lunedì 2 febbraio 2015

Genesi e sviluppo del proverbio "Prendere la lepre col carro"



 Da molto tempo avevo riflettuto su un proverbio certamente obsoleto, almeno dalle mie parti, che descrive l’insolita situazione in cui con un carro si dovrebbe acciuffare una lepre.  Prendere (pigliare) la lepre col carro viene spiegato, in senso generico e senza riferimento ad un campo particolare di attività, come ‘prendere le cose molto lentamente’ oppure come ’arrivare ai propri fini con pazienza’.  La stranezza della situazione è secondo me generata dalla inefficacia, appunto, del mezzo con cui si propone di raggiungere e afferrare il veloce animaletto, il quale in antico, prima dell’invenzione del fucile, veniva cacciato con arco e freccia, con trappole e lacciuoli sapientemente sistemati in punti obbligati di passaggio, con reti, ecc.[1] In effetti, data questa mancanza di qualsiasi rapporto tra il normale uso di un carro e il suo impiego per cacciare una lepre, l’ipotetico inventore del detto avrebbe potuto scegliere tra un certo numero di mezzi di locomozione ugualmente inefficaci, come le gambe stesse dell’uomo, alternativi a quello dell’inutile carro.  A me pare molto evidente, anche alla luce di quello che subito dirò, che manca un’accettabile motivazione per l’uso di quel termine al posto di possibili altri.  Per quanto riguarda il significato, poi, c’è da osservare che il proverbio, così come si presenta, si presterebbe più ad un’interpretazione pessimistica, come quella adombrata già nella spiegazione ‘prendere le cose molto lentamente’, che ad una ottimistica, fiduciosa di poter raggiungere in questo modo i propri fini. 
 
Queste difficoltà esegetiche di un proverbio, che verosimilmente affonda le sue prime radici negli strati profondi delle società preistoriche di cacciatori e raccoglitori, difficilissimamente si risolvono con  argomentazioni di tipo genericamente antropologico se non si tiene conto, nel contempo, della possibilità che esso sia passato attraverso strati linguistici diversi per arrivare fino a noi, modificando o cambiando il suo significato anche in modo radicale.  Gli studiosi sanno certamente che la trasmissione di un proverbio può andare incontro a trasformazioni varie anche nel significato, ma non mi pare che abbiano, per vari motivi, riflettuto abbastanza su certi particolari aspetti di natura linguistica, anche perché solitamente riportano questi modi di dire al medioevo o al massimo alla latinità.  Ma in questo caso c’è qualche indizio consistente, a mio parere, che ci spinge a ben ficcare gli occhi a fondo. 

Sfogliando il Vocabolario abruzzese del Bielli[2], infatti, ho incontrato la voce carr-érë ‘corsa di cavalli, gran corsa, carraia’ ma anche ‘la via che percorre la lepre inseguita dai cani’.  Quest’ultimo significato ci pone, ancora una volta, dinanzi ad un problema di motivazione: perché mai la via percorsa dalla lepre viene indicata con la voce carr-érë, corrispondente all’it. carriera, connessa con it. carro < lat. carr-u(m)?  E non è singolare che questo termine carro sia puntualmente presente, in stretto rapporto con la lepre, anche nel proverbio in questione?  Certamente sì!  Ma, nonostante ciò, uno potrebbe pensare che, siccome l’espressione abruzzese dë carrérë (a tuttë carrérë) vale, come del resto la rispettiva italiana, ‘di gran corsa, di gran carriera’, l’ipotetico inventore del proverbio sia stato mentalmente indotto, per associazione di idee, a scegliere questo termine per indicare il percorso della velocissima lepre. Contro questa supposizione, alquanto cerebrale e capziosa, milita però la constatazione che il proverbio, abbastanza diffuso in Sardegna in forme spesso tra sé differenti, non accenna mai ad un termine come l’abr. carrérë, che possa far scattare il meccanismo suddetto, ma nomina sempre il lento carro dei buoi.  

Nel paese di Lodé, nel nuorese, esso presenta la forma Su carru ‘e su re sichit su lepore ‘Il carro del re insegue la lepre’ per indicare la lentezza della giustizia che comunque alla fine raggiunge il fuggiasco, secondo alcuni, o al contrario la sua inefficacia nel farlo, secondo altri. Come si vede qui rispunta ancora una volta il dilemma tra la visione ottimistica e quella pessimistica, suscitate ambedue dalle identiche parole.  Viene inoltre introdotta la figura di un re il quale, oltre a ridar vita al problema della sua motivazione, sposta secondo me tutta l’attenzione sui rapporti intercorrenti in passato tra apparato dello Stato e sudditi[3], facendo perdere al proverbio quella che doveva essere forse la sua originaria veste e funzione descrittivo-didattica nel contesto di una vita campagnola.  In un’altra versione ottocentesca del proverbio, infatti, la sintetica dicitura è Su carru sighit su lepore  ‘Il carro seguita la lepre’ chiosata “con l’assiduità si raggiunge il diligente”, intendendo dire che con perseveranza e dedizione si possono raggiungere gli stessi risultati di chi è, o è stato, più diligente di noi.  Cito solo un’altra forma propria di Oliena-Nu: Su re tenede su lepore a harru ‘Il re acciuffa la lepre col carro’ in cui compare la voce harru < carru, con l’aspirazione della velare sorda iniziale /c/ come avviene in Toscana.  

Questo breve elenco di varianti del medesimo proverbio, che quasi sicuramente viene da molto lontano, ci fa capire che in questi casi il significato non è certamente rimasto quello che il suo ipotetico inventore aveva voluto dargli, imprimendo in esso il suo sapere come se si fosse trattato della voce definitiva di un oracolo.  La verità, a mio avviso, è che questo ipotetico inventore, di cui vado parlando, non è mai esistito, potendo esso essere benissimo sostituito dalla mutevole voce popolare che, per esperienza diretta, poteva cogliere da sé fatti, situazioni, comportamenti di animali e tramutarli piano piano e quasi automaticamente in proverbi che poi assumono un’aura un po’ misteriosa e problematica, proprio per l’interferenza in essi consumatasi con elementi estranei alla sua forma iniziale.  Va poi risottolineato debitamente  che il significato d’origine non poteva non subire, passando da occasione ad occasione e, soprattutto, da uno strato linguistico ad un altro, trasformazioni e deformazioni più o meno sostanziali adattandosi, da una parte a situazioni oggettive diverse, e, dall’altra, alla psicologia e alla mentalità di chi lo pronunciava.  Sicchè si può affermare con tutta sicurezza che in certi casi i proverbi non ci consegnano intatta la cosiddetta saggezza degli antichi ma un prodotto passato casualmente per mani diverse  che ne hanno riplasmato e stravolto la fisionomia d’origine.  Essi sono insomma non un prodotto monolitico e coerente di un solo uomo ma una elaborazione a più mani variamente mescidata nei secoli e nei millenni. 

Un’altra variante del proverbio di cui si discute può a mio giudizio aiutarci a capire concretamente quanto vado asserendo, se prendiamo per buone o almeno verosimili alcune osservazioni che sto per fare.  La variante, ampliamento di quella del paese di Lodé sopra citata, recita Su carru ‘e su re sichit su lepore in s’ena ‘Il carro del re insegue la lepre nella sorgente’.  Il sardo ena vale ‘polla sorgiva, fonte, ecc.’ (dal lat. venam ) e talvolta anche ‘valle’, ma non credo in questo caso.  La presenza di questo termine ena ‘vena, sorgente’ comincia a farci capire quale dovesse essere stato il contesto naturale in cui il proverbio cominciò a prendere forma: quello della vita e del comportamento degli animali osservati da occhi abituati a scrutarne giornalmente le abitudini. Ora, una prima spiegazione di questa variante, sempre un po’ malferma, potrebbe essere che la lepre, presa dai tormenti della sete dopo il suo correre all’impazzata, si ferma a bere presso una fonte dove il carro del re può raggiungerla, se non si tiene conto naturalmente della considerazione che il suo dissetarsi non durerà abbastanza a lungo da annullare tutto il tempo che il lento carro impiegherà a colmare il notevole distacco che la lepre avrà su di esso acquistato. 

 A questo punto ci vuole una energica operazione di  restauro per restituire al proverbio la semplicità e la bellezza di un quadretto realistico, degno degli occhi sgranati dei primitivi cacciatori dinanzi alla lepre che lambisce il liquido rinfrescante. Io sono convinto che dietro questo fantomatico carru > harru (ad Oliena) se ne stia ben acquattata nientedimeno che una parola corrispondente all’ingl. hare ‘lepre’ che doveva far parte del vocabolario di antichissime popolazioni sarde e italiche, visto che il proverbio era diffuso anche nella penisola.  Ecco, allora, finalmente scoperta la vera motivazione del termine abr. carr-érë nel suo significato di ‘la via che percorre la lepre inseguita dai cani’: agli orecchi di quegli antichissimi uomini che conoscevano quella parola *carr-o ‘lepre’, una carr-érë era finita per suonare proprio come ‘via della lepre’, anche se essa era nata col significato generico di ‘via, strada, percorso, sentiero, traccia’ e simili, da una radice variante di lat. curr-ere ‘correre’.  Certamente la velocità della lepre avrà favorito, ma non avviato, l’accostamento e l’incrocio dei due termini.

Sia ben chiaro. Una convinzione non è una prova inoppugnabile, ma le osservazioni che ho fatto sul ricorrere dello strano binomio carro/lepre la rendono almeno probabile e verosimile.

 Però anche in questo modo il senso del proverbio resta problematico perché il significato di *carru ’lepre’ va a cozzare malamente contro quello identico di sardo lepore ‘lepre’ (dal lat. leporem).  Per superare l’impasse si deve dar credito ad un’altra mia ferma convinzione, già espressa altrove[4]. E’ noto ai ricercatori che idronimi, oronimi e toponimi si ripetono normalmente su territori a volte vastissimi, perché essi nei tempi dei tempi erano a mio giudizio normali nomi comuni, il cui significato indicava direttamente l’oggetto cui si riferivano: una sorgente, un rigagnolo, un ruscello, un fiume, un colle, un monte, ecc. Questi significati talora rispuntano, a convalida dell’assunto, in qualche dialetto[5]. Ora, si dà il caso che ricorrano in Italia diversi idronimi come Fonte della Lepre, ad Aielli-Aq (nei dialetti in genere il nome dell’animaletto è maschile: Fonte jju Leprë, in dialetto aiellese), Fonte Leprara, a Forme-Aq, Fonte alla Lepre, a Riparbella-Pi, e persino un Fiume Lepre in Calabria.  Come dicevo, la mia convinzione è che in questi casi il significante lepre non serviva agli uomini preistorici ad indicare l’animale che conosciamo, ma quella che doveva ad essi apparire come un’altra forma vivente : l’acqua, la polla, la fonte, il rio, ecc.  In altre lingue la parola potè prendere la strada che la portò ad indicare, prima l’animale in genere, e poi l’animale di cui si parla.  Si tenga presente anche il fatto che la radice della parola lepre è considerata dagli etimologisti antichissima, e cioè “preistorica”, “prelatina”, “mediterranea”, ecc. 

A  questo punto, si può sperare di ridare la freschezza primigenia alla frase sarda Su carru sichit su lepore in s’ena che verrebbe a significare semplicemente ‘La lepre (carru) cerca l’acqua (lepore) nella polla sorgiva’. Personalmente credo che la parola *lepore ‘acqua’ sia imparentata con il gr. libr-ós ‘stillante, umido’, gr. lib-ás -ádos ‘goccia, flusso, corrente, sorgente, ruscello’, lat. lib-are ‘libare, versare’, radice a sua volta collegabile, a mio avviso, con quella di ingl. live ‘vivere’, ted. leb-en ‘vivere’[6].  Se non si vuole credere, come invece taluno suppone, che il lat. liqu-id-u(m) ‘liquido’ poteva avere anche una forma parallela *lip-id-u(m) che avrebbe quindi potuto dare anche un italico *lip-or-e(m) ‘acqua’, simile a lat. lepor-e(m) ‘lepre’, al posto di lat. liqu-or-e(m) ‘liquido, acqua’.  Da riflettere anche sulla sorgente Agua Livre (Acqua Libera) da cui origina il famoso Acquedotto delle Acque Libere di Lisbona in Portogallo.

Per quanto riguarda l’espressione ‘e su re ‘del re’, spesso aggiunta, nel proverbio, come specificazione di carru ‘carro’, penso possa trattarsi sì di specificazione o aggiunta, ma relativa all’originario significato della parola *carru ‘lepre’,  specificazione espressa prima in latino e poi reinterpretata in sardo.  L’espressione presumo che potesse essere costituita da un lat. exuret ‘arde’ oppure exurens ‘ardente, assetata’, forme del verbo lat. ex-ur-ĕre ‘infiammare, ardere, bruciare’, anche se in latino il verbo è solo transitivo[7].  Facile e naturale sarebbe stato il passaggio exuret > ‘e su re quando il significato del proverbio prese tutt’altra piega coinvolgendo il rapporto dell’uomo comune con l’autorità costituita. Ma finchè esso rimase inserito nello stretto ambito della vita campagnola di cacciatori o anche coltivatori, dovette significare  La lepre ha sete (e) cerca l’acqua nella sorgente oppure La lepre assetata cerca l’acqua nella sorgente.  Quante volte, ancora quando ero ragazzo, ho visto contadini che, lasciando momentaneamente il lavoro, cercavano l’acqua di una vicina sorgente, spesso non più grande di un esilissimo rigagnolo!  E non è assolutamente artificioso immaginare che i cacciatori o coltivatori della preistoria, incontrandosi nelle ore della canicola presso qualche rigagnolo ristoratore anche per consumare un parco desinare, pronunciassero scherzosi una frase simile a quella sarda, riferendosi metaforicamente anche a sé stessi e non solo agli animali.

Il significato che ritraeva un piccolo quadro di vita agreste dovette essere stravolto quando al valore primigenio di *carru ‘lepre’ subentrò quello di lat. carr-u(m) ‘carro’, probabilmente per la scomparsa dal lessico di quel vocabolo insieme all’altro vocabolo *lepore col significato di ’acqua’.   A questo punto, con la nuova veste che il proverbio cominciava a indossare, con un carro che inseguiva una lepre, al verbo exuret ‘arde (di sete)’ non restava altra possibilità che cadere dal contesto o trasformarsi senza sforzo in ‘e su re ‘del re’, appunto.


      


[1] Cfr. il breve articolo In bocca al lupo! crepi! nel mio blog (giugno 2009).

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004,

[3] Cfr. sito web Lodé.  Contributi antropologici alla sua storia, p.100.

[4] Cfr. P. Maccallini, Meditazioni linguistiche, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq  2007, p. 8.

[5]  Per maggiori notizie al riguardo cfr. il mio articolo Fonte “Cantu Riu” [] nel mio blog (sett. 2010).

[6]  In molti dialetti centro-meridionali si incontrano le voci lebbre ’lepre’, lebre ‘lepre’.  A Scorrano, nel Salento, l’espressione pijare nna lebbre significa ‘fare una caduta’. Qui la parola lebbre a mio parere non rimanda all’animale ma all’idea di “movimento, sdrucciolone” insita in quella di “corrente, rio’.  Il detto ricorre altrove come a Cingoli-Mc dove Ho cchiappatu u lepore vale ugualmente ‘ho fatto una caduta’.  
[7] Il latino poteva trovarsi in Sardegna già prima che vi giungesse con le navi romane.  Secondo il linguista Mario Alinei una vasta area del Mediterraneo, chiamata da lui Italide, parlava in qualche modo latino prima di Roma.

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