La voce lucana bbùvë[1]
corrisponde esattamente a quella di bua,
buva ‘ferita’ presente nei nostri dialetti marsicani nel linguaggio
cosiddetto infantile, usato sia dai bambini che dagli adulti che parlano con
loro. Ad Aielli essa ha il significato di ‘ferita, sfogo’ mentre nei vocabolari
italiani in genere appare col significato di ‘male, dolore, disturbo,
malattia’, il quale ricompare, accanto all’altro, anche nel dialetto del non
lontano paese di Trasacco[2].
I vocabolari,
come al solito, si precipitano a sostenere un’origine onomatopeica della parola
che, secondo il Devoto-Oli, sarebbe addirittura una “onomatopea elementare,
fissata in un mugolio doloroso”: è forse vero che la parola bue, di simile struttura, trae origine dal muggito dell’animale? Chi ci
dà tanta ingiustificata sicurezza? E
così si seppellisce per l’eternità ogni ulteriore riflessione sul termine che
invece ha una forza rivelatrice e rivoluzionaria senza pari, rispetto ai soliti
schemi elaborati dai linguisti. Ripeterò
fino alla nausea che le parole considerate scherzose, infantili, eufemistiche e
quant’altro (come fetta ‘piede’ del post
Il lino delle fate […]) sono
in realtà spessissimo, non il frutto della intenzionalità dell’homo loquens che a volte cercherebbe di
addolcire la pillola o sarebbe in vena di scherzare, ma il risultato involontario di un decadere di quelle
parole dallo status di membri di
diritto del normale linguaggio ufficiale di una comunità, decadenza che può
verificarsi per vari motivi, connessi comunque all’apparizione in quel
linguaggio di termini omosemantici che vi acquistano maggiore influenza e
rispettabilità, e salgono quindi all’apice della gradevolezza, oscurando gli
altri dello stesso significato. I quali, per poter continuare a vivere, si
adattano a svolgere funzioni marginali e particolari nella semiclandestinità,
sperando magari che un colpo di fortuna li riporti un giorno a galla a godere
la piena luce del sole.
Ora, a me
sembra molto chiaro che il significato di ‘eruzione cutanea, sfogo, vescicola’
di lucano bbùvë connette il termine
con la notissima radice di gr. phý-o ‘faccio crescere, creo, sono generato, sono per natura, ecc.’ in
quanto ‘escrescenza, vescicola, eruzione’ che sono tutti concetti affini a
quello fondamentale della radice, la quale indica la ‘forza della natura’ che
dà vita alla vegetazione come attesta anche il gr. phyt-ón ‘vegetale, pianta, albero’ ma anche ‘ creatura, figlio, tumore,
ulcera‘ [3]. Il concetto di “ferita, ulcera” dovrebbe essere
nella fattispecie il risultato di questa forza della natura che erompe
lacerando il tessuto della pelle. Da citare anche il gr. phŷ-ma ‘escrescenza, tumefazione, ascesso’, gr. phý-sis ‘natura, forza della natura, forze’. Secondo i linguisti la radice base di queste
voci sarebbe BHŪ, BHEWĒ : da essa deriverebbero varie
forme verbali come lat. fu-i ‘fui, sono stato’, lat. fi-o ‘divento’, lat. fu-turu(m) ‘futuro’, ingl. to be ‘essere’, ingl. to bu-ild ‘costruire’, danese byld
‘foruncolo’, ted. bau-en ‘costruire,
coltivare’, sscr. bhu ‘essere, far essere’, bháva-ti ‘è, diventa’.
Da questo quadro emerge il fatto che parole in
circolazione in Italia come la citata bua
’ferita’ presentano, tranne quelle latine, la labiale sonora iniziale come
le forme germaniche corrispondenti: ne consegue, quindi, che anche nell’antichità dovettero incontrarsi su suolo italico parole
appartenenti a questa radice ma che
presentavano un trattamento della sonora aspirata iniziale diverso da quello
latino e uguale a quello germanico.
Pertanto sarei propenso a credere, come ho già rilevato nel post
precedente La Madonna della Libera […], che le forme latine in fricativa sorda f- (che secondo la legge di Grimm[4]
sarebbero derivate dall’aspirata originaria bh-)
siano in realtà una sorta di varianti coesistenti con le altre da remotissimo
tempo. Se c’è stata trasformazione, essa è avvenuta veramente in epoche lontanissime
della preistoria. Lo schema della rotazione consonantica (o Lautverschiebung) previsto da quella
legge può a mio parere continuare ad essere considerato valido ma con la
consapevolezza, da parte dello studioso, che non di effettiva trasformazione
consonantica si tratta, bensì di una più normale sostituzione di varianti,
causata forse dalla libera inclinazione di ogni lingua o della parlata delle
classi dominanti ad adottare questa o quella forma omosemantica.
Se ben si
riflette si può capire anche il motivo per cui la voce bua, buva (anche bubù [5]) è
finita nell’ambito del linguaggio bambinesco. In verità essa aveva dato vita
anche a termini col significato di ‘bambino, ragazzo’ come ingl. boy ‘ragazzo’, ted. Bube ‘ragazzo’, allo stesso modo in cui
la radice greca corrispondente aveva sviluppato, molto naturalmente del resto,
il significato di ‘creatura, essere vivente, figlio’ nel gr. phyt-ón, come abbiamo visto. Ma la cosa è confermata dal composto tautologico
gr. boú-pais ‘giovane fatto’, in cui, come ho
più volte mostrato in altri casi, i due membri debbono avere lo stesso
significato iniziale. Quindi se -país significa ‘ragazzo, giovane’ l’altro
membro boú- deve significare la
stessa cosa. Questo cosiddetto prefisso bou- che precede anche diversi altri
termini, viene comunemente inteso come rafforzativo con l’idea di “grande,
immenso”, ma che in questo caso esso significhi ‘ragazzo’, cioè un essere in crescita, ce lo conferma
anche, a mio avviso, lo spartano boû-a ‘divisione dei fanciulli
dai sette ai diciotto anni’. La radice
ricompare nell’altro composto tautologico gr. bou-kólos ‘pastore (-kólos)
di buoi (bou-), bifolco’ che
sembra un nome creato apposta per questo tipo di pastore. Ma noi, che non abbocchiamo più a simili
esche, pensiamo che in questo caso bou- non stia per boû-s ‘bue, vacca’ ma contenga dentro di sé lo stesso significato di
ted. bau-en ‘coltivare, costruire’ < a. a.
ted. bu-an ‘coltivare, abitare’, danese bo
‘abitare’, significati che riconducono speditamente a lat. col-ere ‘coltivare, abitare, venerare’ e a –kól-os, 2° membro tautologico del composto. Il significato originario del
composto doveva essere quello generico di ‘coltivatore, allevatore’ ma finì
fatalmente per specializzarsi nel senso di cui sopra, data la presenza in greco
del termine omofono boû-s ‘bove’ che
andava a sovrapporsi al 1° membro, e la scomparsa, nella coscienza del
parlante, del significato originario della radice bou- che è, in questo caso, variante della radice di gr. phý-o sopra analizzata. Anche per il greco, allora, risulta un po’ stretto
lo schema delle trasformazioni consonantiche nelle lingue del gruppo
arioeuropeo, schema che prevede per le labiali sonore aspirate (bh) indoeuropee la trasformazione in
labiali sorde aspirate (ph) per la lingua
greca.
A me sembra
così di poter asserire, limitatamente agli esempi riportati, che forme non
rispondenti ai canoni ufficiali delle trasformazioni consonantiche, fossero presenti,
benchè in fase di decadimento, anche nella lingua greca, e che la loro
coesistenza con le altre forme ufficiali non possa essere messa in dubbio: ciò
toglie ad altre lingue, dove esse ricorrano, la possibilità di rivendicarle
come esclusivamente proprie.
Viva la Libertà !
[1] Cfr. sito web Dizionario di Gallicchio. L’autrice M. G. Balzano lo ha compilato
con professionalità e precisione. Sotto
la voce bbùvë sono elencati degli
esempi da cui si evince che la parola non è affatto bambinesca in quel dialetto, tanto più che la Balzano , solitamente
attenta, non ne evidenzia tale accezione.
[2] Cfr.
Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq 2003, s. v. Da tener
presente anche il lat. boa(m), bova(m),boba(m)
‘serpente boa’ ma anche ‘roseola, eruzione cutanea’; marchigiano (a Fabriano) bo(v)a ‘enfiatura’ (cfr. I dialetti italiani, UTET, Torino 1998).
[3] Cfr. G.Gemoll, Vocabolario greco-italiano, Edizioni R.
Sandron, Firenze, ediz. 23.ma.
[4] La
legge di Grimm riguarda specificamente le presunte trasformazioni in germanico
delle consonanti dell’indo-europeo, ma di riflesso coinvolge anche le
corrispettive trasformazioni in altre lingue del gruppo. Faccio notare che anche in latino ricorrevano
forme in labiale sonora al posto di quelle canoniche in fricativa sorda, come
dimostra la parola boa(m),bova(m),boba(m)
‘roseola’ citata alla nota 2. A
Trasacco si incontrano (Cfr. l’opera di Q. Lucarelli, citato alla nota 2.) fëccùtë e pëccùtë con lo stesso significato di ‘profondo, cupo’.
[5] Cfr. T.
De Mauro, Dizionario della lingua
italiana, Paravia B. Mondadori Editori, Milano 2000. Nell’inglese
dialettale si incontra la voce boo-boo
‘leggera ferita, contusione, graffio’.
Essa viene usata soprattutto
per i bambini, dice il vocab. Merriam-Webster.
Non si esclude del tutto, quindi, un suo uso più generico, confermando
così la mia tesi sull’originaria serietà
di questi termini.
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