Il vocabolo è
considerato di etimologia incerta o addirittura sconosciuta, e non è un caso,
quindi, se su di esso circolano proposte a dir poco fantasiose, anche se
agganciate a qualche dato storico o qualche circostanza particolare che a ben
vedere risultano però poco pertinenti. Qualcuno
ricorre, ad esempio, al nome di Cafo,
genit. Cafonis, centurione di Marco
Antonio più volte citato da Cicerone che avrebbe ottenuto, come veterano di
Cesare, delle terre in Campania in modo poco cristallino e che si distingueva
per i suoi modi non proprio da gentleman.
Il DELI[1] accortamente prende le
distanze da proposte etimologiche del genere e invita a cercare piuttosto nell’ambito dei seguenti termini
meridonali di probabile origine osca: cafà ‘cavare’, cafuni ‘precipizio’, ‘solco profondo’, cafone ‘cavità’ (evidente è il rapporto col lat. cavu(m) ‘cavo, cavità’). Il cafone
potrebbe essere allora il nome osco dello ‘zappaterra’ o estensivamente del
‘contadino’ che inizialmente non aveva nessuna accezione spregiativa. Quando esso fu costretto ai margini della
lingua dai nuovi nomi introdotti dal latino, come colonu(m) ‘colono, contadino’, agricola(m)
‘agricoltore’ ecc., dovette assumere una coloritura di subalternità rispetto
alla nuova lingua dominante, cosa che avviene molto di frequente come ho potuto
constatare nei miei studi, e passo’ a designare magari chi, tra i contadini, si
trovava in un gradino inferiore di povertà e precarietà attirando su di sé
tutti i pregiudizi e le negatività che di solito le classi superiori riservano agli ultimi, che
certamente non possono essere di bell’aspetto, eleganti o di modi raffinati. Alla luce di quanto detto bisognerebbe allora
rovesciare il ragionamento che si fa a proposito del centurione Cafone(m): questo nome personale latino
non può aver dato origine alla voce “cafone” ma semmai essa stessa ha tratto
origine dalla rispettiva voce osca per ‘contadino’.
Nonostante
tutto qualcuno potrebbe pignolescamente ritenere un po’ forzato l’accostamento
tra il concetto di “zappatore” e quello di “scavatore”, ma in questo caso è la
nostra mentalità moderna, sempre più analitica e specialistica, a crearci
qualche problema semantico che sfuma come neve al sole se consideriamo, ad
esempio, i significati di lat. fod-ere
che sono quelli di ‘scavare’ e di ‘zappare’, ripetuti nel lat. fossore(m) ‘zappatore, aratore,
becchino’. Anche il greco, del resto, ci
offre due voci parallele skaph-éus e skap-an-éus
‘scavatore, contadino’ che onomasiologicamente ci confermano da quale concetto
generico può scaturire quello di “contadino”, cioè da quello espresso, appunto,
dal gr. skáp-to ‘io scavo’,
identico a quello della radice caf-
di caf-one: si potrebbe sostenere che la
radice caf- sia la stessa di
(s)kap-
ma non è necessario farlo. Francamente
non capisco la proposta, avanzata anche da linguisti famosi[2], che
consiste nel chiamare in ballo una pronuncia dialettale osca di lat. cab-o, genit. cab-onis ‘cavallo castrato’ incrociatosi, a loro dire, con lat. cap-o, genit. cap-onis ‘cappone’. Ma dove andrebbe a parare una simile supposizione?
L’idea del “cavallo castrato” dovrebbe forse metaforicamente suscitare
quella di “cafone”? Mah!!! La verità è
che, quando non si hanno tra le mani radici credibili, si va a pascolare abusivamente
in prati rigogliosi di fantasia!
Piuttosto, suscita qualche interesse l’annotazione, presente anche nel
DELI, che Devoto fa collegando le due parole al verbo greco kóp-to ‘io colpisco, taglio’ visto che esse
indicano due animali castrati, e rafforzando
così l’etimo dato per il termine meridionale cafà ‘scavare, cavare’ e gli altri sopra elencati, tutti
formalmente simili alle due parole di cui si parla. Ne deriva che l’idea di “cavità, fosso, solco”
è una diretta emanazione di quella di “colpire, tagliare, penetrare” che sta
dietro anche a quella di ‘zappare’.
Nel dialetto di
Trasacco[3]
ricorre, accanto alla voce caf-onë, quella di caf-órchië dal medesimo significato.
Ora, il termine simile caf-úrchië, sempre a Trasacco, significa ‘divisorio di canne o frascame
che nella stalla delimita uno spazio dove tener separati, per il divezzamento,
agnellini e capretti’. Ad Aielli il caf-úrchjë non era altro che un cestone di vimini che solitamente
veniva rovesciato su un agnello o capretto per immobilizzarlo e farlo
ingrassare. La voce si ripresenta anche
nel Vocabolario Abruzzese del Bielli[4] col
significato di ‘buco, caverna, bugigattolo’: risulta a questo punto chiaro che
il significato generico della parola doveva essere quello di ‘cavità’ e si riconferma, così, lo stretto rapporto,
più sopra evidenziato, tra il concetto di “cavità” e quello di ‘zappatore,
coltivatore’. Un uguale intimo rapporto è attestato, ancora, tra i due termini
italiano-dialettali di gravina ’piccone
a zappa’ e di gravina ‘vallone,
crepaccio’[5]. Con
caf-úrchjë si ha, a mio avviso, un
composto tautologico (i linguisti li hanno pochissimo studiati) in cui anche il
secondo membro –úrchjë può nascondere
i due significati fondamentali, uno di ‘cavità’ (cfr. lat. orc-am ‘grosso recipiente’, da accostare al gr. hýrkhe ‘vaso, orcio; lat.
urce-um ‘orcio’; lat. orc-ulam ‘orciuolo’ che dovrebbe essere all’origine di -urchjë) e l’altro di ‘pressione, colpo,
taglio’ del lat. urg-ere ‘incalzare, premere, schiacciare’ la cui forza (cfr. sscr. urjà-s
‘pieno di forza’) si ripresenta, a mio parere, nel gr. org-é ‘impulso, istinto,
eccitazione, furore’, nonché nel gr. (w)é rg-on ‘lavoro, opera, occupazione, fatica, ecc,’, ingl. work ‘lavoro’ e in altre diverse parole
germaniche che presentano una radice variamente alternante werg-, wrek-.
E’ appena il
caso di far notare che il termine caf-one, nel significato di
‘contadino’, si allinea per la componente –one, con i numerosi nomi latini
come capo, cap-onis ‘cappone’; glutto, glutt-onis ‘ghiottone’; lurco, lurc-onis ‘ingordo’; ganeo, gane-onis
‘crapulone’, vespillo, vespill-onis
‘becchino’ ecc. Questa componente –one rispunta in vari termini italiani,
con varie sfumature di significato, compreso quella accrescitiva e
peggiorativa. La proposta etimologica
che segue le orme dello scomparso semitologo Giovanni Semerano e che fa
derivare il termine da accadico kabû
‘stalla’ e accadico enu
‘signore’ (caf-one= signore della stalla o degli armenti) è a mio avviso da
scartare per vari motivi non ultimo quello rappresentato dal fatto che l’etimo
che abbiamo sopra individuato indica molto più direttamente il referente: il cafone non è tanto un ‘signore di
armenti’ quanto un ‘contadino, un lavoratore della terra, uno zappaterra’.
I cafoni di Silone possono quindi fregiarsi
orgogliosamente di questo blasone di genuina nobiltà del loro nome che ne
rivendica l’origine di forti e degni lavoratori della terra, rispettati dalle
comunità contadine dei primordi, prima che la loro condizione venisse
considerata inferiore e spregevole dai soliti ceti emergenti della società, magari
altezzosi e abili nel raggiro, che ben spesso lucravano parassitariamente sulla
loro fatica. Ahimè!!! nonostante le
condizioni e i tempi molto mutati, la storia umana mi pare amaramente ripetersi,
stante oggi, a fronte dell’impotenza angosciosa e disorientata della gente
comune, la voracità oscena e mai sazia di parte considerevole degli attuali ceti
dirigenti, in specie di quello costituito dal variegato becerume politico e
parapolitico di basso profilo morale che brulica sempre più numeroso e spudorato
nei nostri paesi e città, impaziente di imbrattare, coi suoi pasti immondi, la
bella provincia italiana, e che, dietro la cortina fumogena delle parole passe-partout
di democrazia equità giustizia con i
loro annessi e connessi, di cui si riempie la bocca incontenibile nella foga
logorroica dello stereotipato politichese del momento, è compulsivamente
intento, senza coscienza alcuna da parte sua e senza più speranza dalla nostra,
alla rapina occhiuta del bene comune. Senza speranza, dicevo, perché le orde di politicanti
calano nella bella Italia non già dalla luna ma ogni giorno, come api
bottinatrici, sciamano dalle nostre case dove la sera rientrano carichi di
glorie furfantesche all’abbraccio amorevole e complice dei propri famigliari.
Solo ahimè i popoli nordici, in specie scandinavi,
sembrano essere immuni o perlomeno poco attaccabili dalla vecchia tabe che
imputridisce la vita pubblica degli altri.
Per essi, tanto tempo fa, scrissi questa poesia.
L’amore di una terra
Non so
da quali lontananze
dello spirito
mi tormenta la nostalgia
d’una terra
che non ho mai
vista
e che mi sembra di conoscere
come le quattro rocce
del mio paese;
il desiderio di una terra
tuffata in acque gelide,
della nordica Scandinavia
dai magici villaggi
avvolti nella neve,
dai piani bianchi e desolati,
e le fiancate di monti
irti di pini irrigiditi,
sotto un freddo cielo triste
come la mia anima.
Mi piacerebbe vivere
in mezzo a voi
popoli della Norvegia e della Svezia,
discreti e silenziosi
come la neve che vi circonda,
scoprirmi figlio
d'una patria comune.
come le quattro rocce
del mio paese;
il desiderio di una terra
tuffata in acque gelide,
della nordica Scandinavia
dai magici villaggi
avvolti nella neve,
dai piani bianchi e desolati,
e le fiancate di monti
irti di pini irrigiditi,
sotto un freddo cielo triste
come la mia anima.
Mi piacerebbe vivere
in mezzo a voi
popoli della Norvegia e della Svezia,
discreti e silenziosi
come la neve che vi circonda,
scoprirmi figlio
d'una patria comune.
[1] Acronimo di Dizionario Etimologico della Lingua Italiana
di M. Cortelazzo e P. Zolli, Zanichelli editore 2004, Bologna.
[2] Cfr. G. Devoto, Dizionario Etimologico, Edizione CDE
spa 1984, Milano.
[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo 2003,
Avezzano-Aq.
[4] Cfr. D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Adelmo Polla
Editore 2004, Cerchio-Aq.
[5] Il
termine it. gravina ‘piccone a zappa’
nel dialetto del mio paese di Aielli è in realtà sinonimo meno usato di picchë ‘piccone’. La gravina
‘vallone, burrone’ rimanda al pugliese grava
‘inghiottitoio’ dei terreni calcarei delle Murge. I linguisti rinviano questa voce ad una non
meglio identificata radice prelatina. A
me pare innegabile anche il rapporto col ted. Grab ‘tomba’, ted. grab-en ‘scavare, incidere, intagliare’, ingl. grave ‘tomba, fosso’, ecc. Il dialettale trentino veneto friulano grava (cfr. Cortelazzo-Marcato I dialetti italiani, UTET, 1998) ‘ghiaia,
ghiaieto’, laziale rava ‘grossa
pietra’, abruzzese gravare ‘brecciaio
nei canali montani’, abr. gravate, ravate
(vocab. del Bielli) ’materiale
sassoso e ghiaioso portato dalle acque che scendono dai monti’, aiellese rava ‘grossa pietra, roccia’ sono voci
che, anch’esse, attingono al concetto di “cavità”, espresso qui da quello affine di ‘rotondità’
come ho spiegato nell’articolo I Ciclopi
e il concetto di rotondità del giugno 2009, presente nel mio blog di Meditazioni linguistiche. Anche un buco, una fessura rientrano nel concetto più vasto di “cavità”. L’abr. grav-ïule ‘viticci della vite’ ma anche
‘ravioli’ fa piena luce sull’etimo di quest’ultima parola considerata
addirittura di origine oscura dal DELI.
I due significati attingono a piene mani al concetto di “avvolgimento,
involto, involucro”, altro tipo di “rotondità” se non si vuole chiamare in
ballo anche il lat. grav-idu(m) ‘carico,
pieno, pesante, pregno, rigonfio’ con riferimento ai vari ingredienti con cui i
ravioli si riempiono e rigonfiano.
Oppure si possono vedere i ravioli sotto l’aspetto del corpo, corpuscolo, tocco, piccola massa ecc. che è la stessa
cosa. In effetti l’abr. grav-ïule ’ravioli’ sopra citato si presenta
come diminutivo di grava ‘pietra,
ghiaia’ o del termine della fisica grave
‘corpo soggetto a gravità’. Gli altri
nomi con cui si indicano i ravioli o simili prodotti culinari in varie parti
d’Italia confermano la tendenza a nominarli per quello che sono:
sostanzialmente rotondità, appunto, rigonfiamenti. In Piemonte si hanno gli agnolotti o agnellotti, nomi vicini a quello di anolini nel Piacentino che rimanda al lat. anulu(m) ‘anello’ con pronuncia palatale della nasale –n-, in Liguria si hanno i pansoti o pansotti dal dialettale pansa
‘pancia’, in Emilia e Lombardia ci sono i tortelli
che diventano tordelli nella
Toscana settentrionale. Il cremonese mar-ubino deve quindi fare i conti con la radice prelatina mar-, marr-
‘pietra’ da cui it. marrone
‘castagna’, abruzz. marrë ‘noce
grossa con cui si tira alle cappe, nel gioco del nocino’, abruzz. marrë
‘interiora di agnello avvolte negli intestini’, sicil. (a Gela-Cl) marr-éddra ‘matassa, complotto, fatto
intricato’ e marr-iddru
‘imbroglio’.
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