lunedì 3 dicembre 2012

. La Madonna della Libera di Pratola Peligna. Un esempio da manuale per il passaggio dal paganesimo al cristianesimo


   

La festa ricorre la prima domenica di maggio, quando le giornate cominciano ad essere più confortevoli e dolci in Abruzzo, e i vari paesi aggrappati ai colli e ai monti o adagiati ai bordi delle pianure o delle valli intermedie iniziano a celebrare con rinnovato fervore le feste dedicate a questo o quel Santo, a questa o quella Madonna, le quali spessissimo arrivano, cariche di tradizione, dalla lontana preistoria, come vedremo, perpetuando riti, nomi, divinità attraverso una lunga teoria di millenni.  Grande era in passato, e dura tuttora, l’afflusso dei pellegrini a Pratola da varie parti della regione, compresa la Marsica, per onorare, nel giorno della sua festa grande, questa bella Madonna cui le nuove coppie si rivolgevano devotamente per assicurarsi una sana e felice prole.

Narra la tradizione che agli inizi del 1500 un tal Fortunato, malato di peste, aveva lasciato Pratola in preda al morbo e si era rifugiato in una chiesetta diroccata del borgo Torre dipendente da Pratola, ai piedi del monte Cerrano.  Il poveruomo si era lì addormentato col pensiero che, se doveva morire, sarebbe stato in qualche modo confortante che ciò avvenisse in un luogo sacro.  Ma durante la notte fece un sogno risolutore: gli apparve una donna bellissima che gli diceva di svegliarsi perché la pestilenza era finita e la salvezza era così assicurata a lui e alla popolazione tutta.  Appena si svegliò notò tra le pietre e il terriccio un occhio che lo fissava, allora si avvicinò, smosse il terriccio e si accorse che vi era sepolto un quadro che raffigurava la bellissima donna che gli aveva parlato nel sogno.  Gridò al miracolo, accorsero i suoi compaesani e il quadro venne portato in paese.  Tralascio altri particolari del racconto che non mi sembrano essenziali per il ragionamento che voglio desumerne.  Lasciandomi guidare dall’idea che, secondo me, questa Madonna della Libera, e molto probabilmente anche le altre diffuse nel centromeridione d’Italia, debbano continuare il culto pagano di Libera[1], dea agreste della fecondità, cerco di estrarre dal testo del racconto elementi che confermino tale supposizione.  Ed effettivamente, a pensarci bene, il nucleo di questa narrazione appare come una bella metafora del ciclo di morte e rinascita (o risveglio) del chicco di grano che viene interrato in autunno, attraversa l’inverno, e si consuma e distrugge per sostenere in vita il piccolo germoglio che da esso si sviluppa con i primi tepori primaverili.  Semanticamente peste(m) in latino vale anche ‘morte’, la morte che minacciava Pratola e il nostro Fortunato, la morte della Natura tutta, nel lungo periodo invernale, pronta però a risorgere con rinnovato slancio a primavera.  Si badi bene che la metafora cui ho accennato non è il prodotto volontario di una mente che a tavolino voglia descrivere, con immagini e nomi di fantasia, il ciclo del grano suddetto, ma in gran parte la conseguenza involontaria del sovrapporsi di strati linguistici successivi nel corso dei millenni.  Non ha nessun valore, in questo quadro che si va delineando, la data degli inizi del 1500 fornitaci dalla tradizione come origine della festività: probabilmente essa, come solitamente avviene, fa riferimento alla data di celebrazione più antica che si conosca attraverso qualche documento parrocchiale.
   
Già il nome del borgo Torre, nella cui chiesetta va in un certo senso a seppellirsi il nostro Fortunato come un chicco di grano sotto le zolle, credo fosse vocabolo per ‘terra’ in qualche idioma antico del luogo di cui si parla: basta tener presente il lat. ex-torre(m) ‘esule, profugo’, lett. ‘fuori della terra’ e il lat. terri-toriu(m), composto a mio avviso tautologico il cui secondo membro –toriu(m) ripete il significato del primo, e si allinea formalmente con i termini come dormitoriu(m)’dormitorio’, praetoriu(m) ‘pretorio’, portatoriu(m) ’che serve a portare’, ecc.  La cosa curiosa, poi, è rappresentata dal fatto che questo borgo si trova alle falde del Monte Cerr-ano la cui radice è la stessa della divinità agreste Cer-ere (da cui il nome cereali[2]), nota nei dialetti italici  nella forma Cerria[3], tra le diverse altre.   Questi indizi a me sembrano rivelare il luogo d’origine del culto della Madonna della Libera, sebbene la radice all’inizio potesse indicare proprio l’altura che con quel nome era fatta apposta per attrarvi il culto di Cerere.  I toponimi, resistenti e pazienti come querce, stanno lì a calamitare tutto quanto nel territorio si succede attraverso i secoli e millenni, in fatto di lingua e di religione.  L’occhio che di tra il terriccio fissa Fortunato non è altro che la gemma della piantina del grano che spunta tra le zolle del seminato.  Non mi pare ci possa essere interpretazione più accettabile, corroborata anche dal significato di lat. oculu(m) ‘occhio, gemma’ e di it. occhio che in botanica, ma pure nel linguaggio comune oltre che in buona parte delle lingue europee, vale appunto anche ‘gemma, germoglio’. Naturalmente ad essere coperto dalla terra non era il quadro della Madonna della Libera ma Libera stessa, cioè la ‘gemma’, il ‘germoglio, rampollo’ che essa non solo rappresentava, ma indicava direttamente con alcuni dei significati antichi del suo nome, come ho mostrato nell’articolo citato nella nota 1.  Il nome aveva in effetti anche il valore di ‘figlio’, il che spiega perché le nuove coppie si rivolgono ancora oggi alla Madonna della Libera per chiederle una prole che assicuri la continuità della stirpe.

E siamo giunti, così, al nostro Fortunato. Questo nome in nessun modo deve essere inteso come parto della fantasia di qualcuno ma nemmeno può esso essere un prodotto del caso, un nome gettato lì senza una qualche motivazione.  Ho più volte sottolineato che questi tipi di termini sono reliquie venerande di antichissimi parlari che arrivano a noi da epoche lontanissime, in questo caso anche dal Neolitico o addirittura dal Paleolitico attraverso il culto della Gran Madre Terra. Si potrebbe sostenere, piuttosto banalmente, che il nome dell’uomo alluda alla fortuna di aver ritrovato sotto uno strato di terra l’immagine della Madonna, ma si cozzerebbe contro l’osservazione che comunque Fortunato un nome doveva pur averlo, prima che si verificasse il miracolo.  Allora, siccome non possiamo credere in nessun modo alla sua gratuità, dobbiamo aguzzare l’ingegno per tentare di scovarne l’origine.  Non sempre in questi casi si è arrisi dalla fortuna ma questa volta credo di averla avuta piena, con un margine piuttosto ampio di credibilità.

Ho provato a dividere Fortunato in Fortu-nato  ottenendo un secondo membro di un composto abbastanza accettabile nell’ambito di una Natura che si risveglia e dà vita ai nati di ogni regno vivente, dai vegetali agli animali e all’uomo: allora mi è stato abbastanza facile scovare in Fortu- un’altra radice tautologica rispetto a quella di –nato altrettanto credibile, pensando a forme come ted. Ge-burt ‘nascita, stirpe’ o ingl. birth ’nascita, parto’ ma arcaicamente ‘feto, bambino, progenie’, forme che rispettano le regole stabilite dai linguisti (legge di Grimm) in base alle quali alla labiale sonora germanica deve rispondere in latino  la fricativa sorda –f-  (ma vedremo anche in questo caso come esse siano parziali e in fondo poco veritiere). L’equivalenza ted. –burt = latino-italico *fortu- ‘nato, bimbo, rampollo’ è allora fuori discussione in base a queste regole. In altri termini il nome personale Fortunato, derivante da lat. fortuna(m) ‘fortuna, sfortuna, caso’, qui coprirebbe un composto tautologico italico o protolatino col valore di ‘nascita’ in ambo i membri e quasi sicuramente di ‘erba, pianta, rampollo, pollone, feto, bimbo, cucciolo, ecc.’ con ampio spettro di significati interconnessi.  Del resto anche il lat.  fors fort-is ‘caso, sorte, fortuna’, e il lat. fort-una(m) ‘fortuna buona o cattiva, caso’ condividono la radice con la parola in questione che è poi anche quella del verbo anomalo lat. ferre ‘portare’, ingl. bear ‘portare, sopportare, produrre, partorire’: la fortuna si configura dunque come ‘quello che essa porta’ agli uomini allo stesso modo in cui un rampollo o feto o cucciolo o bimbo è ciò che la Natura o la Vita portano in termini di prodotti vegetali, animali o umani.  Questo ragionamento ha trovato una bella conferma, diciamo così, a posteriori nella voce abruzzese FËRT-unë ‘ragazza’, scoperta successivamente nel Vocabolario Abruzzese di D.Bielli da me spesso citato.  La voce ha anche il significato di ‘dèmone’, che rimanda a quello primordiale di ‘spirito, anima, essere vivente’, nonché l’altro di ‘malanno’ che è proprio del lat. fort-una(m) ‘buona o cattiva sorte, sventura’ più sopra analizzato.  Per la verità si potrebbe intendere il personale Fortunato in questo contesto come part. passato di un verbo come lat. fortun-are 'rendere prospero' ma col significato leggermente diverso di 'far nascere, far crescere': le cose non ambierebbero. 

Altra figura caratteristica della festa di Pratola è quella della Mastra, la guida delle cercatrici che durante tutto l’anno raccolgono, anche da paesi vicini o lontani, le offerte della gente per la Madonna della Libera.  La domenica mattina della festa il Presidente, accompagnato dai membri del comitato e dalla banda, si reca alla casa della Mastra per prelevarla e condurla al Santuario, cingendola con una fascia azzurra, simbolo della sua ambitissima, anche se onerosa, carica.  Ora, non può essere un caso se il nome di questa figura coincide con il gr. mastér o mastrós, nomi maschili col significato di ‘ricercatore, indagatore’. Il femminile è másteira che corrisponde alla nostra Mastra, incrociatasi a sua volta con it. mastro, il quale deriva però dal lat. magistru(m) ‘capo, guida, maestro’. La funzione essenziale della Mastra[4], che è quella di cercatrice sia pure coadiuvata da collaboratrici, impedisce di ascrivere al latino l’origine del suo nome, il quale a mio avviso vola dritto  verso la protostoria o preistoria (come l’altro nome di Fortunato), quando le comunità dovevano essere molto piccole e le cercatrici, nell’ambito dello stesso nucleo abitato, potevano ridursi anche ad una sola, la Mastra appunto.  La fascia azzurra che essa indossa deve essere simbolo di un fiore come quello dello zafferano, noto nell’antichità col nome generico di lat. crocu(m), dal gr. krókos, ancora oggi coltivato nella non lontana Piana di Navelli, fiore che quando è ancora in boccia è composto da cinque lunghe e sottili foglie (circa 30/35 cm.) di colore verde-azzurro, che quando si aprono pienamente assumono un colore turchino o violetto.  Questa mia considerazione la desumo da quanto ho scritto alla nota 17 dell’articolo Cerere, Libero, Libera… che richiama il gr. króke ‘filo, trama’ con riferimento al crescere del grano ancora in erba o anche, in questo caso, ai filamenti sottilli degli stami del fiore.  Non è di poco peso, per avvalorare questa tesi, il fatto che la Parrocchia della Madonna della Libera, con attigua chiesa, diversa da quella del Santuario poco lontano, si trova in Vico Santa Croce, nome che deve essere un antico epiteto, forse più antico del titolo Libera, di questa divinità della fertilità della terra e della natura, piuttosto che richiamare la croce cristiana. La Madonna stessa della Libera è spessissimo rappresentata, in altre zone d’Italia, con questo segno sul palmo della mano e sul collo.  Kóre, l’altro nome greco di Proserpina/Libera, raccoglieva anche crochi, oltre a viole, gigli, giacinti e narcisi, presso il lago di Pergusa: ora che ci penso, il termine gr. krókos ‘croco, zafferano’ potrebbe essere variante metatetica di un ampliamento in –k di gr. kór-os ‘fanciullo, figlio, gambo, stelo’, cioè di *kór-kos, se si pensa all’ebr. karkom ‘zafferano’ a cui il greco krókos ‘zafferano’  rimanda.
Abbiamo trascurato Fortu-nato che ha altre cose interessantissime da dirci. Intanto ci fornisce un etimo sostenibile per i dialettali abruz. bard-àscë, bird-èulë ‘bambino, ragazzo’ (cfr. ingl. birth ‘nascita, obs. bimbo ’), romagnolo burd-èl ‘bambino, ragazzo, figlio’, emiliano bord-lèin ‘piccolo fanciullo grassoccio’[5], senese bord-ello ‘giovanetto’[6], it. bord-one 'bastone, penne appena spuntate', it. bard-otto che significa anche 'garzone' in Toscana, lat. burdon-e(m) 'mulo'.  Ma tutte queste parole presentano la labiale sonora iniziale che, secondo la linguistica ufficiale, dovrebbe essere un tratto esclusivo delle lingue germaniche in opposizione a corrispondenti parole latine con la fricativa –f- iniziale.  Allora due sono le possibilità: o queste regole non ce la raccontano giusta o queste mie constatazioni sono fasulle.  Qualcuno abbia la cortesia di dimostrarmi, con argomenti più convincenti dei miei, che sono vittima di un madornale abbaglio.  La radice assume il valore di ‘barba, fili, ecc.’, affine a quello di ‘stelo, pollone, rampollo’, nel trasaccano bard-èlla [7]‘ciuffo di lana’ lasciato talora sul dorso della pecora giovane dal tosatore per proteggerne le reni dal freddo.  Ma… perdinci!, questo termine è pari pari il ted. Bart ‘barba’, ingl. beard ‘barba’ (cfr. la variante lat. barba) e non possiamo pensare che esso ci venga dal medioevo delle invasioni barbariche dato anche lo scarto di significato tra ‘ciuffo di lana’ e ‘barba’! anch’esso punta dritto alla preistoria!  Altre forme dialettali collegabili con le precedenti, per via della frequente oscillazione tra -b- e -v- (betacismo), sono gli abruz. varz-ìttë, vard-arèllë, vard-arìllë, varz-ìjjë ‘bambino, ragazzo’[8]. Anche il ted. wurz-el ‘radice’ si allinea con esse, essendo imparentato con ingl. arcaico wort ‘pianta, erba’, ingl. wart ‘verruca, escrescenza’, a. ingl. wyrt ‘erba, pianta, radice’, ecc. Il pl. obs. worts significa ‘cavoli’: ecco perché si sente talora scherzosamente dire dai genitori ai figli piccoli che i bambini nascono sotto i cavoli: uno stesso termine  in verità nel lontano passato poteva indicarli entrambi, i cavoli e i bambini e, quindi, non si tratta effettivamente di una scherzosa e fantasiosa invenzione, come si crede! Noi, avendo una mente analiticamente orientata, abbiamo perso la capacità estremamente sintetica degli antichissimi nostri antenati, e per questo troviamo strane e scherzose certe parole ed espressioni che scaturirono dalle loro menti primordiali sinteticamente orientate.  Abbiamo potuto constatare in altre occasioni come le presunte scherzosità, onomatopeicità e cose del genere siano spessissimo in realtà il refugium peccatorum degli studiosi a corto di metodo adeguato e di radici normali per la definizione di un etimo. Il cavolo verza o semplicemente la verza conferma il binomio cavolo/bimbo, allineandosi il nome con la serie sopraelencata di abr. varz-ìttë ‘bambino, ragazzo’, a mio parere.

Ritornando al nostro Fortu-nato dobbiamo ancora notare che il primo membro del composto richiama anche il lat. arc. forde-u(m), variante di lat. horde-u(m) ‘orzo’, nel suo valore originario di ‘stelo, erba, pianta, germe, nato, feto, bimbo,ecc.’ secondo i principi consolidati della mia linguistica.  Ma la cosa più interessante è il fatto che esso rimanda anche alle Fordi-cidia, feste romane in onore della dea Tellus ‘Terra’, che ci riconduce quindi alla preistorica Gran Madre della fecondità[9].  A lei si sacrificava il 15 aprile una vacca pregna (lat. forda ‘-vacca- pregna’) dinanzi ad ognuna delle trenta curie in cui era divisa la città di Roma.  Le sacerdotesse Vestali ne estraevano dal grembo il feto e lo sacrificavano alla dea. Così, stante quello che ho detto precedentemente su Kóre, kóros (con le varianti Kúre, kûros), termini legati alla radice di Cer-ere (cereali) e di lat. cre-scere ‘crescere, svilupparsi’, a me sembra che l’etimo del lat. curia(m), considerato ancora molto incerto, debba appartenere a questa famiglia il cui significato di fondo è quello di ‘nascita, crescita, generazione’ e quindi di ‘stirpe, popolo, nazione’, significato che coincide con uno di quelli sottesi a Fortu-. Le curie erano appunto suddivisioni delle antiche tre tribù fatte risalire a Romolo.  Ora, per la legge tautologica da me stabilita, mi pare che originariamente il secondo membro del composto non appartenesse alla famiglia di lat. caed-ere ‘tagliare, uccidere’ ma dovesse essere apparentato con il tosc. citto ‘bambino, ragazzino’ e le numerose varianti diffuse in Abruzzo e Molise come cit-ëlë, cit-ëre riportate solitamente dai linguisti ad un’origine fonosimbolica e al linguaggio infantile, ma così non è. A me pare anche che la voce sia da confrontare con ingl. kid ‘figlio, bambino, ragazzo, capretto, cerbiatto’, ingl. be-get ‘generare’, ingl. arc. get ‘stirpe, generazione, bambino’ e in zoologia ‘piccolo, nato (di animale)’, serbo-croato čedo ‘bambino, bambina’, dial. obs. zito ‘fanciullo, ragazzo, uomo non sposato’[10].  Del resto anche in sardo si incontra il log. chiu ‘germe, germoglio’ che molto probabilmente deriva da una forma *chidu, con lenizione totale della dentale –d-.  Infatti si ha il sass. chedda ‘germe, semente’ ma anche ‘settimana’: esso deve essersi quindi incrociato con log. e nuor. chita ‘settimana’ e deve essere apparentato con log. chitta ‘razza’. 

Il rito dello Strascìnë compiuto a Pratola dalla compagnia proveniente da Gioia dei Marsi e che consiste nel procedere inginocchioni o strisciando con mani e piedi fino all’altare maggiore, se non facendo anche strisciare sul pavimento la lingua come avveniva in passato, ricorre stranamente anche nella cosiddetta Festa dello Strascino relativa ad un’altra Madonna della Libera, quella di Moiano-Bn  in Campania.   Il fatto che il nome della festa sembra derivare addirittura da questa usanza secondaria dell’evento, per quanto caratteristica, è dovuto a mio parere ad un errore  causato da normale sovrapposizione di termini che ha distorto il significato originario dell’espressione.  L’it. s-trascinare, infatti, (con s- intensivo-durativa)  pare derivare da un lat. volg. *trag-in-are incrociatosi col prefisso tras- (lat. trans ‘attraverso, oltre’), che ha dato origine alla forma trascinare. L’elemento trag- corrisponde alla radice del lat. trah-ere ‘trarre, trascinare, ecc.’.  Ma anche qui, con un po’ di riflessione,  ci si ritrova con stupore dinanzi ad un’altra radice col valore di ‘grano’ coperta dalla precedente.  Infatti trág-os in greco significa, oltre che ‘capro’, anche ‘grano simile alla spelta; pubertà ―età caratterizzata dallo spuntare dei peli del pube―; piccola sporgenza rettangolare dell’orecchio proprio allo sbocco del condotto unditivo esterno; peli che fuoriescono dalla parte interna del trago’[11]. I concetti di “protuberanza”  e di “pelo” sono interdipendenti. Il verbo gr. trag-ãn significa ‘ricoprirsi di foglie lussureggianti (detto della vite)’. In logudorese tragh-ittu significa ‘grano tenero’.  Probabilmente anche il sardo tricu, trigu ‘grano’ non è forma sincopata del sardo tridicu, tridigu ‘grano’ < lat. triticu(m) ’grano’ ma variante del precedente tragh-ittu, e imparentata piuttosto col gr. thríks, gen. trikh-ós ‘capello, pelo’.  L’aggettivo logud. trigu-linu ‘dal pelame a strisce’ mi pare derivare da un sostantivo *trigu o *trigulu o anche *trigu-linu ‘pelame, peluria’ incrociatosi con la radice del termine linea.  Consistente pertanto mi sembra, per questo culto della Madonna della Libera di Pratola, una base greca come mostrano appunto alcune parole ad esso relative.
Tirando le somme si può ben dire che Fortunato è un termine antichissimo che aveva varie valenze: germe, germoglio, figlio, bambino, natura, essere vivente. Il personale lat. Fortunatu(m) 'Fortunato' poteva essere legato, all’origine, non alla voce Fortuna(m)  come nome augurale o anche gratulatorio se inteso come ‘nato (-natum) per nostra fortuna (fortu-)’ ma al significato di ‘essere vivente, bambino, uomo’, e poteva costituire inoltre uno dei vari nomi della divinità della Natura feconda corrispondente alla Gran Madre Terra.  Si riconferma anche in questo caso il principio che le usanze, le feste, i costumi, i riti, sono spessissimo dettati all’uomo primitivo dai vari significati che le parole stesse assumevano di epoca in epoca e di regione in regione, parole che allora avevano certamente un peso religioso e divino che oggi più non hanno.  Ancora in Omero le “parole” (gr. épea) sono accompagnate solitamente dal part. pres. pteróenta ‘volanti’, più precisamente ‘dotate di ali’, come fossero creature viventi che attraversano volando l’aria.



               Evviva la Madonna della Libera di Pratola Peligna!

Possa col suo favore una nuova epoca di fecondità nascere per la linguistica in tutto il mondo, liberatasi finalmente dalle pastoie che ne impediscono i movimenti e dalle angustie che la soffocano!









Note:

[1] Cfr. mio post Cerere, Libero, Libera[]del novembre 2012.

[2]  Sarebbe più corretto dire, a mio avviso, che i due termini derivano da una stessa radice per ‘grano, frumento’.  Perché la cosa certa è che il nome della divinità è composto da un termine che all’origine indicava il ‘grano’ e il lat. cerealia ‘cereali’ poteva essere  aggettivo  derivato da quel sostantivo, prima che esso assumesse le vesti di una divinità con determinate caratteristiche, giacchè nella fase animistica dell’umanità tutto era considerato espressione di una forza divina.  La radice simile carus-  presente nella voce dialettale centromeridionale carus-ella ‘grano con poche ariste’, che non ha mantenuto l’aura divina perché non ha avuto la ventura di incrociarsi col nome di Cerere, conferma quanto ho detto sul termine  cereali.  Per maggiore chiarezza rimando al post precedente Cerere, Libero, Libera […] del novembre 2012.

[3] Cfr. Iscrizione di San Clemente a Casauria in Aa.Vv., Popoli e Civiltà dell’Italia Antica, Biblioteca di Storia Patria, Roma 1978,  vol. VI,   p.806.  Interessante l’identità della radice del nome del Monte Cerr-ano di Pratola e quella del Monte Cerro nelle vicinanze di Agnone-Is dove venne trovata la famosa tavola osca (del III-II sec. a. C.) in bronzo in cui sono elencate diverse divinità legate alla produzione agricola, tutte sottoposte in qualche modo a Cerere, la maggiore di esse, che ha ivi un santuario.

[4] In un mito greco collegato a Demetra (la Cerere dei greci) si incontra la figura di Mestra (che può essere variante di Mastra) o Mnestra, la quale viene venduta come schiava dal padre Erisittone che, colpito da una fame insaziabile da parte della dea  Demetra per aver distrutto un bosco sacro a lei dedicato, ha bisogno di soldi per procurarsi il cibo. Secondo altra versione la fanciulla si vendeva a chiunque per procurare il necessario al padre (un riflesso, mi pare, della prostituzione sacra praticata in antico in diversi templi in genere dedicati a divinità della fertilità).  Comunque stiano le cose Mestra svolge nel mito la funzione di caterer ‘fornitore di cibo, organizzatore di pranzi, feste, ecc.’ in qualche modo corrispondente a quella che svolge la Mastra come ricercatrice di fondi per la festa a Pratola. La quale, inoltre, offre anche un rinfresco, imbandito su una tavola dinanzi casa sua, al comitato e ai vicini quando, la mattina della festa, il Presidente vi si reca accompagnato dalla banda e dal comitato stesso. Secondo me questa è una bella tradizione incredibilmente antica.

[5] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I Dialetti Italiani, UTET ,Torino 1998, s. v. burdèl.  L’etimo è lì ricondotto al lat. burdu(m) ‘mulo’, ma il problema fondamentale è di individuare anche l’etimo della parola latina che, a mio parere, trae linfa dal concetto generico di ‘pollone, puledro’ abbracciante qualsiasi entità vivente della natura.  Per maggiori lumi rimando al caso di caruso ‘puledro’ dell’articolo Cerere, Libero, Libera[] citato alla nota 1. A questa categoria bisogna ascrivere lo scozz. burd ‘ragazza, uccello’ (cfr. l’abr. fërt-unë ‘ragazza’ più sopra citato) come l’ingl. bird ‘uccello, obs. ‘bambino, giovanotto, ragazza’, ingl. bride ‘sposa novella’. L’it. verz-ellino, nome volgare di un uccello dei Fringillidi, reclama a gran voce l’appartenenza a questa matrice lontana ornitologica prima che avvenisse l’incrocio con l’aggettivo latino viride(m) ‘verde’, a causa del colore verde-grigio dell’uccello, che determinò così la specializzazione del suo significato generico precedente di ‘uccello’.

[6] Cfr. O. Pianigiani,  Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana versione web, s. v. bordello.  In sardo campidanese si incontra la voce brota ‘germoglio, boccio, getto, pollone, virgulto’ che deve intendersi come variante metatetica, così frequenti nel sardo, di una forma *borta.  In logudorese si ha il maschile brotu ‘germoglio’.  Sono probabilmente prestiti dallo spagnolo brotar ‘germogliare, spuntare, sgorgare’. Si noti la somiglianza, di forma e di sostanza, con ingl. brood ‘nidiata, marmocchi, brulichio, ecc.’.  Il gr. brotós ‘mortale, uomo’ doveva avere, all’inizio, il sign. di ‘rampollo, essere vivente, uomo’ ma poi si è incrociato con l’agg. gr. mortós ‘mortale’ attraverso una variante metatetica *mrotós.  Lo attesta in qualche modo l’altro termine gr. brótos ‘ sangue, sgorgo di sangue dalla ferita’, da avvicinare al precedente sp. brotar ‘germogliare, sgorgare’, che mantiene i due significati legati ad un’unica matrice.  Non è un caso, a mio parere, che questa radice combaci con quella di ingl. brother ‘fratello’, lat. fratre(m)’fratello’, serbo-croato brat ‘fratello’, gr. phráter ‘membro di uno stesso clan’: le unisce l’idea di generazione, stirpe, schiatta, famiglia.

[7] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, sub voce.  La stessa voce bardella  con lo stesso significato ricorreva anche ad Aielli, il mio paese, e probabilmente anche altrove.

[8] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004. 
   
[9] A Cerr-eto Sannita-Bn (anche qui ritorna la radice di Cer-ere, la stessa del Monte Cerro dove fu trovata la Tavola di Agnone della nota 3) la chiesa della Madonna della Libera sorge sul basamento di un tempio sannito-romano dedicato a Flora, dea della fioritura delle messi, della primavera e protettrice delle partorienti, che probabilmente qui aveva anche il titolo di Libera.  Stranamente i siti web da me consultati non accennano all’evidente rapporto tra questa Madonna della Libera e la precedente occupatrice del luogo sacro.  Gli studiosi, in effetti, mi sembra che non abbiano ancora scoperto l’origine vera, a mio parere, del culto delle Madonne della Libera perché probabilmente fuorviati dalle motivazioni che tradizionalmente e presuntivamente giustificano il titolo di Libera: l’azione liberatrice  da qualche pestilenza o assedio compiuta nel passato dalla Madonna cristiana a favore della comunità.  Nella Tavola bronzea di Agnone-Is  compare la dea col nome italico locale di Fluusai Kerriiai ‘Flora di Cerere’ che riconferma la sua stretta connessione con i cereali. La tavola presenta un testo con un numero discreto di grecismi: il che potrebbe aiutare a capire anche la ragione del sicuro grecismo della Mastra di Pratola.  Io credo che questo fatto dimostra che popolazioni greche hanno calcato il suolo italico e vi si siano stabilmente insediate già molto tempo prima degli influssi successivi diramatisi dalla Magna Grecia (dall’ VIII sec. a.C. in poi).  Alcune parole del dialetto di Scanno non si spiegano, secondo me,  pensando ad influssi indiretti.  Cfr. il mio post del marzo 2011 Parole del dialetto di Scanno. E’ bene ricordare che il lat. fordu(m)’pregno’ è accostato al gr. phorás,ádos ‘fecondo’, con la stessa radice di gr. phér-ein ‘portare’, lat. ferre ‘portare’.  Faccio notare che anche Franco Zazzara di Pescina-Aq è convinto, in base all’analisi di alcune parole, della presenza ab antiquo dei Greci nella Marsica: cfr. F. Zazzara- E. Cerasani, Marsi, Tipografica Renzo Palozzi, Marino-RM  2012, pp. 18-20.


[10] Si incontrava ad Aielli anche la voce caca-zzìttë ‘ bambino, ragazzino’ detto in senso alquanto spregiativo che ne sottolineava la ‘piccolezza o sparutezza’. Il primo membro dovrebbe corrispondere alla radice di nuor. càcch-ile ‘pollone’ da distiguere da quella di it. cacchio  ‘getto, germoglio non fruttuoso’ che è da lat. catulu(m) ‘cagnolino’, tardo latino ‘tralcio’. Si incontrano anche forme intensive come l’agg. scaca-zzìttë  detto di persona ‘piccola e sparuta’ (nel Bielli), di persona ‘piccola e minuta, ma molto attiva, reattiva e scattante’ a Trasacco. A  caca-zzìttë  si affiancano altre forme, riportate dal Bielli, come caca-nùde ‘bambino nudo’, caca-nnìtë ‘l’ultimo nato’, caca-nìzzë ‘l’ultimo nato’ con i secondi membri tutti da chiarire ma che debbono avere il significato tautologico di ‘bambino, figlio’. 

[11]  In Grecia il thárg-elos ártos era un ‘pane (artos) fatto con le primizie di frumento’ che si offriva a Demetra e Dioniso nelle Talisie, feste del raccolto.  A me sembra che thárg- o tárg- sia, in questo caso, variante metatetica di trág-os ‘sorta di spelta’.

Nessun commento:

Posta un commento