martedì 25 dicembre 2012

Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.


Questo testo è stato da me recuperato dopo averlo sbadatamente eliminato dalla sua collocazione nel mese di novembre   


Le Fate del precedente post, con il delicato  riflesso dei loro fili argentei, mi hanno fascinosamente incantato ed attratto nel mondo mitico e primordiale dell’agricoltura abitato da tante altre splendide figure, protagoniste di vicende belle e tristi nello stesso tempo, come bella e triste è  spesso la vita. 
Credo che tutti conoscano il mito di Proserpina (anche se, in tempi di economicismo dilagante e di conseguente arretramento della cultura classica la quale certo non sembra possa mai arrivare ad influenzare le Borse, questo può essere solo un pio desiderio), la giovane chiamata anche Libera e grecamente Kore, la bella figlia di Cerere, la dea della natura e in particolare delle messi, prima verdeggianti e poi bionde, le quali, si sa, hanno tratto da essa il nome di cereali, vivo e vegeto ancora ai nostri tempi.
 Proserpina un giorno coglieva lieta fiori variopinti nell’amena terra di Enna in Sicilia, presso il lago di Pergo, quando improvvisamente dal suolo emerse Plutone, dio dell’Ade, che rapì, tra le grida, la fanciulla caricandola sul suo carro splendente e portandola con sé per farne la regina dell’Averno.  Grande fu lo strazio della madre Cerere che ebbe pace solo quando ottenne da Giove che la figlia permanesse un terzo dell’anno negli Inferi e gli altri due terzi li passasse sulla terra.
Linguisticamente l’appellativo di Libera è certamente problematico, a tal punto che né gli antichi né i moderni credo ne abbiano dato una interpretazione perlomeno sostenibile, a meno che non lo si intenda come legato al presunto etimo del nome del suo compagno Libero, antico dio italico dell’agricoltura, figlio di Cerere anch’esso, identificato poi con Bacco, il Dioniso dei Greci.  In questo caso l’epiteto di Libero potrebbe essere giustificato dal fatto che il vino, sua invenzione, dona all’uomo ebbrezza e libertà di comportamento, ma questa spiegazione lascia sempre un certo retrogusto di insoddisfazione, data la sua banalità.  Le tre divinità della fertilità, che in qualche modo si contrapponevano alla triade capitolina, ebbero fin dagli inizi una connotazione campagnola e plebea, e un grande tempio sull’Aventino (496 a.C.) su prescrizione dei Libri Sibillini.
 I Liberalia nell’antica Roma erano una festività che si teneva il 17 marzo in onore di Libero e Libera, in cui la cerimonia più importante era quella che segnava il passaggio, da parte dei ragazzi, dall’età della fanciullezza a quella della pubertàe della maturità, quando essi indossavano la toga virile simbolo dell’avvenuto ingresso nella società civile dei grandi.  Il fatto di essere pubere o impubere era talmente importante per l’adolescente che il pater familias, almeno nei tempi più antichi, procedeva ad una diretta inspectio corporis ‘esame fisico’ per accertarsi della presenza nel suo corpo dei segni esteriori della maturità.  Ora, a me pare di scorgere un sottile ma tenace filo di collegamento tra il nome di Libero e quello latino di libero(s) ‘figli’, in quanto questa divinità era protettrice non solo dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento (frutti e animali) ma anche di quelli umani, come i figli appunto.  Pertanto sono incline a cercare per il lat. libero(s) un etimo senz’altro diverso da quello solito, dato per scontato sia dagli antichi che dai moderni: i libero(s) ‘figli’ costituirebbero, a detta degli studiosi, la parte “libera” della famiglia che si contrapponeva ai servi ‘schiavi’.  A voler essere pignoli, però, anche i genitori dei figli “liberi” erano parte libera della famiglia ma senza avere quella denominazione. A nessuno è venuto mai in mente, poi, la considerazione (visto che le parole raramente nascono per indicare i concetti di cui si caricano solo nella loro lunga storia, come ho ribadito più e più volte) che probabilmente i figli degli schiavi non poterono continuare a fregiarsi (da quando?) dello stesso nome di libero(s), che precedentemente forse avevano anche loro, solo a partire da una certa data in poi (da quando?) nella lunga storia di un popolo e della sua lingua: se fosse rimasto infatti quel nome anche per loro, si sarebbe verificata una brutale contraddizione in termini, data l’esistenza in latino (da quando?) dell’aggettivo parallelo libero(s)‘liberi’ a cui inevitabilmente sarebbe stata connessa la parola: ma essi erano di fatto schiavi perché figli di schiavi!
 Ora, se gli antichi non avevano gli strumenti per sventare le insidie e le trappole messe in opera, per così dire, dalla Lingua stessa, per i moderni non è bello schermirsi dietro la medesima attenuante.  In effetti in questo caso la parola dovette subire il solito processo di specializzazione che restringeva il suo significato, precedentemente più ampio, ai soli figli degli uomini liberi.  La parola poteva, infatti, anche provenire da epoche primitive in cui non esisteva ancora l’istituto della schiavitù, o poteva essere un prestito antico da una comunità limitrofa a quella latina in cui non esisteva, magari, l’aggettivo latino liberu(m) ’libero’ con cui essa fu costretta a fare i conti solo dopo l’ingresso nella nuova comunità di parlanti, per continuare a vivere  senza creare contraddizioni. Il suo uso storicamente attestato, infatti, che includeva anche i ‘piccoli degli animali’, è già un forte indizio in tal senso. E dobbiamo sempre ricordarci che ogni lingua non è mai il risultato di un’operazione svoltasi in uno stesso luogo e in uno stesso torno di tempo: anzi, usando un’espressione non tecnica ma che rende bene l’idea, si può senz’altro asserire che non c’è istituzione umana più bastarda di quella rappresentata dalla Lingua che, fin dalle origini, fu il punto d’incontro di rivoli innumerevoli provenienti da ogni direzione, checchè ci possa suggerire il cieco orgoglio umano che tende sempre a innalzare muri divisori tra gruppo e gruppo, popolo e popolo, razza e razza. Ma vogliamo renderci conto una volta per tutte che persino con gli scimpanzè condividiamo il 99% del patrimonio genetico[1], e che è finito il tempo in cui i preti di campagna, e non solo, allibivano inorriditi alla sola idea della possibilità della derivazione dell’uomo da un antenato comune con le scimmie?
 Ora, quello che secondo me dà il colpo di grazia alla vecchia etimologia di libero(s)sono alcune voci dei dialetti abruzzesi come il cerchiese lìvërë dë tumènda , con la variante làvërë, [2]‘batuffolo di stoppa (tumènda)’, trasaccano jìvië [3] ‘stoppa filata e raffinata, pronta per la tessitura’, da *livëlë con palatalizzazione della laterale –l-, come attestano i vari abr. lìvelelévulelèvïe [4], varianti della forma cerchiese per alternanzar/l,  dai significati uguali o simili ai precedenti. A questi va aggiunto, secondo me, il sardo logud. lèppere che significa ‘lepre’ ma anche ‘pube’ ( lat. pubem ‘peli’) la cui radice rispunta, a mio avviso, nel campidanese lepp-erangiòlu ’ragnatela’[5]. Quello che a me sembra una naturale ma linguisticamente importante, oltre che stupenda, conseguenza è presto detta.  Il dio italico Liber ’Libero’, infatti, non può che essere l’ipostatizzazione del concetto di “filo, stelo, erba, grano, crescita, ecc.”  espresso da questa radice, e di quant’altro possa rientrare in esso, compresi i cuccioli degli animali e degli uomini (liberos): in altri post ho puntato l’attenzione proprio sul ricorrente rapporto, nelle lingue, tra il concetto  di ‘pollone, piantina’ e quello di ‘cucciolo, figlio’. Lo stesso fatto che Libero e Libera erano considerati figli di Cerere sta ad indicare, a mio avviso, che questi nomi avevano tra i significati originari anche quelli di ‘figlio’ e ‘figlia’. Un’altra bellissima conseguenza scaturisce dalle considerazioni precedenti: i termini dialettali laòre, laùre, lavùre, labòreliòriecc. ‘cereali, grano, frumento, ecc.’, diffusi soprattutto in Sardegna ma anche in alcune zone del Meridione d’Italia, sono la fotocopia dei cerchiesi làvërë e livërë ‘batuffolo (di stoppa)’ in quanto ‘insieme di fili’.  Tutti i linguisti, compreso il grande G. Rohlfs, non hanno potuto fare altro che rimandare, per queste voci, al lat. labore(m) ‘lavoro’, termine con cui certamente è avvenuto l’incrocio, che ha causato lo spostamento  in avanti del loro accento tonico ed aggiunto all’antico e prioritario significato di ‘stelo, peluria (del grano appena spuntato), filo, erba, cereali, messi’ quelli di ‘aratura, seminagione, ecc.’ attualmente compresenti in genere con l’altro[6]. La forma originaria della voce laòre non doveva essere diversa da quella del lat. lauru(m)‘alloro’ che è pur sempre una “pianta”, concetto in cui rientra quello di “escrescenza, vegetazione, erba”. L’espressione latina vite(m) labr-usca(m), lambr-usca(m)‘lambrusca’ (rum. leur-usca) o simili (non possiamo credere che ci sia arrivato tutto il patrimonio lessicale del passato!) può spiegare il passaggio del dio Libero, da protettore generico  di ogni forma di vegetazione e di vita, a dio specifico della vite e del vino.  Anche per il toponimo storico-geografico di Terra di Lavoro, una parte della Campania felix, così chiamata per l’abbondanza dei prodotti agricoli, bisogna pensare ad un’etimologia consona al suo simbolo costituito da cornucopie stracolme di frutti dei campi.  In antico era nota come Leboriae[7], parola molto vicina a quella di Libero, dio della fecondità.  Ma non bisogna scartare nemmeno l’ipotesi che all’origine il nome si riferisse alla caratteristica geomorfica del terreno pianeggiante e che pertanto esso potesse richiamare il gr.leur-ós ‘ampio, disteso, libero’.  Aggiungerei a queste parole il siciliano laur-india ‘granturco’[8] e il sardo gallurese lara di ragnu ‘ragnatela’  il cui primo termine lara significa, sempre in gallurese, ‘velo trasparente’ e deve provenire da una forma *laura o *labra  strettamente legata alle forme citate laòre, laùre, ecc. per ‘cereali’, al cerchiese lavërë ‘batuffolo di stoppa’ e quindi ai significati di ‘steli, fili, insieme di fili, tessuto’.  In effetti anche gallurese laru vale ‘lauro, alloro’.
 La lingua sarda non è in fondo così lontana dai nostri dialetti come l’apparenza indurrebbe a credere.  Ricordo che quando sentivo i Sardi parlare nel loro idioma del Sarrabus, a Villaputzu-Ca dove molto tempo fa ho insegnato per un paio d’anni, oltre a restarne affascinato, data la mia naturale attrazione per ogni loquela, mi sembrava nel contempo di essere caduto nel bel mezzo di un popolo barbaro, dagli accenti molto lontani dai miei.  Poi, pian piano mi resi conto che in effetti molte loro parole non mi erano così estranee perché di ascendenza latina o greca.  Il sardo logud. e nuor. livrìa ‘ragazzaglia, bambinaglia’ conferma il significato di ‘bambino, ragazzo, rampollo’ della radice.
E’ quasi incredibile ma, a mio parere, i fatti stanno lì a dimostrare che i termini con cui veniva indicata la toga virile stessa alludono tutti al concetto di ‘peluria’ (quella del pube e della prima barba) al di là dei significati di superficie.  La toga libera, infatti, che inviterebbe a trovare un etimo ruotante intorno al concetto di “libertà” [9], non può invece che riferirsi, per quello che abbiamo detto più sopra sul dio Libero, all’età della pubescenza, cioè dell’apparizione dei primi peli nel ragazzo.  La toga pura non è la toga priva degli ornamenti della pretesta (la toga che portavano i fanciulli ornata da un bordo rosso) ma di nuovo una toga alludente alla pubescenza se si tiene presente l’ingl. fur ‘peluria, pelliccia’ e l’aiellese, cerchiese pirë ‘pelo’ che, è vero, potrebbe rientrare nel gioco dell’alternanza r/l, alternanza che però va spessissimo risolta, a mio avviso, nel senso di una diversità originaria delle due forme[10].  Ancora più incredibile, ma per me veritiera (dati questi precedenti), la considerazione che la stessa denominazione di toga virile  non debba trarre origine dal suo indicare  l’ingresso dei ragazzi nel mondo degli adulti (da lat. virum ’uomo fatto’) ma sempre dal fatto più concreto e diretto che essi entrano nella pubertà: cfr. ingl. wire ‘filo metallico’, specializzazione di un significato più generico come mostra il termine plumb wire ‘filo a piombo’ e il composto wire-haired  ‘a pelo ruvido’ detto del fox terrier, in cui si ha comunque già una specializzazione del significato, forse dovuta all’influsso di quello di wire ‘filo metallico’.  L’it.birillo deve avere un qualche rapporto con la radice in questione, come certamente le varianti abr. pire piolo, grosso bastone’, pir-òle[11] ‘cavicchietto per tendere le corde del violino’, it.pir-one ‘cavicchio, perno’, friul.pìre[12]‘farro piccolo’, sloveno pira, pir [13]‘farro piccolo’, gr. pyr-ós ‘grano, fru-mento’[14].  Del resto anche il signif. di lat. viru(m) ‘uomo forte, uomo fatto, adulto’ poco risponderebbe alla realtà di adolescenti, anche se non più imberbi, tra i 14 e i 18 anni che prendevano la toga virile, benchè in effetti con questa cerimonia entrassero nella categoria degli uomini.
Libera, l’altro nome di Proserpina o Kore, per la quale ultima rimando al post Le Procaristeriedell’ottobre 2009,   era dunque uno dei diversi nomi che dovevano indicare la divinità femminile del rigoglio della Natura a primavera come ad esempio la stessa Cerere.  L’etimo di Proserpina mi sembra scontato se il lat. pro-serp-ere indica anche lo ‘spuntare, germogliare’ dei vegetali, oltre allo ‘strisciare avanzando’.  Quello di Cer-ere, allotropo di Kore, di cui parlo sempre nel post citato, è da ricondurre a forme simili al gr. kór-os, con varianti, che significa oltre a ‘fanciullo’ anche ‘rampollo, stelo, giunco’ secondo la ratiodi cui abbiamo parlato.   Nei dialetti centro meridionali la carus-ella (cfr. lat. Ceres‘Cerere’) è un tipo di grano con scarse ariste, il che ci potrebbe fuorviare nella individuazione del suo giusto etimo, a causa dell’incrocio col dialettale carus-are ‘rapare a zero, tosare (le pecore)’.  Ma l’it. carosella ‘finocchiella’ ci riporta sulla retta strada e ci dice che questi significati sono solo una specializzazione di quello più generico a monte che li comprende tutti, specializzazione che confonde le nostre menti, se non sono diventate immuni a simili inganni di prospettiva.  Le voci dialettali centromeridionali come trasaccano carusë[15] ‘ragazzo con la testa rasata’ ma anche ‘cavalluccio, somarello matto’ , abr. carósë [16]‘tosatura di capelli’ ma anche ‘puledra’, siciliano carusu ‘ragazzo, fanciullo’, voci che in diversi dialetti ritengono, appunto, anche il sign. di ‘puledro’, non possono essere associate al diffusisssimo verbo carus-are di cui ho parlato sopra.  Si tratta della solita sovrapposizione di termini che non può assolutamente guastare il meraviglioso armonico rapporto tra il concetto di ‘filo, grano’ e quelli di ‘puledro, cucciolo di animale’ e di ‘cucciolo umano, figlio, ragazzo’ espressi tutti dalla stessa radice car-us-.  Anche i termini come it. cors-iere (cavallo da corsa e da combattimento), ingl. horse ‘cavallo’, a. frisone hars’cavallo’,  ted. Ross ‘destriero’ e persino l’aggettivo dell’espressione cane corso[17] appartengono a questa famiglia, diversamente da come pensano tutti i linguisti che ne additano soddisfatti come etimo, per il sign. di ‘cavallo’, la radice del verbo lat.curr-ere ‘correre’.  Insopportabile! perché non si accorgono di essere caduti nella trappola della individuazione di un etimo in base alla sua indicazione di funzioni del referente  più o meno marginali.
Liberalia, in base a quanto siamo venuti osservando, si rivelano quindi come una delle tante feste della Primavera che con nomi diversi erano celebrate presso tutti i popoli antichi, presso ogni grande o piccola comunità agreste; feste che dovevano rinsaldare il vincolo tra tutti i viventi, vegetali, animali e uomini, anch’essi parte del gran concerto della Natura, e che qui, nei Liberalia, con le cerimonie centrali che sottolineavano con gioia la realtà dei ragazzi divenuti puberi[18], si sentivano partecipi della stessa sorte dei teneri fili del grano in erba che  assicurava loro la sopravvivenza per il presente, attraverso il successivo raccolto delle messi, mentre la persistenza del loro nome nel futuro veniva garantita dai propri rampolli divenuti, con la raggiunta pubertà, uomini a tutti gli effetti.
Beate le antiche età, soprattutto quelle più remote! in cui gli uomini avvertivano profondamente  (perché era la lingua stessa che usavano e che non aveva ancora completamente coperto i significati originari delle parole a dichiararlo) di essere integrati in una vasta rete di rapporti che teneva insieme divinità, uomini, animali, vegetazione fino all’ultimo filo d’erba, e anche territorio, conosciuto a menadito e sotto la protezione delle divinità locali, piccole e grandi, che popolavano i monti, le valli e le fonti, rete che permetteva loro di superare le difficoltà della vita, che pure erano tante, con uno stato d’animo forse più pacato e virilmente fiducioso, perché le loro radici erano saldamente immerse nel grembo della Terra Madre che respirava all’unisono con i loro cuori. Ebbene la Lingua, come abbiamo visto, ha registrato e trasmesso stupendamente fino a noi questa ancestrale e armoniosa visione animistica della realtà.  Di animismo in generale avevamo già letto e sentito parlare da parte degli studiosi, ma davvero straordinario e sorprendente è riscontrarlo di mito in mito, di parola in parola, magari  in quelle dei nostri dialetti.
La mia fanciullezza e adolescenza si è svolta tutta entro un quadro del genere: contadini al lavoro nei campi, molti animali nelle stalle o sparsi nella campagna e nei pascoli, stradine e sentieri dove, mentre seguivo la mia asina Carmela che procedeva lenta, ritornando al paese che si stagliava severo in lontananza come in una tela di un macchiaiolo dell’Ottocento, sotto il peso di qualche sacco di patate o quello di un certo numero di manóppjë di grano o di tórzë[19] di frasche, improvvisamente poteva spuntare strisciando, facendomi lì per lì rabbrividire, un lungo pasturavàcchë dalla pelle striata, o frullare via dalle siepi una frattaròla o una cràstëla, tra lo stormire ora piano e appena avvertibile, ora più franco e sonoro, delle foglie dei pioppi, degli olmi, dei cerri sulle cui cime andava spesso a posarsi il volo bianco e nero di una ciciaccòva[20]. Le antiche divinità agresti erano, è vero, scomparse da gran tempo, non c’era più nemmeno un’ombra di possibilità di scorgere, oltre il recinto d’un orto, la rude immagine lignea di Priàpo lascivo o quella più gentile di Pomona dalle forme abbondanti: esse avevano lasciato il posto a qualche malandato e improbabile spaventapasseri, a streghe e stregoni, ad esseri non meglio identificati che, soprattutto di notte e in punti determinati, potevano far sentire la loro presenza, più spesso paurosa e malefica che benefica. 
Ora, con la modernità  che ha portato con sé una rivoluzione epocale a cui può stare a fronte solo l’invenzione dell’agricoltura (guarda caso!) avvenuta dieci-quindicimila anni fa nella Mezzaluna Fertile del vicino Oriente che però non scombussolò totalmente il rapporto uomo-natura rispetto alla precedente società di cacciatori e raccoglitori, circolano vetture per le strade ma quasi più nessuno circola nelle campagne abbandonate e nemmeno in paese, divenuto sempre più vuoto di uomini ed animali, soprattutto nei lunghi mesi invernali.  L’ultimo straziante raglio dell’ultimo asino, l’ho udito un paio d’anni fa.  Ha vinto la modernità rombante, incontenibile, chiassosa, metropolitana che sa di fabbriche, macchine, velocità, telefonini, tutte cose che possono essere buone, per carità, e spesso lo sono, ma che forse in cambio chiedono troppo, il respiro e l’anima dell’uomo, una volta laceratasi quella rete che lo teneva in stretta simbiosi con la Natura dal ritmo lento, ampio, serenatore e solenne.
Con il cuore gonfio di questi umori un po’ nostalgici, ma soprattutto dolenti, insofferenti e ribelli, scrissi già molti anni or sono questa poesia dedicata allo sfortunato poeta russo Esenin e a tutti quelli cui come a lui “morire non è nuovo sotto il sole, ma più nuovo non è nemmeno vivere”.

                                             A Sergio Esenin


                         O Sergio Esenin, qualcuno si sfama
                         col tuo pane impastato di rancore
                         e dei versi le rosse bacche serba
                         dentro un bianco cofano di cristallo;
                         e spremerà la loro asprigna polpa
                         per un decotto soltanto a lui noto
                         che caccerà dall’anima il catarro
                         accumulato da un selvaggio vento
                         che lacera la vita come panno.

                         O Sergio Esenin, tu non fosti l’ultimo
                         poeta contadino!  Se mi versi
                         nel bicchiere un po’ di vino, che scaldi
                         il petto come sole meridiano,
                         sentirai un rozzo canto campagnolo 
                         odoroso di menta e di reseda
                         celebrare la tua celeste Russia
                         di betulle, di aceri e di capanne
                         che so d’amare quanto la mia terra.

                          Insieme noi a raccolta chiameremo
                          le poche mucche al pascolo nei prati
                          che subito al richiamo accorreranno
                          e nelle nostre mani carezzanti
                          la bava, tra i muggiti, coleranno
                          del dolore: chiederanno giustizia
                          per l’aratro schernito dal trattore,
                          per i piccoli sottratti alle poppe
                          dalla mano impietosa del mercante.

                          Insieme noi a raccolta chiameremo
                          ancora i radi branchi di cavalli
                          nascosti nelle valli in mezzo ai monti
                          che lugubre un rimbombo ululeranno
                          di tamburi ossessionanti, battuti
                          dai batacchi di piedi tempestanti:
                          dalle loro acquose pupille nere
                          berremo tutta la disperazione
                          di quella razza fiera in estinzione.

                           Insieme noi a raccolta chiameremo
                           ancora i pochi greggi latitanti
                           e dalle loro bocche ascolteremo
                           la triste nenia che li tiene in vita;
                           usciranno anche i porci dalle stalle
                           scardinando la porta che li chiude;
                           i somari, annusata la rivolta,
                           coi denti spezzeranno la cavezza
                           e il giorno tremerà del loro grido!

                           Insieme tutti quanti marceremo
                           lungo le larghe strade nazionali,
                           saremo cento, mille e più di mille
                           nessuno ormai fermare ci potrà;
                           gli artigli adunchi di feroci galli
                           a chi s’oppone caveranno gli occhi,
                           tra la maciulla delle nostre zampe
                           stritoleremo la città di ferro
                           nemica della nostra umanità.

                           O Sergio Esenin, più non moriremo!


Sono certo che tra il discreto numero di persone che leggono questi miei post, c’è qualche linguista di professione. Mi farebbe molto piacere sentirne il parere,  di qualunque tenore esso fosse, specie su quest’ultimo post, ma non credo che ciò succederà mai.  In Italia purtroppo per essere non dico riconosciuto e apprezzato (se del caso), ma semplicemente per essere ascoltato (e credo di averne acquisito almeno il diritto, con la mia dedizione senza limiti alle parole, che dura da diversi decenni e che, a mio parere, ha ottenuto risultati non trascurabili) bisogna che qualcuno ti appiccichi una coccarda sul cappello e ti includa in questa o quella consorteria accademica di cui dovrai adottare i vezzi, i pregiudizi, i tecnicismi e persino un certo modo di scrivere, altrimenti  nessuno ti degnerà di uno sguardo.  E pensare che ringrazierei molto anche chi avesse un’idea opposta alla mia e stroncasse, con argomenti credibili, i miei articoli. Too bad!!!
                                             






[1] L’80% lo condividiamo con un verme di 1 mm, il Caenorhabditis elegans, e il 50% con la comune banana. Il che significa che la Vita è paragonabile ad una sorta di piramide il cui apice è rappresentato dall’uomo. La metafora, però, è in certo senso fuorviante perché induce a pensare che la Vita sia stata un processo lineare che ha condotto direttamente all’uomo, quando invece si è avuta una evoluzione estremamente incerta, casuale, imprevedibile. Naturalmente non voglio assolutamente liquidare, con due parole, la questione della spiritualità dell’uomo che richiede ben altre riflessioni e considerazioni che potrebbero, almeno in linea teorica, anche aprire la porta a dimensioni diverse da quelle del cosiddetto riduzionismo biologico.
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[2] Cfr. F. Amiconi, Tradizioni popolari marsicane: il dialetto cerchiese, Museo civico di Cerchio-Aq, anno VII 2004, Quaderno 57, sub voce.  

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P,  Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, s.v.

[4] Cfr. D.Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio 2004, s.v.  Alla base di questi termini deve porsi qualche variante con labiale sonora della voce cerchiese lippë‘filo, pelo’, trasaccano lippë ‘filo d’erba o qualsiasi coltura dallo stelo esile’, trasaccano leppa ‘filo minuto d’erba o di paglia;  stecchi che restano attaccati alla fibra della canapa, dopo la gramolatura’ oltre che ‘striscia di carta o di stoffa; stringa’; fr. livrée ‘pelame, piumaggio, lanugine (di certi animali)’ oltre che ‘livrea’: quest’ultimo significato deve essere specializzazione di uno precedente di ‘pellicia, mantello, toga, abito’, con movimento inverso rispetto a quello sotteso al suo etimo corrente che parte dal supposto significato originario di ‘(divisa) consegnata (alla servitù)’, dal p.pass. del verbo livrer ‘consegnare’. Le parole sono sempre in cerca di specializzazioni e, appena possono, cambiano significato.  Segue ancora tras. leppë ‘bordo, piega degli abiti, orlo’, in altri termini una specializzazione del prec. leppa, varianti di tras. lappë ‘piega che forma il bordo degli abiti, orlo’. E’ inevitabile il confronto con l’ingl. lap ‘falda, lembo ripieghevole’, ingl. lip ‘labbro, orlo, bordo’, ted. Lappen ‘pannicello, cencio, straccio’. Queste parole dialettali mi sembrano di stampo germanico con il gioco dell’apofonia tipico di quelle lingue.  Ma anche qui, più che di apofonia, io parlerei di varianti originarie esistenti prima indipendentemente, e poi avvicinatesi a dar vita a quei rapporti che solo in apparenza sembrano generati dall’apofonia, cioè dalla presunta trasformazione del suono della vocale radicale. Naturalmente non si può credere che le voci trasaccane siano state portate da qualche ondata di invasori germanici nel medioevo. Esse vivevano sul nostro suolo marsicano da tempi remotissimi come dimostrano i significati interdipendenti di ‘filo d’erba o paglia, stringa, striscia di carta o di stoffa’ di tras. leppa,  dei quali quello di ‘striscia’ si è già avviato a diventare ‘falda, bordo, piega’. Anche l’it. lippa, gioco i cui strumenti essenziali sono due bastoni, uno più piccolo e appuntito alle due estremità, non può che essere un derivato di questa radice col valore generico di ‘stelo’ e quindi di ‘bastone, mazza’.

[5]  Ricorrono, sempre in campidanese, le forme lappa de arrangiolu (lat. araneolum ‘ragnetto’) ‘ragnatela’ o semplicemente lappa ‘ragnatela’. Mi pare incontestabile che queste radici sono le stesse di quelle abruzzesi elencate nella nota precedente nel loro valore essenziale di ‘stelo, filo’.  Per campid. lepp-erangiòlu si può legittimamente supporre una forma lepper-angiòlu, proveniente per semplificazione (aplologia) da un precedente *lepper-arangiòlu

[6]Adesso, col senno di poi, constatiamo che i Sardi, con l’arrivo dei Romani, mai dismisero l’uso di questi antichissimi nomi di cereali (laòre, liòri) con l’intenzione di sostituirlo con un termine latino, labore(m) ‘lavoro’, che con essi aveva solo un piuttosto vago rapporto.

[7] Plinio, Nat. Hist., XVIII, 11.

[8] Cfr. M.Cortelazzo-C.Marcato, I Dialetti Italiani, UTET, Torino 1998. Le varianti ivi riportate laurìnnia, raudìnnia, raudìndia, piuttosto che confermare l’ipotesi da nessuno messa in discussione che l’etimo di queste voci sarebbe ‘grano d’India’, mi spingono a pensare che doveva esistere, precedentemnte, una forma *laurinja, normale svolgimento di laurino, forma aggettivale riferita non ad un tipo di grano ma ad un arbusto detto erba laurina.  Ora è molto facile che un possibile tipo lessicale *laurinja, laurinnja riferito al ‘grano’, sotto la spinta dell’esigenza di dare un nome a nuove granaglie provenienti dall’estero, desse vita, per etimologia popolare, ad una forma come la citata laur-india, specializzazione per ‘granturco’. Lo stesso fenomeno potrebbe essersi verificato per il termine dindo ‘tacchino’ e simili, animale importato dal Nord-America.  Il fatto è che il termine sembra derivare dall’espressione gallo d’India, già usata però per indicare la ‘gallina faraona’, nota ab antiquo.  E’ presumibile, quindi, che si siano avute, a partire dalla voce gallina, forme come *gallinja, *gallinnja, *gallindia propedeutiche all’interpretazione gallo d’India, che ha dato vita alle abbreviazioni dialettali dindo, dindio, ecc. Nel dialetto di Gallicchio-Pz (cfr. relativo sito web) la voce fichëlìnë ‘fico d’India’, che formalmente è solo un doppio diminutivo di fico (cfr. dimin. lat. ficulam ‘piccolo fico’), si è trasformata in un aperto ‘fico d’India’, appunto: la trasformazione di significato non è stata qui sufficiente a modificare il diminutivo di partenza fichëlinë in fichëlìnjë e poi fichëlindië per adattarlo al nuovo significato.

[9]  Ovidio stesso (Fasti, III, 771 ss.) si chiede perché la toga libera si riceveva il 17 marzo, giorno sacro a Libero. Le sue varie risposte non potevano non ruotare intorno ai valori saputi di lat. liberu(m) ‘libero’.  Ma anche gli studiosi moderni, dopo alcuni secoli di studi linguistici, a quelle domande non sanno dare una risposta fondamentalmente diversa da quelle di Ovidio, anzi taluni sono rassegnati alla impossibilità di trovare una spiegazione valida al problema, come D. Sabbatucci il quale sostiene: «Naturalmente sono domande destinate a restare senza risposta, o si risponde ad esse con vaghe congetture» (cfr. D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, p. 104).  Tutto ciò significa, a mio avviso, che la linguistica non ha sostanzialmente ancora fornito all’uomo moderno gli strumenti adatti a penetrare almeno un po’ più a fondo nella verità degli antichi usi, miti e divinità. Il problema dei problemi è rappresentato, come ho detto più volte, dalla estrema elasticità del significato di una parola, caratteristica che se da un lato permette di collegare tra loro svariate categorie di termini, dall’altro finisce con lo scombussolare gli schemi e i metodi tradizionali degli studiosi, che per questo, credo, mussant.  Prima di scoprire le due parole del lessico cerchiese legate al lat. libero(s) ‘figli’ io già supponevo che l’etimo della parola latina dovesse essere legato al concetto di ‘rampollo, pollone, stelo’ e non a quello di ‘libertà’ ma non avevo ancora uno straccio di radice che me lo confermasse.   Ciò significa che il mio metodo, sia detto senza alcuna iattanza, deve essere quello giusto.  Un’altra verità, che mi si rivela ogni giorno più solida, è che le parole, liberate da tutte le incrostazioni accumulatesi nei secoli e millenni, puntano dritte alla natura fondamentale del referente, e che quindi è senz’altro fuorviante lasciarsi accarezzare da altri concetti che hanno rapporti casuali e superficiali con essa, anche quando il loro significato sembra del tutto appropriato al referente, pur senza coglierne l’essenza.

[10]  Negli stessi paesi di Aielli, Cerchio e altrove ricorre la forma firë per ‘filo’ che, ribadisco, mi sembra un errore considerare derivata da lat. filu(m) ‘filo’. Essa mi sembra più simile ad ingl. fur ‘peluria, pelliccia’, lat. fer-ula(m) ‘bacchetta, ramoscello, germoglio di vite’, ingl. fir ‘abete’, lat. piru(m)’pero’, lat. far ‘farro, spelta, grano’ di cui si parlerà più sotto nell’articolo, francoprovenzale far-bela, fer-bela‘frangia, falpalà’, ingl. fur-bellow ‘falpalà’, lat. far-faru(m), far-feru(m) ‘farfaro’ (con radice raddoppiata), un tipo d’erba, fr. foarre, fouarre ‘paglia difru-mento’.  Il fru- di lat. fru-mentu(m)  trova  riscontro, a mio parere, nell’umbro fri delle Tavole Iguvine inteso come ‘le messi’.  Non credo che esso sia un accorciativo di lat. fruges ‘prodotti, cereali’: semmai è quest’ultimo ampliamento dell’altro. E non credo che c’entri, almeno direttamente, il verbo lat. frui‘godere, fruire’, come si sostiene. Il suffisso –mentu(m), comune a tante parole, qui, in funzione tautologica, credo corrisponda per il significato al lat. mentu(m) ‘mento’, lat. ment-ula(m)’pene’, lat. menta(m) ‘menta’ col valore di fondo di ‘escrescenza, protuberanza’.

[11] Cfr. D. Bielli, cit.,s.v.

[12]  Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato, I Dialetti Italiani, cit., s.v.

[13] Cfr. M. Cortelazzo-C. Marcato,  I Dialetti Italiani, cit.,  s. v. pìre. La Marcato riporta anche le forme friulane pire-fàrepire-spèlte per la stessa pianta in cui lei suppone  che le voci fare e spelte, che significano ‘farro’, servano a rinverdire il signif. di pire divenuto oscuro.  Ma a me pare che si tratti semplicemente di due splendidi esempi di composti tautologici.  I linguisti li hanno poco studiati.  Anche il diminutivo latino fur-unculu(m) ‘getto della vite; foruncolo’ è ora che la smetta di nascondersi sotto la veste del ladruncolo (lat. fur-em ‘ladro’) che ruberebbe la linfa alle piante, e si rassegni a far parte di queste radici per ‘filo, pollone, germoglio, tralcio’ che facilmente diventano ‘escrescenze cutanee’ più o meno purulente nelle varianti dialettali marsicane pura, purélla, përélla, purijjë.  Il lat. ferv-unculu(m), forma parallela di fur-unculu(m), è più vicina all’idea base dei due termini, con il suo richiamo al verbo ferv-ere ‘fervere, bollire, ardere’.

[14]Fanno parte della serie anche le voci, registrate dal Bielli, come vurë che, oltre a ‘borea’, significa ‘vigore, forza della terra’ (con allusione alla forza della vegetazione), vurrë ‘vivace’, termine che presuppone una variante *virrë ‘vivace’ se questo stesso è attestato nel Bielli col significato di ‘bizze, capricci dei bambini’.  Sono certo che frugando tra i lessici dei dialetti si potrebbe incontrare un *biro, *viro col significato di ‘bambino, ragazzo’, termine che entrerebbe in contrasto, per la nostra mentalità, col lat. viru(m) ‘uomo fatto, eroe’, benchè la radice sia, a mio avviso, la stessa: si tratta sempre della stessa ‘forza’ della natura che, di parlata in parlata, si concretizza nell’uno o nell’altro modo. L’italiano borra  proviene da un tardo lat. bura(m), burra(m) ‘stoppa, imbottitura’, variante dell’altra radice con labiale sorda.  Il Pianigiani, nel suo dizionario presente in rete, attesta che il termine borra era usato anche col valore di ‘forza fisica e psicologica’,  confermando quindi il significato di ‘vivace’ delle voci abruzzesi sopra citate.   Solo che lui trae questo significato da un supposto uso metaforico del termine.  La realtà è che la radice aveva in sé ab origine il significato di ‘forza’, in questo caso della Natura, che faceva spuntare erbe, piante e tutto il resto.

[15]  Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq  2003, sub voce.

[16]  Cfr. D. Bielli, cit., s.v.

[17]  La radice prima di questi termini per ‘cavallo’ è rappresentata, a mio parere, dalla voce khar ‘asino’ dei dialetti iranici del Pamir, e sono convinto che le espressioni arri qua, arri là, rivolte nel mio paese ai soli somari come incitamento a procedere in una direzione o nell’altra, nasconda sotto la voce arri  un precedente *harri proveniente dal suddetto khar ‘asino’.  Ma dovrebbe esserci dietro anche una radice per 'andare, procedere'.

[18]  La festa consisteva anche in una processione alla cui testa svettava una pertica con sulla sommità un vistoso fallo, simbolo di fertilità e fecondità presso molte delle antiche civiltà mediterranee.  Ma è da aspettarsi che i concetti stessi di “pertica” e “fallo” fossero in stretto rapporto con quello di “germoglio, pelo, filo, stelo, cereale, figlio” o di “turgore” della primavera, che è la stessa cosa.  Finita la processione, una virtuosa e rispettata matrona poneva una corona sul fallo.  A me pare molto credibile che le odierne Madonne della Libera diffuse un po’ in tutta l’Italia centromeridionale continuino la tradizione antichissima legata alla dea pagana Libera. Naturalmente tutti gli aspetti sessuali e sensuali di quella festa non potevano che scomparire nella nuova temperie spirituale, a volte fortemente sessuofobica, del Cristianesimo.  Ma l’immagine della Madonna della Libera, come appare in un antico quadro conservato nel santuario di Rodi Garganico, mi sembra che abbia mantenuto qualche tratto inconfondibile che la lega al passato: essa non solo presenta la Madonna col bambino Gesù, come la maggior parte delle Madonne della Libera (sottolineando così la sua funzione di procreatrice), ma raffigura il bambino mentre gioca con una colomba trattenuta da un filo.  Ritorna il concetto di “filo” che è alla base delle latine Liberalia.  Anche le due croci impresse una sul collo e l’altra sul palmo della mano destra dovrebbero rimandare al gr. króke ‘filo, trama’. La crocetta è un’ottima erba da foraggio. Si incontra anche l’abruzzese cròcchiele ’parte di un gomitolo, che si stacca dall’intero in forma di matassina; gretola della rocca’ (vocab. del Bielli) derivante da un precedente *croc-ula.  La colomba peraltro era uccello sacro a Venere, dea dell’amore e della fecondità: naturalmente questo simbolo si incrocia qui con quello di origine biblica che rappresentava la pace, la serenità, la bontà, il bene. La stessa dea Libera, secondo quanto leggo in un sito internet, era considerata vergine e generò un bambino, che divenne suo paredro. Sta di fatto comunque che sotto il titolo di Madonna della Libera la Chiesa Cattolica venera la Madonna in quanto madre di Gesù.

[19]  Le torzë sono i fasci di frasche legati da una ritortola,  i manóppjë sono i covoni.

[20] In italiano la ciciaccòva corrisponde alla gazza; il pasturavacchë è il serpente cervone, la frattarola è ilforasiepe, la crastëla corrisponde all’averla? Numerose sono le varianti abruzzesi di ciciaccòva quali cicciacòlla(Avezzano), cicciaccòra (Cerchio), ciacciacólë e il semplice colë (vocab. del Bielli).




I seguenti commenti, anch'essi recuperati, vanno letti in successione a partire dall'ultimo in fondo.




Una "critica…sull'impostazione generale" , come indicata da Angus Walters, non ė il caso di farla. Piuttosto, io farei riferimento ad uno sbalzo paradigmatico linguistico-culturale da farsi nell'ambito della teoria della lingua per poter dialogare con la stesura linguistica del Maccallini. Ma io temo che la sua visione non oltrepassi i limiti cronologici dell'inimitabile autore, anche se scripta manent. su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.
Anonimo
il giorno 11/12/12
Caro Angus, io sarei molto grato all'Anonimo se volesse in qualche modo, anche via email, svelarmi la sua identità, ma sono convinto che egli abbia un valido, anche se effettivamente molto strano, motivo per non farlo. Pietro Maccallini su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.
in risposta a Caro amico Pietro, anch'io, sotto l'anonimato, un paio di volte ho commentato brevemente il tuo blog. Ma ora mi accorgo che non sono l'unico a farlo; e vorrei sapere se il Signor Anonimo che scrive ora e' un linguista di professione, perche' io, non meno di te, sono curioso di sapere se questo Anonimo ha qualche critica da fare sull'impostazione generale della tua teoria della lingua. Io, come sai, non sono un "professionista" in linguistica; ma i miei studi universitari mi hanno inoltrato abbastanza bene negli oscuri meandri della linguistica moderna. In tal modo, si potrebbe condurre una discussione a tre. Angus Walters, da Angus Walters.
il giorno 08/12/12
Caro amico Pietro, anch'io, sotto l'anonimato, un paio di volte ho commentato brevemente il tuo blog. Ma ora mi accorgo che non sono l'unico a farlo; e vorrei sapere se il Signor Anonimo che scrive ora e' un linguista di professione, perche' io, non meno di te, sono curioso di sapere se questo Anonimo ha qualche critica da fare sull'impostazione generale della tua teoria della lingua. Io, come sai, non sono un "professionista" in linguistica; ma i miei studi universitari mi hanno inoltrato abbastanza bene negli oscuri meandri della linguistica moderna. In tal modo, si potrebbe condurre una discussione a tre. Angus Walters su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.1 risposte.
il giorno 08/12/12
Gentilissimo Signor Anonimo, innanzi tutto La ringrazio per il Suo apprezzamento della poesia dedicata ad Esenin e del mio lavoro di etimologo. Se Lei non ha rivelato la Sua identità, avrà i suoi buoni motivi anche se un po' però me ne dispiace. Quanto al consiglio di dedicarmi alla poesia non è detto che non lo seguirò, anche perchè penso di aver ormai esaurito il compito di corroborare l'idea che sin dall'inizio mi ero via via formato sulla Lingua: un solo concetto, quello genericissimo di "vita, forza, spinta' è all'origine del vasto oceano rappresentato dalle parole di tutte le lingue dell'uomo. Un'idea che, a mio avviso, è destinata a sconvolgere o raddrizzare gli attuali approcci a diverse discipline, da quella antropologica a quella delle neuroscienze cognitive. Questo mi ha spinto ad essere tenace come un mulo nei miei studi, nonostante la sotanziale indifferenza dei linguisti. Cordiali saluti Pietro Maccallini su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.
il giorno 04/12/12
Caro Maccaliini, come ampiamente evidenziato da Suo inno al noto poeta russo qui incluso, Lei non ė solamente un bravissimo etimologo, ma anche un poeta di grande potenziale. Dopo aver seguito e gustato il contenuto del Suo blog, io Le consiglio di dedicarsi alla poesia, piuttosto che alla linguistica, alla quale pochissimi sono gli interessati oggigiorno.   su Cerere, Libero, Libera, antichissime divinità della natura e delle messi. Loro straordinario legame con voci dialettali abruzzesi, sarde e meridionali.

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