Da molto tempo
avevo riflettuto su un proverbio certamente obsoleto, almeno dalle mie parti, che
descrive l’insolita situazione in cui con un carro si dovrebbe acciuffare una
lepre. Prendere (pigliare) la lepre col carro viene spiegato, in senso
generico e senza riferimento ad un campo particolare di attività, come
‘prendere le cose molto lentamente’ oppure come ’arrivare ai propri fini con
pazienza’. La stranezza della situazione
è secondo me generata dalla inefficacia, appunto, del mezzo con cui si propone
di raggiungere e afferrare il veloce animaletto, il quale in antico, prima
dell’invenzione del fucile, veniva cacciato con arco e freccia, con trappole e
lacciuoli sapientemente sistemati in punti obbligati di passaggio, con reti,
ecc.[1]
In effetti, data questa mancanza di qualsiasi rapporto tra il normale uso di un
carro e il suo impiego per cacciare
una lepre, l’ipotetico inventore del detto avrebbe potuto scegliere tra un certo
numero di mezzi di locomozione
ugualmente inefficaci, come le gambe stesse dell’uomo, alternativi a quello
dell’inutile carro. A me pare molto evidente, anche alla luce di
quello che subito dirò, che manca un’accettabile motivazione per l’uso di quel
termine al posto di possibili altri. Per
quanto riguarda il significato, poi, c’è da osservare che il proverbio, così
come si presenta, si presterebbe più ad un’interpretazione pessimistica, come
quella adombrata già nella spiegazione ‘prendere le cose molto lentamente’, che
ad una ottimistica, fiduciosa di poter raggiungere in questo modo i propri
fini.
Queste difficoltà esegetiche di un
proverbio, che verosimilmente affonda le sue prime radici negli strati profondi
delle società preistoriche di cacciatori e raccoglitori, difficilissimamente si
risolvono con argomentazioni di tipo
genericamente antropologico se non si tiene conto, nel contempo, della
possibilità che esso sia passato attraverso strati
linguistici diversi per arrivare fino a noi, modificando o cambiando il suo
significato anche in modo radicale. Gli
studiosi sanno certamente che la trasmissione di un proverbio può andare
incontro a trasformazioni varie anche nel significato, ma non mi pare che abbiano,
per vari motivi, riflettuto abbastanza su certi particolari aspetti di natura
linguistica, anche perché solitamente riportano questi modi di dire al medioevo
o al massimo alla latinità. Ma in questo
caso c’è qualche indizio consistente, a mio parere, che ci spinge a ben ficcare
gli occhi a fondo.
Sfogliando il Vocabolario abruzzese del Bielli[2],
infatti, ho incontrato la voce carr-érë
‘corsa di cavalli, gran corsa, carraia’ ma anche ‘la via che percorre la lepre
inseguita dai cani’. Quest’ultimo
significato ci pone, ancora una volta, dinanzi ad un problema di motivazione: perché mai la via percorsa
dalla lepre viene indicata con la
voce carr-érë, corrispondente all’it. carriera, connessa con it. carro < lat. carr-u(m)? E non è singolare che
questo termine carro sia puntualmente
presente, in stretto rapporto con la lepre, anche nel proverbio in questione? Certamente sì!
Ma, nonostante ciò, uno potrebbe pensare che, siccome l’espressione
abruzzese dë carrérë (a tuttë carrérë) vale, come del resto la
rispettiva italiana, ‘di gran corsa, di gran carriera’, l’ipotetico inventore
del proverbio sia stato mentalmente indotto, per associazione di idee, a
scegliere questo termine per indicare il percorso della velocissima lepre. Contro questa supposizione, alquanto cerebrale e
capziosa, milita però la constatazione che il proverbio, abbastanza diffuso in
Sardegna in forme spesso tra sé differenti, non accenna mai ad un termine come
l’abr. carrérë, che possa far
scattare il meccanismo suddetto, ma nomina sempre il lento carro dei buoi.
Nel paese di Lodé, nel nuorese, esso presenta
la forma Su carru ‘e su re sichit su
lepore ‘Il carro del re insegue la lepre’ per indicare la lentezza della
giustizia che comunque alla fine raggiunge il fuggiasco, secondo alcuni, o al
contrario la sua inefficacia nel farlo, secondo altri. Come si vede qui
rispunta ancora una volta il dilemma tra la visione ottimistica e quella
pessimistica, suscitate ambedue dalle identiche parole. Viene inoltre introdotta la figura di un re il quale, oltre a ridar vita al
problema della sua motivazione,
sposta secondo me tutta l’attenzione sui rapporti intercorrenti in passato tra
apparato dello Stato e sudditi[3], facendo
perdere al proverbio quella che doveva essere forse la sua originaria veste e funzione
descrittivo-didattica nel contesto di una vita campagnola. In un’altra versione ottocentesca del
proverbio, infatti, la sintetica dicitura è Su
carru sighit su lepore ‘Il carro
seguita la lepre’ chiosata “con l’assiduità si raggiunge il diligente”,
intendendo dire che con perseveranza e dedizione si possono raggiungere gli
stessi risultati di chi è, o è stato, più diligente di noi. Cito solo un’altra forma propria di
Oliena-Nu: Su re tenede su lepore a harru
‘Il re acciuffa la lepre col carro’ in cui compare la voce harru < carru, con
l’aspirazione della velare sorda iniziale /c/ come avviene in Toscana.
Questo breve elenco di varianti del medesimo
proverbio, che quasi sicuramente viene da molto lontano, ci fa capire che in
questi casi il significato non è certamente rimasto quello che il suo ipotetico inventore aveva voluto dargli,
imprimendo in esso il suo sapere come se si fosse trattato della voce
definitiva di un oracolo. La verità, a
mio avviso, è che questo ipotetico inventore, di cui vado parlando, non è mai
esistito, potendo esso essere benissimo sostituito dalla mutevole voce popolare
che, per esperienza diretta, poteva cogliere da sé fatti, situazioni,
comportamenti di animali e tramutarli piano piano e quasi automaticamente in
proverbi che poi assumono un’aura un po’ misteriosa e problematica, proprio per
l’interferenza in essi consumatasi con elementi estranei alla sua forma
iniziale. Va poi risottolineato
debitamente che il significato d’origine
non poteva non subire, passando da occasione ad occasione e, soprattutto, da
uno strato linguistico ad un altro, trasformazioni e deformazioni più o meno
sostanziali adattandosi, da una parte a situazioni oggettive diverse, e,
dall’altra, alla psicologia e alla mentalità di chi lo pronunciava. Sicchè si può affermare con tutta sicurezza
che in certi casi i proverbi non ci consegnano intatta la cosiddetta saggezza degli antichi ma un prodotto
passato casualmente per mani diverse che
ne hanno riplasmato e stravolto la fisionomia d’origine. Essi sono insomma non un prodotto monolitico
e coerente di un solo uomo ma una elaborazione a più mani variamente mescidata
nei secoli e nei millenni.
Un’altra variante del proverbio di cui si
discute può a mio giudizio aiutarci a capire concretamente quanto vado
asserendo, se prendiamo per buone o almeno verosimili alcune osservazioni che
sto per fare. La variante, ampliamento
di quella del paese di Lodé sopra citata, recita Su carru ‘e su re sichit su lepore in
s’ena ‘Il carro
del re insegue la lepre nella sorgente’.
Il sardo ena vale ‘polla sorgiva, fonte, ecc.’ (dal lat. venam ) e talvolta anche ‘valle’, ma non
credo in questo caso. La presenza di
questo termine ena ‘vena, sorgente’
comincia a farci capire quale dovesse essere stato il contesto naturale in cui
il proverbio cominciò a prendere forma: quello della vita e del comportamento
degli animali osservati da occhi abituati a scrutarne giornalmente le
abitudini. Ora, una prima spiegazione di questa variante, sempre un po’
malferma, potrebbe essere che la lepre, presa dai tormenti della sete dopo il
suo correre all’impazzata, si ferma a bere presso una fonte dove il carro del
re può raggiungerla, se non si tiene conto naturalmente della considerazione
che il suo dissetarsi non durerà abbastanza a lungo da annullare tutto il tempo
che il lento carro impiegherà a colmare il notevole distacco che la lepre avrà
su di esso acquistato.
A questo punto ci vuole una energica operazione
di restauro per restituire al proverbio la
semplicità e la bellezza di un quadretto realistico, degno degli occhi sgranati
dei primitivi cacciatori dinanzi alla lepre che lambisce il liquido
rinfrescante. Io sono convinto che dietro questo fantomatico carru > harru (ad Oliena) se ne stia ben acquattata nientedimeno che una
parola corrispondente all’ingl. hare
‘lepre’ che doveva far parte del vocabolario di antichissime popolazioni sarde
e italiche, visto che il proverbio era diffuso anche nella penisola. Ecco, allora, finalmente scoperta la vera motivazione del termine abr. carr-érë nel suo significato di ‘la via che percorre la lepre
inseguita dai cani’: agli orecchi di quegli antichissimi uomini che conoscevano
quella parola *carr-o ‘lepre’, una carr-érë
era finita per suonare proprio come ‘via della lepre’, anche se essa era nata
col significato generico di ‘via, strada, percorso, sentiero, traccia’ e simili,
da una radice variante di lat. curr-ere ‘correre’. Certamente
la velocità della lepre avrà favorito,
ma non avviato, l’accostamento e l’incrocio dei due termini.
Sia ben chiaro. Una convinzione non è una
prova inoppugnabile, ma le osservazioni che ho fatto sul ricorrere dello strano
binomio carro/lepre la rendono almeno
probabile e verosimile.
Però anche in questo modo il senso del
proverbio resta problematico perché il significato di *carru ’lepre’ va a cozzare malamente contro quello identico di
sardo lepore ‘lepre’ (dal lat. leporem). Per superare l’impasse si deve dar credito ad un’altra mia ferma convinzione, già
espressa altrove[4]. E’ noto
ai ricercatori che idronimi, oronimi e toponimi si ripetono normalmente su
territori a volte vastissimi, perché essi nei tempi dei tempi erano a mio
giudizio normali nomi comuni, il cui significato indicava direttamente
l’oggetto cui si riferivano: una sorgente, un rigagnolo, un ruscello, un fiume,
un colle, un monte, ecc. Questi significati
talora rispuntano, a convalida dell’assunto, in qualche dialetto[5].
Ora, si dà il caso che ricorrano in Italia diversi idronimi come Fonte della Lepre, ad Aielli-Aq (nei dialetti in genere il nome
dell’animaletto è maschile: Fonte jju
Leprë,
in dialetto aiellese), Fonte Leprara, a Forme-Aq, Fonte alla Lepre, a Riparbella-Pi, e persino un Fiume Lepre in Calabria. Come dicevo, la mia convinzione è che in
questi casi il significante lepre non
serviva agli uomini preistorici ad indicare l’animale che conosciamo, ma quella
che doveva ad essi apparire come un’altra forma vivente : l’acqua, la polla, la
fonte, il rio, ecc. In altre lingue la
parola potè prendere la strada che la portò ad indicare, prima l’animale in
genere, e poi l’animale di cui si parla.
Si tenga presente anche il fatto che la radice della parola lepre è considerata dagli etimologisti
antichissima, e cioè “preistorica”, “prelatina”, “mediterranea”, ecc.
A
questo punto, si può sperare di ridare la freschezza primigenia alla
frase sarda Su carru sichit su lepore in
s’ena che verrebbe a significare semplicemente ‘La lepre (carru) cerca l’acqua (lepore) nella polla sorgiva’.
Personalmente credo che la parola *lepore
‘acqua’ sia imparentata con il gr. libr-ós ‘stillante, umido’, gr. lib-ás -ádos ‘goccia, flusso, corrente, sorgente, ruscello’, lat. lib-are ‘libare, versare’, radice a sua
volta collegabile, a mio avviso, con quella di ingl. live ‘vivere’, ted. leb-en ‘vivere’[6]. Se non si vuole credere, come invece taluno
suppone, che il lat. liqu-id-u(m) ‘liquido’ poteva avere anche una forma parallela *lip-id-u(m) che avrebbe quindi potuto dare
anche un italico *lip-or-e(m) ‘acqua’,
simile a lat. lepor-e(m) ‘lepre’,
al posto di lat. liqu-or-e(m) ‘liquido,
acqua’. Da riflettere anche sulla sorgente Agua Livre (Acqua Libera) da cui origina il famoso Acquedotto delle Acque Libere di Lisbona in Portogallo.
Per quanto riguarda l’espressione ‘e su re ‘del re’, spesso aggiunta, nel
proverbio, come specificazione di carru
‘carro’, penso possa trattarsi sì di specificazione o aggiunta, ma relativa
all’originario significato della parola *carru
‘lepre’, specificazione espressa prima
in latino e poi reinterpretata in sardo.
L’espressione presumo che potesse essere costituita da un lat. exuret ‘arde’ oppure exurens ‘ardente,
assetata’, forme del verbo lat. ex-ur-ĕre ‘infiammare, ardere, bruciare’,
anche se in latino il verbo è solo transitivo[7]. Facile e naturale sarebbe stato il passaggio exuret > ‘e su re quando il
significato del proverbio prese tutt’altra piega coinvolgendo il rapporto
dell’uomo comune con l’autorità costituita.
Ma finchè esso rimase inserito nello stretto ambito della vita campagnola di
cacciatori o anche coltivatori, dovette significare La lepre
ha sete (e) cerca l’acqua nella sorgente oppure La lepre assetata cerca l’acqua nella sorgente. Quante volte, ancora quando ero ragazzo, ho
visto contadini che, lasciando momentaneamente il lavoro, cercavano l’acqua di
una vicina sorgente, spesso non più grande di un esilissimo rigagnolo! E non è assolutamente artificioso immaginare
che i cacciatori o coltivatori della preistoria, incontrandosi nelle ore della
canicola presso qualche rigagnolo ristoratore anche per consumare un parco
desinare, pronunciassero scherzosi una frase simile a quella sarda, riferendosi
metaforicamente anche a sé stessi e non solo agli animali.
Il significato che ritraeva un piccolo quadro
di vita agreste dovette essere stravolto quando al valore primigenio di *carru ‘lepre’ subentrò quello di lat. carr-u(m) ‘carro’, probabilmente per la
scomparsa dal lessico di quel vocabolo insieme all’altro vocabolo *lepore col significato di ’acqua’. A questo punto, con la nuova veste che il
proverbio cominciava a indossare, con un carro
che inseguiva una lepre, al verbo exuret ‘arde (di sete)’ non restava
altra possibilità che cadere dal contesto o trasformarsi senza sforzo in ‘e su re ‘del re’, appunto.
[1] Cfr. il
breve articolo In bocca al lupo! crepi!
nel mio blog (giugno 2009).
[2] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo
Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004,
[3] Cfr. sito web Lodé.
Contributi antropologici alla sua storia, p.100.
[4] Cfr. P. Maccallini, Meditazioni linguistiche, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq 2007, p. 8.
[5] Per maggiori notizie al riguardo cfr. il mio
articolo Fonte “Cantu Riu” […] nel mio blog (sett. 2010).
[6] In molti dialetti centro-meridionali si
incontrano le voci lebbre ’lepre’, lebre ‘lepre’. A Scorrano, nel Salento, l’espressione pijare nna lebbre significa ‘fare una
caduta’. Qui la parola lebbre a mio
parere non rimanda all’animale ma all’idea di “movimento, sdrucciolone” insita
in quella di “corrente, rio’. Il detto
ricorre altrove come a Cingoli-Mc dove Ho
cchiappatu u lepore vale ugualmente ‘ho fatto una caduta’.
[7] Il latino poteva trovarsi in
Sardegna già prima che vi giungesse con le navi romane. Secondo il linguista Mario Alinei una vasta
area del Mediterraneo, chiamata da lui Italide,
parlava in qualche modo latino prima di Roma.
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