sabato 13 dicembre 2014

La parola "omertà"



                                                                                     

    Anche per questo termine  la linguistica mi pare annaspare miseramente nella ricerca di un etimo accettabile.  Le proposte principali oscillano tra una pronuncia napoletana di it. umiltà (omertà), intesa come soggezione supina di affiliati ad una associazione mafiosa che eseguono senza batter ciglio i dettami criminosi  imposti dai capi e un presunto comportamento da veri uomini d’onore degli stessi (dal sicil. omu ‘uomo’, attraverso lo spagn. ant. hombredad ‘virilità’, da hombre ‘uomo’) dinanzi a simili efferatezze.  Il comportamento omertoso si estende poi alla società tutta costretta a vivere in ambienti fortemente inquinati da queste associazioni, pronte a punire selvaggiamente chiunque si azzardi a denunciare i loro affiliati o addirittura solo a parlarne con mancanza di rispetto.  Sicchè, quando succede un misfatto di matrice mafiosa, non si trovano solitamente testimoni: nessuno ha visto, nessuno ha udito, nessuno era presente. L’omertà è dunque una sorta di vincolo ermetico di solidarietà non solo tra associazione mafiosa e affiliati ma anche tra società civile e mafiosi.  

   Anche in questo caso l’errore a mio avviso scaturisce dal limitarsi al latino o addirittura all’italiano nella individuazione di una radice etimologica.  Che i due etimi proposti siano errati ce lo suggerisce anche il fatto che essi  fanno riferimento  a concetti in fondo estranei al fenomeno che si vuole indicare: quello dello stretto legame (o piuttosto sudditanza) tra i membri dell’associazione e i capi nonché quello indotto tra la società civile ed i malavitosi che però è appunto un sottoprodotto dell’esistenza nel territorio di simili associazioni. Secondo il mio metodo etimologico, ormai convalidato da moltissimi esempi, una parola deve invece indicare direttamente il referente o il concetto fondamentale di cui è portatrice.

   Nell’articolo Il “municipio” ovvero il concetto di “unità”[] del mio blog (apr.2014) abbiamo già incontrato la parola greca hóm-ēr-os[1] ‘unito, marito, moglie, pegno, ostaggio’ collegabile col gr. ṓm-er-os ‘spalla, omero’ (lat. humerum, umerum ’spalla’) in quanto ‘articolazione, connessione’ e quindi ‘unione, associazione, solidarietà’.  Pertanto il meridionale omertà si inserisce alla perfezione in questa serie, supponendo come precedente immediato di esso un sostantivo latino in –itas, gen. –itatis, la cui radice veniva comunque da lontano, come *omer-(i)tas, *omer-(i)tatis uguale a tanti altri che hanno dato come esito, in italiano, forme tronche in –(i)tà quali sever-ità, pover-tà, car-ità, ecc. ecc. Il concetto di “omertà” non sarebbe dunque altro che lo stretto legame che unisce i membri di un’associazione qualsiasi e, nel caso specifico, dell’associazione a scopi criminali di cui abbiamo parlato.  In ultima analisi, poi, sia l’idea di “associazione” sia quella di “nodo, stretto legame” che si estrinseca, nel caso specifico, nei modi di cieca subordinazione degli affiliati ai loro capi, finiscono col combaciare perfettamente. A monte delle parole c’è sempre un’idea generica che poi si specializza ad indicare questo o quel referente con caratteristiche spicciole non combacianti. Così stando le cose, potevamo risparmiarci la fatica (per me comunque piacevole) di andare a trovare l’etimo della voce omertà di origine meridionale: come ho più volte ricordato, esso ce lo offre gratuitamente la parola stessa, una volta definito l’esatto suo significato spogliato di tutti gli accidenti, operazione talvolta non facile, per la verità.  La radice  da rintracciare come etimo, deve avere comunque quel significato.  In questo modo il lavoro dell’etimologo diventa veramente un’operazione fruttuosa e scientifica che finalmente può aspirare a fare piazza pulita dei mille tentennamenti cui egli attualmente è costretto, non possedendo sostanzialmente nessuna bussola orientativa, fatto che lo costringe a navigare a naso e lo fa finire quasi sempre nelle fauci immense dell’aleatorietà nel mare magnum delle lingue.  Il rasoio di Occam, principio fondamentale della scienza, sfoltisce le ipotesi inutili e pletoriche anche in linguistica. Mi auguro che una nuova epoca si schiuda per la Linguistica, scienza che porterà una viva luce a tutte le lingue e a tanti fenomeni anche extralinguistici, dando così il via ad un nuovo umanesimo.  
   
    A conclusione di questo articoletto vorrei puntare l’attenzione su uno dei significati specifici assunti in greco dal termine suddetto hóm-ēr-os, cioè ‘marito, moglie’.  Il lat. mar-itu(m) ‘marito’ viene dai linguisti messo in relazione con lat. mas, maris ‘maschio’ ma, secondo i canoni della mia linguistica poco fa ricordati, questo è errato perché il concetto di fondo di “marito” è in rapporto, più che con il maschio, con quello di “legame, connessione, ecc.” in quanto il marito è tale solo se visto affianco di una moglie non se è un maschio, che può essere anche scapolo.  Una volta stabilito ciò è facile rapportare il lat. mar-itu(m) ‘marito’ alla serie numerosa di radici cui appartiene anche il m.oland. mar-en, mer-en ‘annodare, ormeggiare’, ingl. moor ‘ormeggiare’[2]. Ma che il marito facesse capo a una realtà diversa da quella di maschio ci era suggerito già dall’espressione italiana, di ascendenza comunque latina, maritare le viti (agli olmi, pioppi, ecc.) con cui si intende ‘collegare le viti a queste piante’: l’espressione non è una metafora da marito come tradizionalmente si pensa, ma, semmai, sarebbe il marito a derivare da questa espressione, nel senso che egli è un uomo  legato alla sua con-sorte.  Quest’ultimo termine, inoltre, viene inteso, a mio avviso erroneamente,  come ‘(colui) che ha la stessa sorte (lat. sort-em ‘sorte’)’ quando invece a me pare evidente che il/la consorte è semplicemente il coniuge legato, appunto, all’altro come vuole l’etimo che rimanda al lat. con-iung-ere ‘congiungere’.  Pertanto io vedrei il lat. con-sort-em come ‘colui/colei che partecipa di un insieme’ costituito qui dalla coppia di coniugi.  Il verbo di riferimento deve essere il lat. con-ser-ere ‘intrecciare’.  Il lat. sors, sort-is ‘sorte, estrazione a sorte, ecc.’ indicava la verghetta di legno che, mescolata insieme ad altre, componeva un insieme da interpretare di volta in volta in modi diversi. Anche il lat. seri-e(m) ‘serie, fila’  che deve essere messo in rapporto con lat. sort-em, costituisce un insieme di elementi allineati, appunto.  Il lat. con-sort-em significava talora anche sorella (lat. sor-or ‘sorella’) per cui i due termini dovrebbero essere a mio parere equivalenti, sicchè l’etimo usuale di lat. sor-or-e(m) che accomuna il termine all’ingl. sister’sorella’, ted. Schwester ‘sorella’ non mi pare adeguato[3].

   E il maritozzo, il noto dolce romano, cosa potrebbe entrarci con la radice di marito? E’ molto semplice a mio avviso rispondere a questa domanda.  Il dolce in questione, per lo più di forma ovale, è inciso profondamente in senso longitudinale, sì da dividersi in due parti, quasi due valve di un tutto riempite di panna. Le due valve non sono altro che una coppia come quella maritale, cioè, etimologicamente, un legame matrimoniale!  Ma non ci giurerei che il dolce fosse stato creato nella lontana antichità apposta per il matrimonio.  Esso poteva avere già una vita autonoma col significato, appunto, di coppia di fette di pane  (farcita con panna).


                        Sors tibi prospera sit, scriptum meum! ( La sorte ti sia prospera, articolo mio!)
   
  
  
   
    



[1] Per l’etimo dei due componenti tautologici della parola rimando al suddetto articolo.

[2] Cfr. l’articolo del mio blog Il termine “armento” [] (marzo 2014).

[3] Questi due termini germanici sono più vicini a voci come quelle del dialetto di Trasacco-Aq susta e sùstalë. Il primo significa ‘spilla pettorale o fermaglio che le donne d’altri tempi usavano portare sulla camicia’, il secondo significa ‘tassello di ferro che mantiene due assi unite e aderenti in modo che non si stacchino’ (cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003). A Rocca di Botte-Aq susta significa ‘robusta corda usata dai carrettieri per sostenere il carico’ (cfr. M. Marzolini, “… me ‘nténni?”, Arti Grafiche Tofani, Alatri 1995). A Gallicchio-Pz sustë vale ‘bordo della manica’ perché esso è caratterizzato dal rafforzamento del tessuto mediante ripiegamento e cucitura dello stesso(cfr. Dialetto di Gallicchio online).  Il significato di fondo è quindi quello di ‘stretto legame, connessione, solidità, ecc.’, significato che, come abbiamo visto, può designare sorelle e coniugi in genere, attraverso il valore di ‘legame’.  Susta  ha anche il significato di ‘alterigia, spocchia’, atteggiamento di chi cammina impettito, rigido e tutto d’un pezzo, come fosse il suo corpo sostenuto da verghe di legno o ferro.  Mi pare che dietro queste parole si possano individuare voci greche simili a sy-stás (ampélōn) ‘insieme di viti’, a sy-stéll-ein ‘stringere insieme’, a sy-stolé ‘restringimento, sistole’ o anche sy-ster-iz-ein ‘consolidare, fissare’. L’ingl. sister-ing significa ‘contiguo’. L’it. sosta potrebbe suggerire che il lat. sub-stare ‘stare sotto’ e ‘tener duro, saldo’ sia in realtà reinterpretazione di precedente voce greca proveniente dal verbo  syn-íste-mai (come la precedente sy-stás) che, tra l’altro, significa anche ‘mi fermo’.

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