Scommetto che pochi conosceranno
questa parola di rarissimo uso che pure è registrata dai migliori vocabolari
italiani. Io stesso, che ho una certa età, ne ho avuto notizia solo lo scorso
anno da un amico più anziano di me di una decina d’anni il quale, non ricordo
per quale motivo, mi parlò di quell’attrezzo che usavano i calzolai d’un tempo
per levigare la suola delle scarpe, chiamato in dialetto bësèculë. Si tratta
di un pezzo di legno durissimo (in genere il bosso) foggiato, in un lato, a mo’
di punta a sezione triangolare per smussare e lisciare i diversi strati di cuoio
del tacco e, nel lato opposto, fornito di una scanalatura profonda pochi
millimetri, entro la quale si inseriva l’orlo della suola della pianta, per la
levigatura e il pareggiamento delle irregolarità ed asperità lasciate dal
taglio della stessa. Ne esistevano
esemplari di altra foggia, anche in metallo.
Ora, come esempio di etimologia popolare (sempre attiva nell’intorbidare
l’acqua pura della sorgente a mano a mano che ci si allontana nel tempo e nello
spazio da essa), può valere ciò che il mio amico, digiuno di linguistica, mi
proponeva per spiegare l’origine del nome dello strumento. Secondo quello che la
parola stessa sembrava chiaramente proclamare, il nome doveva essere derivato —lui sosteneva— dal fatto che il legno dello strumento era duro e vecchio di secoli (bë-sèculë),
come quello della quercia! Questa che è un’ingenuità
interpretativa del mio amico ignaro di linguistica, il quale si aggrappava evidentemente a quello che la parola in
superficie gli offriva, non è nella sostanza molto diversa,però, dall’ingenuità
in cui spessissimo, in questi casi, cadono anche linguisti famosi. L’attrezzo in questione è noto infatti anche
con il nome di bossetto che i
linguisti collegano, sia pure dubitativamente, al nome della pianta del bosso, perché lo strumento è fatto
spesso di quel legno. Vedremo più sotto che
le cose stanno ben diversamente. Questo ragionamento, al pari di quello del mio
amico, ha a mio avviso un vizio di fondo che risulta letale per quasi tutte le
etimologie: esso cerca di raggiungere l’obbiettivo non in maniera diretta, ma accontentandosi
di termini che hanno solo un qualche rapporto di vicinanza o contiguità con la
parola di cui si cerca l’etimo, il quale deve invece indicare sempre la natura
essenziale propria dell’oggetto o del concetto da essa designati. I linguisti, d’altronde, che meglio di me
conoscono la figura retorica della metonimia o della sineddoche, a questo punto
(ammesso che si degnino di prendermi in considerazione) farebbero compatti una
levata di scudi, sciorinandomi di fronte esempi a iosa in cui, nel linguaggio
poetico ma anche in quello prosastico, le cose e i concetti vengono nominati in maniera indiretta, attraverso
termini contigui a quello proprio. Un esempio per tutti: ferro, usato letterariamente nel senso di ‘arma da taglio, spada’ perché
questa è costituita da tale materia. Ed
è tutto vero, ma sta di fatto, per converso, che i numerosi casi da me
analizzati, nei miei articoli (circa centoventi) e nelle mie altre
pubblicazioni, smentiscono la metonimia e la metafora in genere come fonte di
etimologia. Le due entità, quella
metaforica e quella etimologica, sono sostanzialmente diverse tra di loro anche
se esse si incrociano spesso e convivono
alla grande: come in una moderna coppia dalle larghe vedute i partner non
lottano per sopraffarsi a vicenda ed instaurare al loro interno un rapporto
univoco sovrano-suddito, ma, nonostante le interferenze incresciose della
convivenza, rispettano ciascuno l’inalienabile individualità ed indipendenza
dell’altro. In soldoni, la metafora
scaturisce da un’esigenza sua propria, un po’ giocosa e poetica, che non
monopolizza affatto, però, lo spazio e il comportamento dell’austera e discreta
etimologia. La quale, quando fa valere i suoi diritti perché un po’ infastidita
dall’invadenza dell’altra, ne provoca un rispettoso arretramento. Tutto sta, da
parte dell’etimologo, nell’essere consapevole di questo gioco un po’ ambiguo
delle parti e nell’essere convinto che non si può avvalorare mai un etimo
basato solo sulla metafora.
Il biségolo, attestato ampiamente in vari dialetti italiani,
settentrionali, centrali e meridionali, viene riportato dai linguisti ad un
latino volgare *biseculu(m) e
spiegato solitamente come composto di bi-
(due, doppio) e –seculu(m) dal
verbo lat. sec-are ‘segare,
tagliare, graffiare, lacerare’, in riferimento forse ai due bordi abradenti
della scanalatura di cui si è detto o anche ai due lati dell’attrezzo nel suo
complesso, atti a levigare. Ma, stando a
quanto ho spiegato sopra, questo metodo interpretativo non fa che girare a
vuoto, a mio parere, perdendo di vista il nucleo semantico centrale della
parola (il quale è giocato tutto sull’idea di “tagliare, raschiare”) e
lasciandosi attrarre da particolari
più o meno importanti dell’oggetto che essa designa, anche se sono proprio essi,
in questo caso, a svolgere la funzione di tagliare e levigare. Cerco di spiegare meglio la sottile, ma
importante, differenza. In altri termini, dietro la parola biségolo, bisogna assolutamente scovare il significato generico di
‘tagliatore, raspa, lima, levigatore’ o qualcosa di equivalente, e non quello iperspecializzato
di ‘oggetto che ha due lati atti a
tagliare’ come fanno i linguisti i quali, anche per questo etimo, si fanno
ingannare dai significati di superficie della parola allo stesso modo in cui ho
detto che è avvenuto per bossetto, di
cui darò la spiegazione più sotto: come si può vedere, i significati contigui a
quello vero, che giace al fondo e che spesso è scomparso dall’orizzonte
lessicale del parlante, sono una vera peste per il povero etimologo!
Ora, se si rimane nell’ambito del latino come solitamente si fa in
questi casi, non si uscirà, credo, dal circolo vizioso delle spiegazioni indirette
e lambiccate che finiscono col mancare il bersaglio. C’è infatti la proposta di un etimo come il
lat. *bis-acutu(m) ‘due volte acuto’
che, oltre ad essere inaccettabile per motivi fonetici, presenta le stesse
fragili caratteristiche strutturali dell’ipotesi precedente. E’ il greco, secondo me, che invece può darci
una mano in tal senso, visto che esso era diffuso ampiamente anche nell’Italia
centro-settentrionale, non solo come sporadico e pallido riflesso della lingua
della Magna Grecia, ma come idioma usato correntemente da popolazioni italiche a
partire almeno dalla metà del II millennio a.C.[1]. In questa lingua, infatti, si incontra il
verbo psékh-ein ‘lisciare,
sfregare, strigliare’ col sostantivo psék-tra ‘striglia’, agg. verbale psék-t-ós ‘raso’. Il nome del nostro attrezzo in àpulo-barese
(Corato) suona pësèculë, in bitontino
pësìquë che forse rispecchia la forma
originaria greca del termine, da intendere come un sostantivo della 2° decl.
masch. *psêk-os ‘striglia,
lisciatoio’ oppure neutro *psêkh-on, basati sulla radice del verbo suddetto psékh-ein ‘stropicciare, lisciare’.
C’è da sottolineare l’uso della sorda iniziale /p/ al posto della sonora
/b/ presente al centro-settentrione d’Italia, che è da ritenere come secondaria rispetto all’altra, e caratteristica proprio delle parlate
settentrionali. E’ nota, poi, la difficoltà che talune persone, soprattutto
meridionali (Sicilia, Calabria), mostrano nel pronunciare il nesso /ps/ tanto
che esse introducono sempre una /i/ eufonica tra l’una e l’altra consonante. Caratteristica, questa, che sarà vecchia
quanto il cucco (come quasi tutto nella Lingua) ed è senz’altro riflessa nelle
forme pugliesi sopra citate del termine biségolo
come pure in quelle centro-settentrionali[2].
Ora, come ho in parte accennato prima, il nostro arnese è noto anche con
i termini bossetto (bussetto)
oppure bossola (bussola) che apparentemente aprirebbero
un capitolo del tutto diverso da quello cui appartiene biségolo, ma non è così. C’è intanto da specificare che bossola vale propriamente ‘spazzola dura
per strigliare i cavalli’ o ‘spazzola (in genere)’: il significato di fondo dei
due oggetti riconduce sempre, però, a quello di ‘lisciare, graffiare’. L’it. bosso (pianta e legno) viene, come è
noto, dal lat. buxu(m) ‘bosso’, a sua
volta dal gr. pýks-os ‘bosso’. Ma il bosso che c’entra con questi attrezzi?
Non si vuole mica cadere nell’errore, di cui si è parlato all’inizio, di
considerarlo risolutivo per l’etimologia di questi termini in base alla
speciosa considerazione che gli oggetti da essi indicati sono spesso fatti di
legno di bosso? No!!!, e ognuno può
vedere che attraverso una semplice, normale metatesi della fricativa /s/ questo
termine pýks-os
‘bosso’ può diventare *psýk-os similissimo alla forma bitontina pësìquë ‘biségolo’ sopra citata. Con la scomparsa dal
lessico delle parlate italiche della radice primitiva del verbo gr. psékh-ein ‘stropicciare’ il destino di
questi termini, che la contenevano e che
comunque sopravvissero, era in parte segnato. Nel senso che essi potevano
finire facilmente col confondersi con forme metatetiche del termine pýks-os ‘bosso’ e, poi, uniformarsi del
tutto alle forme non metatetiche bosso, boss-etto, boss-ola prevalse in
italiano.
Nonostante la praticabilità del percorso sopra indicato per arrivare agli
it. bossetto
’biségolo’ e bossola ’spazzola
per cavalli’ se ne può individuare un
altro molto più semplice e diretto e, pertanto, più attendibile. Anche in greco
si incontra la radice di lat. pug-na(m)’battaglia’, lat. pug-nu(m) ’pugno’, pug-il-e(m) ‘pugile’, pung-ere ‘pungere, affliggere, punzecchiare’
che, senza infisso nasale e con raddoppiamento, forma il perfetto lat. pu-pŭg-i
‘punsi’, col valore fondamentale di ‘colpire’ e quindi ‘ferire,tagliare,
lacerare’. In effetti in greco si ha
l’avverbio pýks ‘col pugno’ e alcuni termini che fanno supporre per questa
radice il valore di ‘punta, spina’ come il composto pyks-ákantha ‘pissacanta’, una sorta di pianta spinosa del genere Lycium, come proclama a gran voce la 2°
componente -ákantha ‘spina, pruno, acanto,
cardo, spina dorsale’ e come deve riconfermare, secondo i canoni della
ripetizione tautologica, anche la 1° componente pyks- identica
formalmente alla radice di gr. pýks-os ‘bosso’, la quale ultima dovrebbe attingere al significato
generico di ‘escrescenza, vegetazione, punta’ imparentato col precedente[3]. In una iscrizione pýksi-on significa addirittura ‘sezione’, termine il cui etimo, come è noto, è quello del lat. sec-are ‘segare, tagliare, lacerare’. Il verbo pykso-graphé-ein ‘scrivere o disegnare su tavoletta
di bosso’[4] doveva significare
in realtà all’origine solo ‘scrivere, disegnare’ o, meglio, ‘incidere,
graffiare (cfr. gr. graph-ein ‘incidere,
scrivere; gr. graphí-on= stilo)’,
sempre secondo la legge tautologica, un pilastro fondamentale della mia
linguistica. Addirittura in inglese la
voce box,
che ha diversi significati particolari ruotanti intorno a quello di ‘cavità,
scatola,cabina’(cfr. anche ted. Bϋchse ‘bossolo,barattolo,scatola’, gr. pýks-is ‘pisside —contenitore delle ostie—’;
it. bossolo,it.
bussola,
it. bussolotto,
ecc.) presenta anche il significato agrario
di ‘incisione’ con relativo verbo, come nella frase to box a tree ‘incidere
un albero (tree)’, per raccoglierne
la linfa. Sicchè l’espressione ingl. letter box, nel significato di ‘buca delle lettere’, non deve essere ragionevolmente
considerata variante per sineddoche (indicando la parte, cioè la buca[5],
per il tutto, cioè la cassetta)
dell’altra espressione formalmente identica letter
box ‘cassetta delle lettere’. Allora bisogna anche ricavarne l’importante deduzione che questa parola box
‘incisione’ insieme al ted. Bock ‘aculeo’ e a quelle italiane
con significato simile (bossetto=biségolo; bossola=spazzola
dura per cavalli) non hanno dovuto attendere il greco storico (dove questo
significato di ‘incisione’ si trovava solo nascosto dietro alcune espressioni,
come abbiamo visto, perché nel frattempo caduto dall’uso) per entrare nel
patrimonio linguistico dei Britanni e degli Italici! E’ al 2° millennio a.C.,
come minimo, che esse rimandano! Mi
accorgo solo ora che esistono anche i verbi sicil. ausciari e calbr. vusciare
‘piallare, lisciare, levigare’[6] che i
linguisti naturalmente continuano ad agganciare al lat. buxu(m)’bosso’, anzi, alla forma aggettivale supposta nel latino
parlato buxĕu(m) ‘di bosso’, in
quanto questi lisciatoi sarebbero stati di legno di bosso![7]
Almeno per il termine liscia-pianta
(altro nome del biségolo) saremo però costretti ad arrenderci —penserà
qualcuno—all’etimologia di chi ha occhi miopi e vede pertanto solo le cose
vicine? Ma nemmeno per sogno! Che bella denominazione precisa precisa —saremmo
tentati di esclamare— col suo mettere in evidenza la pianta delle scarpe (trascurando però indebitamente il tacco) sui
cui bordi si esercita l’azione abrasiva e livellatrice dello strumento! Dietro però la componente –pianta < lat. plant-a(m) io vedrei una forma della radice del lat. bland-iri ‘carezzare, lisciare’,
reinterpretata dall’etimologia popolare. Così ogni cosa torna al suo posto
perché i nomi degli oggetti antichi solitamente vengono da molto lontano e
mostrano spesso componenti tautologiche, anche quando sembrano creati ieri
l’altro, ad uso e consumo di noi distratti e frettolosi fruitori allettati
dalle superficialità. Il nome riacquista
il suo spessore plurimillenario, se si punta lo sguardo non alla pianta della scarpa ma alla funzione
generica del lisciare, confricare, utile all’uomo già quando era ancora in
Africa nella Rift Valley (oltre
100mila anni fa) e sicuramente faceva a meno delle scarpe. Raschiatoi preistorici
di pietra furono invece usati da lui per tutto il Paleolitico e Neolitico.
Molto probabilmente, però, c’è una via ancora più diretta e convincente
per estrarre dal temine lat. plant-a(m), che divide ambiguamente il suo significato tra la ‘pianta
del piede’ e la ‘pianta erbacea, arbustiva ed arborea’, anche il significato di
‘incisione, penetrazione’. Ci aiuta
bellamente l’it. pialla dal lat.
volg. *plan-ul-a(m),
diminutivo di lat. plan-a(m) ‘pialla,
ascia’(cfr. ingl. plane ‘pialla’). La
funzione primaria di questo strumento era quella di ‘raschiare, abradere,
incidere’, non quella di ‘spianare, lisciare’ propria del significato
pseudoetimologico del termine. Questo
significato ha finito col prevalere quando il nome, che sicuramente aveva una
storia molto più antica, si è incontrato col lat. plan-u(m) ‘piano’ ed è passato a designare, tra i tanti strumenti atti
ad incidere e raschiare, proprio quello del falegname che nel contempo ‘smussa,
spiana e liscia’. Anche il lat. plant-are ’piantare, trapiantare’(incrociato con lat. plantam ‘pianta’) credo facesse riferimento alla ‘spinta’ con
cui si inseriva o conficcava nel terreno un seme, un germoglio o una piantina
perché si sviluppasse e crescesse, non alla pressione della pianta del piede che accompagnava,
forse, questa operazione[8].
Ho cominciato da un pezzo a dubitare
di riuscire, nonostante le evidenze, a far cambiare idea a quello che definirei
Homo linguisticus, la quintessenza dell’Homo loquens, che però ha mantenute
molte, troppe caratteristiche di quest’ultimo nell’analisi delle parole. L’ingl. box
di cui sopra, ad esempio, significa anche ‘natura della donna’ come il
romanesco bùssëla ‘natura delle
donne’[9] e il
trasaccano bùcia, m. bùcë (buca, buco; natura della donna)[10] che
hanno tutti lo stesso etimo. E’ il
significato autonomo di ‘fessura, incisione’ (d’altronde non molto diverso da
quello di ‘cavità, scatola, cassetta’)
che opera in questi casi, come abbiamo visto. Ma il linguista aguzza gli occhi, vede la fessura della cassetta delle elemosine e,
preso da divina ispirazione, dà il responso che è l’idea di “bussolotto,
cassetta delle elemosine ” (a sua volta rimasta impigliata per sineddoche tra i
rami del bosso!) ad originare qui
quella di “fessura, natura della donna”, tramite evidentemente la figura
della sineddoche. Ma egli mescola il sacro e il profano: ottima
intuizione filosofica, forse, questa di mescolare le due caratteristiche,ma
certamente non linguistica, perché in verità egli qui non compie un vero e
proprio mescolamento ma un banale e stridente accostamento di due entità ritenute
tra loro irriducibili! In effetti il luchese ušèlla ‘ferita, bua (voce infantile)’, variante a mio avviso di
luchese bušèlla ‘gattaiola’[11], variante
a sua volta del trasaccano bùcë ‘buca; natura della donna’ già citato, non è lì, esempio tra i molti, a
smentirlo sonoramente o, per lo meno, a farlo dubitare un po’ delle sue inconcusse
e indiscusse convinzioni? E quando si renderà conto che il concetto di “buco,
fessura” è, nel fondo, equivalente a quello di “cavità,
cassetta,scatola,recipiente” per cui è peccato mortale in linguistica considerarlo secondario e derivato per
sineddoche dalla parola bussolotto, come
in questo caso, di norma esprimente in italiano l’oggetto che sappiamo? Ma nei
dialetti bussola poteva esprimere già
ab initio, come di fatto è avvenuto,
il concetto equipollente di ‘fessura, natura della donna’, senza dover pagare
nessun pedaggio all’altro per poter espletare le sue funzioni. Si frappone dunque alla comprensione di
questa semplice e cristallina verità il pregiudizio, da parte dei linguisti,
che le parole nascono con significati abbastanza circoscritti e ristretti, e che
spessissimo esse fanno sì dei salti semantici notevoli, ma impadronendosi quasi
con l‘inganno, dei significati contigui a quello proprio di ogni termine,
mediante l’uso del linguaggio figurato. Ma così non arriveranno mai a scoprire lo
straordinario ventaglio di significati, che si apriva all’origine a 360° per
ogni parola, ad alcuni dei quali essa, sin dagli inizi, poteva associarsi (indipendentemente dal gioco delle
metonimie, sineddochi e metafore varie), che poi, magari dopo millenni, sarebbero
apparsi non più sovrapponibili, pur provenendo con pari dignità dallo stesso
ceppo originario! E non può essere diversamente finchè la loro mente,
monopolizzata dal significato dei termini cosiddetto proprio, come in questo caso dal
significato di ‘cassetta per le elemosine’ relativamente al significante bussola, non saprà riconoscere (cosa
difficilissima, date le premesse) le altre possibilità semantiche che la parola
aveva prima che essa si installasse da padrona assoluta nella nostra mente con
quel significato principale (e alcuni altri ad esso strettamente connessi),
oscurando tutti i restanti possibili valori originari, i quali però riappaiono
abbastanza spesso qua e là nei dialetti o
in altre lingue. L’uomo moderno, in
conclusione, non riconosce più il significato di ‘fessura, natura della donna’,
espresso in questo caso dal romanesco bùssëla,
come appartenente a buon diritto all’area semantica di bùssëla ‘cassetta (delle elemosine)’ e pertanto crede di essere nel
giusto quando lo ricava per sineddoche da questo. Questi procedimenti metaforici, con cui la
Lingua crede oggi di sfruttare la vicinanza fisica più o meno marcata di due
oggetti o concetti per poterli nominare con un unico termine, sono invece a mio
avviso il segno non più consapevole, da parte nostra, di un’ancestrale e
magmatica con-fusione (non contiguità!) dei significati originari di ogni
parola! Il nostro cervello, ormai,
abituato nel corso di moltissimi millenni dell’Evoluzione, a distinguere separare contrapporre i concetti di cui fa uso, non può
andare oltre il riconoscimento di una contiguità materiale fra gli stessi,
quando essa appare evidente, a meno che l’uomo, mediante intuizione studio
riflessione, non riesca a capovolgere tutto ab
imis, come modestamente credo sia capitato a me. Ciascuno dei significati delle innumerevoli parole
è come un coagulo che ha acquistato individualità e solidità dall’elaborazione
della sostanza originaria comune agli altri, brodo primordiale indistinto di
ogni lingua.
E che dire inoltre del ted. Buch-stabe ’lettera dell’alfabeto’ che studiosi di valore hanno ricondotto, scomodando anche il grande
scrittore latino Tacito[12],
all’uso di incidere le lettere del runico (ma Tacito parla solo di segni), antico alfabeto germanico, su bastoncini (ted. stab ‘bastoncino, bacchetta’) ricavati da ramoscelli di faggio (ted.
Buche ‘faggio’) da cui traevano le
sorti[13] gettandoli
su un drappo bianco; ma Tacito usa solo l’espressione piante fruttifere, categoria in cui potevano rientrare comunque la
quercia, il faggio, il nocciòlo, piante adatte a quelle latitudini, e che
producevano frutti per gli animali o per gli uomini. C’è da aggiungere che i
caratteri runici assomigliavano effettivamente a bastoncini. Ma la questione sta a mio avviso in
tutt’altro modo, perché bisogna andare molto più indietro nel tempo quando la 1° componente del termine Buch-stabe, che taluno interpreta
letteralmente come ‘libro’(ted. Buch),
aveva in realtà il significato di ‘incisione’ e quindi ‘lettera dell’alfabeto’
(cfr. il gr. grámma ‘lettera
dell’alfabeto’, dal verbo gráph-ein ‘incidere, scrivere’) come abbiamo riscontrato precedentemente
per l’ingl. box ’incisione’ e le
altre parole ad esso connesse. La 2° componente del termine, più che richiamare
il ted. Stab ‘bastoncino’, ingl. stave ’piolo, stecca, doga’, ecc., chiama
in campo l’ingl. stab ’pugnalata’,
col suo chiaro significato di fondo simile o uguale a quello di ‘incidere (con
punta)’. Non per nulla il rigo musicale o pentagramma, il cui uso risale al IX
sec. d.C., è chiamato in inglese anche stave
o staff ‘bastone’: si trattava, nei
primordi, di un unico rigo inciso a
pressione sulla pergamena, poi disegnato. Così il cerchio si chiude, sempre
tautologicamente, e le tessere del mosaico tornano al giusto posto. Anche questa radice, che è la stessa di it. buco, buca, bocca, sembra
essere salita su su dall’Italia in Germania provenendo, in tempi lontanissimi,
dal focolaio greco. Il ted. Buch ’libro’, ingl. book ‘libro’ svelano così la loro vera faccia: essi rimandano, non al legno del faggio, che poteva pure servire da
materiale scrittorio per i primi alfabeti, ma al suo antichissimo valore di
‘incisione, lettera alfabetica, iscrizione’.
Sappiamo che anche il lat. litter-a(m),acc.pl. litter-as, assumeva svariati
significati: lettera alfabetica,
epistola, scritto, libro, ecc.
Lo strato greco, quello nascosto dietro la superficie delle parole come nella
maggior parte di questi casi esaminati, è inesistente per i linguisti che,
quindi, non possono evitare di fornire molte volte etimi a mio avviso lambiccati,
stiracchiati e sfocati, lontanissimi dalla limpida polla sorgiva dei vocaboli. Il lat. bi-saccium
‘bisaccia’ (Petronio) che tutti i linguisti spiegano senza problemi, fidandosi
della trasparentissima veste (quale incantatrice!) del termine, come composto da lat. bi(s) ‘doppio’ e lat. sacc-u(m) ‘sacco’ è, a mio avviso, di ascendenza
completamente greca. Per arrivarci,
bisogna naturalmente essere già mentalmente disposti da un lato a dubitare
fortemente che vocaboli di tale natura siano stati creati apposta, in tempi
abbastanza recenti nella vita di una lingua, per indicare un oggetto composto
di due parti e, dall’altro, a sospettare invece che essi approfittino di precedenti
denominazioni che indicavano oggetti simili ma formati di un solo elemento[14]. Poi,
riflettendo che il trasaccano bucchë[15],
ad esempio, significa anche ‘borsa, bisaccia’ senza l’intervento di una
particella portatrice del significato di ‘due, doppio’, si passa a pensare che
l’origine del termine dovesse rimandare ad un composto tautologico del tipo *pyg-sákk-os, oppure *pykso-sákk-os ‘borsa, bisaccia’[16].
D’altronde in greco si ha anche l’altro termine pḗr-a ‘ bisaccia, sacco, borsa da viaggio’, passato al lat. per-a(m) col medesimo significato, senza
alcun riferimento al concetto di “doppio”; in tedesco basta sack ‘sacco’ per ‘bisaccia’. Anche il bisturi
(bistori), il noto strumento chirurgico da incisione, è molto probabile che derivi
da un termine greco andato perduto come *pyks-tor-os oppure *pyks-tor-éus ‘cesello, succhiello, trivello’. La seconda componente –tor- è quella di gr. tor-éu-ein ‘intagliare, cesellare,
incidere’ e di lat. ter-ere ‘sfregare,
triturare, tornire, ecc.’ e gr. tor-éus ‘succhiello’. I linguisti
avvicinano la parola all’it. ant. pistorese
‘di Pistoia’(passando per il fr. bistouri),
città nota in antico per le sue lame (lat. gladii
Pistorienses ‘pugnali di Pistoia’) . Il nome della città (lat. Pistorium o Pistoria o Pistoriae) è
fatto derivare dal lat. pistor-e(m) ’mugnaio, fornaio’, ma sarebbe a mio avviso molto più realistico
pensare che esso fosse dovuto alla presenza in loco di qualche officina etrusca
(o più antica) di lame, coltelli o armi. Mi capita spesso di dover invertire la direzione del movimento supposta
dai linguisti per le parole. Mi rendo
conto ora che questa radice pyks- ’cesello’ potrebbe essersi incrociata con quella di gr. psékh-ein ‘stropicciare’, sopra analizzata,
ed aver originato una forma *pysekh- alla base di it. biségolo,
evitando così di dover ricorrere alla pronuncia particolare del nesso /ps/ in
alcune parlate, dove si inserisce tra le due consonanti una /i/ eufonica. Mi sembra una soluzione più semplice e per
questo più attendibile.
Naturalmente dello strato greco sotterraneo non fanno parte le numerosissime
parole di plateale derivazione greca arrivateci attraverso la tradizione dotta,
che tutte le persone di cultura classica, o quasi, riconoscono al primo sguardo
come carta, balaustra, cattedra, sintesi,
sinossi, simpatia, patema, calligrafia, grammatica, politica, aristocrazia, democrazia
(che speriamo non si trasformi in oclocrazia), aula, idiota,idioma, idiomatismi, idolatra,
liturgia, pianeta, mania, megalomania, macchina, meccanico, afelio, perielio,
epatta, trigonometria, pentagramma, pentagono,sisma,teatro,cinema, zodiaco, ecc.
ecc. ecc.
Il cuore si getti sempre oltre l’ostacolo, ma
la ragione ne sorregga la caduta
[1] Cfr. i quattro precedenti
articoli sulla presenza del greco nella Marsica e altrove. Cfr. anche quella
che secondo me è la vera genesi del romanesco paraculo nel post La fantastica espressione arcaica aiellese […] del mio blog (luglio 2014).
[2] Cfr. Lo stesso fenomeno è
stato da me notato nell’agg. dialettale strévësë ‘bizzarro’ nel post Parole greche nella Marsica […] presente nel
mio blog (luglio 2014). Si illude pertanto
chi riconduce termini di falignameria come il fr. bisaiguë, besaiguë ‘bicciacuto
(antica scure a due tagli)’ al supposto lat. (securem) *bisacuta(m) ‘(scure) due volte acuta’. Sembrerebbe un termine nuovo di zecca
inventato apposta per quello strumento, il quale invece, sfruttava,
rietimologizzandola, una voce già esistente ab origine, come accade quasi
sempre, che indicava comunque un oggetto atto ad affilare, il biségolo, ma che
strada facendo rimase, per così dire, libera d’accogliere altri significati
consimili, dato che il francese le aveva preferito, per indicare il biségolo,
altri termini come régloir o astic.
[3] Puntualmente anche in
inglese rispunta un nome di arbusto
spesso spinoso che contiene tautologicamente la radice in questione, il box-thorn del genere Lycium
come il citato pyks-ákantha
‘pissacanta’. L’elemento –thorn
significa ‘spino’. Sono sorprendenti le
sotterranee corrispondenze tra le radici dell’ingl. box e di gr. pýks-os. Quest’ultimo significa anche ‘cataplasma’, un
miscuglio di sostanze vegetali, un impiastro o impacco applicato a caldo sulla
pelle per la cura di alcuni malanni.
Ebbene il verbo ingl. to box
vale,oltre che ‘mescolare, confondere (in genere)’, anche ‘mescolare colori e
vernici’ il che suscita l’immagine di un vero e proprio cataplasma! Il quale rispunta
ancora nell’ingl. to pug ‘impastare
malta, argilla, ecc.’, evidentemente connesso con ingl. to poke che vale anche
‘frugare, rovistare’, azione connessa con quella dell’impastare. In ultimo, il sostantivo poke ‘colpo, pugno’ riconduce a box
‘colpo, ceffone’ e al verbo to box ‘boxare,
dare pugni’.
[4] Cfr. L. Rocci,
Vocabolario greco-italiano, 35° ediz., Società Edit. Dante Alighieri, Roma,
1990.
[5] Gli it. buco,buca,bocca <lat. bucc-a(m),
appartengono secondo me alla stessa radice di box ’buca’ che può atteggiarsi come ‘cavità’ o come ‘rotondità,
corpo rotondeggiante’ e inglobare in sé il signif. iniziale di lat. bucc-a(m) ‘guancia’. Ugualmente è da notare la voce dialettale abruzzese
bucche (Aielli, Trasacco, ecc.)‘sacchettino
(con profenda)’ adattato al muso del
cavallo o asino, mediante cordicella che passava sulla testa. A Gioia dei Marsi il suo nome era bùcchësë, come si trattasse di ingl. box.
[6] C’è anche il verbo del dialetto
di Agnone-Is vuscià ‘lisciare (propr. i capelli)’: sito web https://archive.org/stream/vocabolariodeld02crem
goog/ .
[7] Cfr. M. Cortelazzo-C.
Marcato, I dialetti italiani, UTET,
Torino, 1998, s. v. avusciu.
[8] Alla base di questo concetto
di ‘incisione,escoriazione , abrasione’, espresso da queste radici pl-an-, pl-ant-, credo bisogna porre la radice di it. pel-are con sincope della vocale originaria /ĭ/, che nei suoi vari significati (tra cui ‘rapare,
radere a zero, sbucciare, pungere – detto del freddo’) non può essere ricondotto al solo lat. pĭl-u(m) ‘pelo’. Bisogna tener conto anche di lat. pīl-u(m) ‘pestello’ o ‘giavellotto’, accomunati dalla
loro funzione dilaniatrice. E’ molto indicativo anche il significato
tecnico-architettonico dell’it. pianta
‘rappresentazione grafica a sezione orizzontale di di una città, una casa,
ecc.’ che potrebbe addirittura attingere all’idea originaria di “disegno”, in
quanto intaglio (secondo l’etimo), o
a quella simile di “sezione”, cioè taglio. D’altronde anche ingl. plan, fr. plan, it. piano ‘rappresentazione grafica di opere
varie, progetto’ sembrano insistere sull’idea di “disegno” più che su quella di
“piano”. Che in questo caso la pianta
del piede indicasse non la parte piana
del piede, ma la sua impronta,cioè l’impressione
o incisione, ce lo suggerisce il gr. ikhno-graphía ‘schizzo, disegno,
pianta’, composto tautologico che non significava all’origine letteralmente
‘disegno dell’impronta, dell’orma (di un oggetto)’ ma semplicemente ‘disegno,
traccia, rappresentazione grafica’ in ambo i membri.
[9] Cfr. M.Cortelazzo-C. Marcato, cit.
[10] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censo,
Avezzano-Aq, 2002
[11] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche
Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[12] Cfr. Tacito, Germania, I, 10.
[13] Il ted. Los ‘sorte, destino’,
equivalente ad ingl. lot
’sorte, destino’, etimologicamente valeva ‘ramoscello’, imparentato col gr. klád-os ‘ramoscello’.
[14] Cfr. nel mio blog il post L’italiano “bidente” ovvero le insidie
etimologiche (aprile 2010).
[15] Cfr. Q. Lucarelli, cit.
[16] Questa radice pyg-, pyk- e simili, col
valore di ‘rotondità, cavità’ (cfr. gr. bík-os
‘orcio, anfora,tazza’ ) rispunta in termini semitici come siriaco buq ‘anfora’, ebraico baq-buq ‘fiasco’. Anche l’ingl. bag ‘borsa’ dovrebbe essere della
partita, con i vari it. boccia, boccione,
boccio, bocco, tutti riferiti ad oggetti rotondeggianti o cavi. Anche
l’origine di gr. sákk-os
è semitica: cfr. ebraico, fenicio saq ’sacco’.
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