe e sottili foglie (circa 30/35 cm.) di colore verde-azzurro, che quando si
aprono pienamente assumono un colore turchino
o violetto. Questa mia considerazione la desumo da quanto
ho scritto alla nota 17 dell’articolo Cerere,
Libero, Libera… che richiama il gr. króke
‘filo, trama’ con riferimento al crescere del grano ancora in erba o anche, in
questo caso, ai filamenti sottilli
degli stami del fiore. Non è di poco
peso, per avvalorare questa tesi, il fatto che la Parrocchia della
Madonna della Libera, con attigua chiesa, diversa da quella del Santuario poco
lontano, si trova in Vico Santa Croce, nome che deve essere un
antico epiteto, forse più antico del titolo Libera, di questa divinità della
fertilità della terra e della natura, piuttosto che richiamare la croce cristiana. La Madonna stessa della
Libera è spessissimo rappresentata, in altre zone d’Italia, con questo segno
sul palmo della mano e sul collo. Kóre, l’altro nome greco di
Proserpina/Libera, raccoglieva anche crochi,
oltre a viole, gigli, giacinti e narcisi, presso il lago di Pergusa: ora che ci
penso, il termine gr. krókos ‘croco,
zafferano’ potrebbe essere variante metatetica di un ampliamento in –k di gr. kór-os ‘fanciullo, figlio, gambo, stelo’, cioè di *kór-kos, se si pensa all’ebr. karkom ‘zafferano’ a cui il greco krókos ‘zafferano’ rimanda.
Abbiamo
trascurato Fortu-nato che ha altre
cose interessantissime da dirci. Intanto ci fornisce un etimo sostenibile per i
dialettali abruz. bard-àscë, bird-èulë ‘bambino, ragazzo’ (cfr.
ingl. birth ‘nascita, obs. bimbo ’), romagnolo burd-èl ‘bambino, ragazzo, figlio’, emiliano
bord-lèin ‘piccolo fanciullo grassoccio’[5],
senese bord-ello ‘giovanetto’[6], it. bord-one 'bastone, penne appena spuntate', it. bard-otto che significa anche 'garzone' in Toscana, lat. burdon-e(m) 'mulo'. Ma tutte queste parole presentano la labiale
sonora iniziale che, secondo la linguistica ufficiale, dovrebbe essere un
tratto esclusivo delle lingue germaniche in opposizione a corrispondenti parole
latine con la fricativa –f- iniziale. Allora due sono le possibilità: o queste
regole non ce la raccontano giusta o queste mie constatazioni sono
fasulle. Qualcuno abbia la cortesia di
dimostrarmi, con argomenti più convincenti dei miei, che sono vittima di un
madornale abbaglio. La radice assume il
valore di ‘barba, fili, ecc.’, affine a quello di ‘stelo, pollone, rampollo’,
nel trasaccano bard-èlla [7]‘ciuffo
di lana’ lasciato talora sul dorso della pecora giovane dal tosatore per
proteggerne le reni dal freddo. Ma…
perdinci!, questo termine è pari pari il ted. Bart ‘barba’, ingl. beard
‘barba’ (cfr. la variante lat. barba)
e non possiamo pensare che esso ci venga dal medioevo delle invasioni
barbariche dato anche lo scarto di significato tra ‘ciuffo di lana’ e ‘barba’!
anch’esso punta dritto alla preistoria! Altre forme dialettali collegabili con le
precedenti, per via della frequente oscillazione tra -b- e -v- (betacismo), sono
gli abruz. varz-ìttë, vard-arèllë, vard-arìllë, varz-ìjjë ‘bambino, ragazzo’[8]. Anche
il ted. wurz-el ‘radice’ si
allinea con esse, essendo imparentato con ingl. arcaico wort ‘pianta, erba’, ingl. wart
‘verruca, escrescenza’, a. ingl. wyrt
‘erba, pianta, radice’, ecc. Il pl. obs. worts
significa ‘cavoli’: ecco perché si sente talora scherzosamente dire dai
genitori ai figli piccoli che i bambini nascono sotto i cavoli: uno stesso
termine in verità nel lontano passato poteva
indicarli entrambi, i cavoli e i bambini e, quindi, non si tratta effettivamente
di una scherzosa e fantasiosa invenzione, come si crede! Noi, avendo una mente
analiticamente orientata, abbiamo perso la capacità estremamente sintetica
degli antichissimi nostri antenati, e per questo troviamo strane e scherzose certe
parole ed espressioni che scaturirono dalle loro menti primordiali
sinteticamente orientate. Abbiamo potuto
constatare in altre occasioni come le presunte scherzosità, onomatopeicità e
cose del genere siano spessissimo in realtà il refugium peccatorum degli studiosi a corto di metodo adeguato e di radici
normali per la definizione di un etimo. Il cavolo
verza
o semplicemente la verza conferma il binomio cavolo/bimbo, allineandosi il nome
con la serie sopraelencata di abr. varz-ìttë ‘bambino, ragazzo’, a mio parere.
Ritornando al
nostro Fortu-nato dobbiamo ancora notare
che il primo membro del composto richiama anche il lat. arc. forde-u(m), variante di lat. horde-u(m) ‘orzo’, nel suo valore originario
di ‘stelo, erba, pianta, germe, nato, feto, bimbo,ecc.’ secondo i principi consolidati
della mia linguistica. Ma la cosa più
interessante è il fatto che esso rimanda anche alle Fordi-cidia, feste romane in onore della dea Tellus ‘Terra’, che ci riconduce quindi alla preistorica Gran Madre
della fecondità[9]. A lei si sacrificava il 15 aprile una vacca
pregna (lat. forda ‘-vacca- pregna’)
dinanzi ad ognuna delle trenta curie
in cui era divisa la città di Roma. Le
sacerdotesse Vestali ne estraevano dal grembo il feto e lo sacrificavano alla dea. Così, stante quello che ho detto
precedentemente su Kóre, kóros (con le varianti Kúre, kûros), termini legati alla radice
di Cer-ere (cereali) e di lat. cre-scere ‘crescere, svilupparsi’, a me
sembra che l’etimo del lat. curia(m),
considerato ancora molto incerto, debba appartenere a questa famiglia il cui
significato di fondo è quello di ‘nascita, crescita, generazione’ e quindi di ‘stirpe,
popolo, nazione’, significato che coincide con uno di quelli sottesi a Fortu-. Le curie erano appunto suddivisioni delle antiche tre tribù fatte
risalire a Romolo. Ora, per la legge
tautologica da me stabilita, mi pare che originariamente il secondo membro del
composto non appartenesse alla famiglia di lat. caed-ere ‘tagliare, uccidere’ ma dovesse essere apparentato con il
tosc. citto ‘bambino, ragazzino’ e le
numerose varianti diffuse in Abruzzo e Molise come cit-ëlë, cit-ëre riportate
solitamente dai linguisti ad un’origine fonosimbolica e al linguaggio
infantile, ma così non è. A me pare anche che la voce sia da confrontare con
ingl. kid ‘figlio, bambino, ragazzo,
capretto, cerbiatto’, ingl. be-get ‘generare’, ingl. arc. get
‘stirpe, generazione, bambino’ e in zoologia ‘piccolo, nato (di animale)’,
serbo-croato čedo ‘bambino, bambina’,
dial. obs. zito ‘fanciullo, ragazzo,
uomo non sposato’[10]. Del resto anche in sardo si incontra il log. chiu ‘germe, germoglio’ che molto
probabilmente deriva da una forma *chidu,
con lenizione totale della dentale –d-. Infatti si ha il sass. chedda ‘germe, semente’ ma anche ‘settimana’: esso deve essersi
quindi incrociato con log. e nuor. chita
‘settimana’ e deve essere apparentato con log. chitta ‘razza’.
Il rito dello Strascìnë compiuto a Pratola dalla
compagnia proveniente da Gioia dei Marsi e che consiste nel procedere
inginocchioni o strisciando con mani e piedi fino all’altare maggiore, se non
facendo anche strisciare sul pavimento la lingua come avveniva in passato,
ricorre stranamente anche nella cosiddetta Festa
dello Strascino relativa ad un’altra Madonna della Libera, quella di Moiano-Bn
in Campania. Il fatto che il nome della
festa sembra derivare addirittura da questa usanza secondaria dell’evento, per
quanto caratteristica, è dovuto a mio parere ad un errore causato da normale sovrapposizione di termini
che ha distorto il significato originario dell’espressione. L’it. s-trascinare,
infatti, (con s- intensivo-durativa) pare
derivare da un lat. volg. *trag-in-are incrociatosi col prefisso tras- (lat. trans
‘attraverso, oltre’), che ha dato origine alla forma trascinare. L’elemento trag-
corrisponde alla radice del lat. trah-ere ‘trarre, trascinare, ecc.’.
Ma anche qui, con un po’ di riflessione,
ci si ritrova con stupore dinanzi ad un’altra radice col valore di
‘grano’ coperta dalla precedente.
Infatti trág-os in greco
significa, oltre che ‘capro’, anche ‘grano simile alla spelta; pubertà ―età
caratterizzata dallo spuntare dei peli
del pube―; piccola sporgenza rettangolare dell’orecchio proprio allo sbocco del
condotto unditivo esterno; peli che fuoriescono dalla parte interna del
trago’[11]. I
concetti di “protuberanza” e di “pelo” sono
interdipendenti. Il verbo gr. trag-ãn significa ‘ricoprirsi di foglie lussureggianti (detto della
vite)’. In logudorese tragh-ittu significa ‘grano tenero’. Probabilmente anche il sardo tricu, trigu ‘grano’ non è forma
sincopata del sardo tridicu, tridigu
‘grano’ < lat. triticu(m) ’grano’
ma variante del precedente tragh-ittu, e imparentata
piuttosto col gr. thríks, gen. trikh-ós
‘capello, pelo’. L’aggettivo logud. trigu-linu ‘dal pelame a strisce’ mi pare
derivare da un sostantivo *trigu o *trigulu o anche *trigu-linu ‘pelame, peluria’ incrociatosi con la radice del termine
linea. Consistente pertanto mi sembra, per questo
culto della Madonna della Libera di Pratola, una base greca come mostrano appunto
alcune parole ad esso relative.
Tirando le
somme si può ben dire che Fortunato
è un termine antichissimo che aveva varie valenze: germe, germoglio, figlio,
bambino, natura, essere vivente. Il personale lat. Fortunatu(m) 'Fortunato' poteva essere legato, all’origine, non alla voce Fortuna(m) come nome augurale o anche gratulatorio se
inteso come ‘nato (-natum) per nostra
fortuna (fortu-)’ ma al significato
di ‘essere vivente, bambino, uomo’, e poteva costituire inoltre uno dei vari
nomi della divinità della Natura feconda corrispondente alla Gran Madre
Terra. Si riconferma anche in questo
caso il principio che le usanze, le feste, i costumi, i riti, sono spessissimo
dettati all’uomo primitivo dai vari significati che le parole stesse assumevano
di epoca in epoca e di regione in regione, parole che allora avevano certamente
un peso religioso e divino che oggi più non hanno. Ancora in Omero le “parole” (gr. épea) sono accompagnate solitamente dal
part. pres. pteróenta ‘volanti’, più
precisamente ‘dotate di ali’, come fossero creature viventi che attraversano
volando l’aria.
Evviva la Madonna della Libera di Pratola Peligna!
Possa col suo favore una nuova
epoca di fecondità nascere per la linguistica in tutto il mondo, liberatasi
finalmente dalle pastoie che ne impediscono i movimenti e dalle angustie che la
soffocano!
[2] Sarebbe più corretto dire, a mio avviso, che
i due termini derivano da una stessa radice per ‘grano, frumento’. Perché la cosa certa è che il nome della
divinità è composto da un termine che all’origine indicava il ‘grano’ e il lat.
cerealia ‘cereali’ poteva essere aggettivo
derivato da quel sostantivo, prima che esso assumesse le vesti di una
divinità con determinate caratteristiche, giacchè nella fase animistica
dell’umanità tutto era considerato espressione di una forza divina. La radice simile carus- presente nella voce dialettale
centromeridionale carus-ella ‘grano con
poche ariste’, che non ha mantenuto l’aura divina perché non ha avuto la ventura
di incrociarsi col nome di Cerere, conferma quanto ho detto sul termine cereali. Per maggiore chiarezza rimando al post
precedente Cerere, Libero, Libera […] del
novembre 2012.
[3] Cfr.
Iscrizione di San Clemente a Casauria in Aa.Vv., Popoli e Civiltà dell’Italia Antica, Biblioteca di Storia Patria,
Roma 1978, vol. VI, p.806.
Interessante l’identità della radice del nome del Monte Cerr-ano di Pratola e quella del Monte Cerro nelle vicinanze di Agnone-Is dove venne
trovata la famosa tavola osca (del III-II sec. a. C.) in bronzo in cui sono
elencate diverse divinità legate alla produzione agricola, tutte sottoposte in
qualche modo a Cerere, la maggiore di esse, che ha ivi un santuario.
[4] In un
mito greco collegato a Demetra (la Cerere dei greci) si incontra
la figura di Mestra (che può essere variante di Mastra) o Mnestra, la quale viene venduta come
schiava dal padre Erisittone che, colpito da una fame insaziabile da parte
della dea Demetra per aver distrutto un
bosco sacro a lei dedicato, ha bisogno di soldi per procurarsi il cibo. Secondo
altra versione la fanciulla si vendeva a chiunque per procurare il necessario
al padre (un riflesso, mi pare, della prostituzione sacra praticata in antico
in diversi templi in genere dedicati a divinità della fertilità). Comunque stiano le cose Mestra svolge nel mito la
funzione di caterer ‘fornitore di
cibo, organizzatore di pranzi, feste, ecc.’ in qualche modo corrispondente a
quella che svolge la Mastra
come ricercatrice di fondi per la
festa a Pratola. La quale, inoltre, offre anche un rinfresco, imbandito su una tavola dinanzi casa sua, al comitato e
ai vicini quando, la mattina della festa, il Presidente vi si reca accompagnato
dalla banda e dal comitato stesso. Secondo me questa è una bella tradizione
incredibilmente antica.
[5] Cfr. M.
Cortelazzo-C. Marcato, I Dialetti Italiani,
UTET ,Torino 1998, s. v. burdèl. L’etimo è lì ricondotto al lat. burdu(m) ‘mulo’, ma il problema
fondamentale è di individuare anche l’etimo della parola latina che, a mio
parere, trae linfa dal concetto generico di ‘pollone, puledro’ abbracciante
qualsiasi entità vivente della natura.
Per maggiori lumi rimando al caso di caruso
‘puledro’ dell’articolo Cerere, Libero,
Libera[…] citato alla nota 1. A questa categoria bisogna
ascrivere lo scozz. burd ‘ragazza,
uccello’ (cfr. l’abr. fërt-unë ‘ragazza’ più sopra citato) come l’ingl. bird ‘uccello, obs. ‘bambino,
giovanotto, ragazza’, ingl. bride
‘sposa novella’. L’it. verz-ellino, nome volgare di un uccello dei Fringillidi, reclama a gran
voce l’appartenenza a questa matrice lontana ornitologica prima che avvenisse
l’incrocio con l’aggettivo latino viride(m)
‘verde’, a causa del colore verde-grigio dell’uccello, che determinò così la
specializzazione del suo significato generico precedente di ‘uccello’.
[6] Cfr.
O. Pianigiani, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana versione web, s. v. bordello. In sardo campidanese si incontra la voce brota ‘germoglio, boccio, getto,
pollone, virgulto’ che deve intendersi come variante metatetica, così frequenti
nel sardo, di una forma *borta. In logudorese si ha il maschile brotu ‘germoglio’. Sono probabilmente prestiti dallo spagnolo brotar ‘germogliare, spuntare, sgorgare’.
Si noti la somiglianza, di forma e di sostanza, con ingl. brood ‘nidiata, marmocchi, brulichio, ecc.’. Il gr. brotós
‘mortale, uomo’ doveva avere, all’inizio, il sign. di ‘rampollo, essere
vivente, uomo’ ma poi si è incrociato con l’agg. gr. mortós ‘mortale’ attraverso una variante metatetica *mrotós.
Lo attesta in qualche modo l’altro termine gr. brótos ‘ sangue, sgorgo di sangue dalla ferita’, da
avvicinare al precedente sp. brotar
‘germogliare, sgorgare’, che mantiene i due significati legati ad un’unica
matrice. Non è un caso, a mio parere,
che questa radice combaci con quella di ingl. brother ‘fratello’, lat. fratre(m)’fratello’,
serbo-croato brat ‘fratello’, gr. phráter ‘membro di uno stesso clan’: le
unisce l’idea di generazione, stirpe, schiatta, famiglia.
[7] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo,
Avezzano-Aq 2003, sub voce. La stessa voce bardella con lo stesso
significato ricorreva anche ad Aielli, il mio paese, e probabilmente anche
altrove.
[8] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla
Editore, Cerchio-Aq 2004.
[9] A Cerr-eto Sannita-Bn (anche qui ritorna la radice di Cer-ere, la stessa del Monte Cerro dove fu trovata la Tavola di Agnone della nota
3) la chiesa della Madonna della Libera sorge sul basamento di un tempio sannito-romano
dedicato a Flora, dea della
fioritura delle messi, della primavera e protettrice delle partorienti, che
probabilmente qui aveva anche il titolo di Libera. Stranamente i siti web da me consultati non
accennano all’evidente rapporto tra questa Madonna della Libera e la precedente
occupatrice del luogo sacro. Gli studiosi,
in effetti, mi sembra che non abbiano ancora scoperto l’origine vera, a mio
parere, del culto delle Madonne della Libera perché probabilmente fuorviati
dalle motivazioni che tradizionalmente e presuntivamente giustificano il titolo
di Libera: l’azione liberatrice da qualche pestilenza o assedio compiuta nel
passato dalla Madonna cristiana a favore della comunità. Nella Tavola bronzea di Agnone-Is compare la dea col nome italico locale di Fluusai Kerriiai ‘Flora di Cerere’ che
riconferma la sua stretta connessione con i cereali.
La tavola presenta un testo con un numero discreto di grecismi: il che potrebbe
aiutare a capire anche la ragione del sicuro grecismo della Mastra di Pratola. Io credo che questo fatto dimostra che
popolazioni greche hanno calcato il suolo italico e vi si siano stabilmente
insediate già molto tempo prima degli influssi successivi diramatisi dalla
Magna Grecia (dall’ VIII sec. a.C. in poi).
Alcune parole del dialetto di Scanno non si spiegano, secondo me, pensando ad influssi indiretti. Cfr. il mio post del marzo 2011 Parole del dialetto di Scanno. E’ bene
ricordare che il lat. fordu(m)’pregno’ è accostato al gr. phorás,ádos ‘fecondo’, con la stessa radice di gr. phér-ein ‘portare’, lat. ferre ‘portare’. Faccio notare che anche Franco Zazzara di
Pescina-Aq è convinto, in base all’analisi di alcune parole, della presenza ab
antiquo dei Greci nella Marsica: cfr. F. Zazzara- E. Cerasani, Marsi, Tipografica Renzo Palozzi,
Marino-RM 2012, pp. 18-20.
[10] Si
incontrava ad Aielli anche la voce caca-zzìttë ‘ bambino, ragazzino’ detto
in senso alquanto spregiativo che ne sottolineava la ‘piccolezza o sparutezza’.
Il primo membro dovrebbe corrispondere alla radice di nuor. càcch-ile ‘pollone’ da distiguere da quella di it. cacchio
‘getto, germoglio non fruttuoso’ che è
da lat. catulu(m) ‘cagnolino’, tardo
latino ‘tralcio’. Si incontrano anche forme intensive come l’agg. scaca-zzìttë detto di persona ‘piccola e sparuta’ (nel
Bielli), di persona ‘piccola e minuta, ma molto attiva, reattiva e scattante’ a
Trasacco. A caca-zzìttë si affiancano altre
forme, riportate dal Bielli, come caca-nùde ‘bambino nudo’, caca-nnìtë ‘l’ultimo nato’, caca-nìzzë ‘l’ultimo nato’ con i secondi membri tutti da chiarire ma
che debbono avere il significato tautologico di ‘bambino, figlio’.
[11] In Grecia il thárg-elos ártos era un ‘pane (artos)
fatto con le primizie di frumento’ che si offriva a Demetra e
Dioniso nelle Talisie, feste del raccolto.
A me sembra che thárg- o tárg- sia, in questo
caso, variante metatetica di trág-os ‘sorta di spelta’.
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