Il patri-monio (lat. patri-monium)
—chiosano i
linguisti— è nel diritto romano sostanzialmente tutto ciò che possiede il pater familias trasmesso per eredità al
figlio maschio (alle origini solo al primogenito) più qualsiasi altro bene che si
possiede a qualsiasi altro titolo. E’ la
definizione che del resto ricorre negli stessi autori classici. Mentre il termine matri-monio mi pare che non si presti ad una interpretazione altrettanto
semplice ed univoca. Tutti, comunque, si
tengono stretti, nel tentativo di spiegarlo, al significato di ‘madre’ alla
quale il termine parrebbe riservare il
compito principale in un matrimonio, quello della procreazione e dell’accudimento
dei figli. Ma in questo modo si perde
abbastanza di vista ciò che il matrimonio sostanzialmente è, prima di ogni
altra considerazione circa l’esigenza di procurarsi degli eredi: una semplice unione tra un uomo ed una donna, sancita
generalmente dalla legge.
Ora, se vogliamo tentare di sbrogliare
la intricatissima matassa e almeno sperare di cogliere il significato d’origine
di questi termini, ritengo che sia indispensabile far tesoro di alcuni principi
della mia linguistica da me spesso
ribaditi, quello tautologico in base al quale le parti, in cui si può
suddividere una parola, ripetono lo stesso significato e quello che stabilisce
che è vano credere che una parola sia nata apposta per designare solo il suo
attuale referente. Osservando alcune
voci dialettali, ad esempio, ci accorgiamo che è effettivamente errato
riservare all’it. padre (lat. patr-em) il solo significato a tutti noto (sostanzialmente genitore) che esso mostra in latino e in
italiano, nonché in quasi tutte le altre lingue cosiddette indoeuropee. Nel dialetto di Trasacco-Aq il verbo appatrà,
che può essere sostituito dall’espressione dà jë pàtrë ‘dare il padre’,
significa in effetti ‘far accoppiare un animale femmina con il maschio; far
fecondare la femmina dal maschio per la riproduzione’. Il part. pass. appatràta può essere riferito anche alla donna ‘incinta’ oltre che
alla femmina dell’animale[1]. In
altri paesi della Marsica il verbo,
usato solo per gli animali, è patr-ëzza’. Allora in questo
caso la voce pàtrë non può avere il significato usuale di ‘padre’, bensì
quello diverso di ‘maschio, generatore’, cosa che spiega anche perché, a mio
avviso, dei due termini indicanti i due attori di un matrimonio considerati in
rapporto con i figli, il padre, che
inizialmente —non dimentichiamolo!— poteva
avere un significato molto più generico come quello di ‘nutritore’ o
‘protettore’(da una radice pā[2]),
finì per designare il maschio nella
coppia dei genitori, il marito. Ciò a
mio avviso viene ribadito dalla voce corsa patròne
‘marito’ il cui significato in genere è spiegato (erroneamente) come derivato
dal fatto che le mogli dei montanari corsi consideravano come loro ‘padroni’ i
mariti[3].
C’era in effetti un motivo molto più profondo che faceva originariamente di
questo patròne un semplice ‘coniuge’, nel senso etimologico di
quest’ultimo, cioè ‘congiunto, partner’! Il significato di genitore è già una specializzazione di quello di generatore (riferibile a qualsiasi
animale o cosa che produca alcunchè), il quale ci fa intuire che il verbo lat. patr-are ‘eseguire, compiere’ dal
significato abbastanza simile a quello di ‘generare, creare’, debba essere ad
esso collegato. La dimostrazione di ciò
ci viene dalle espressioni, considerate oscene, del tardo lat. patrare
coitum’ accoppiarsi, copulare’ o
semplicemente patrare ‘accoppiarsi, copulare’ (Antologia Latina)[4].
Ora, quelle locuzioni che in latino potevano essere oscene, a Trasacco
invece apparivano come eufemismi tanto da poter essere riferite senza pruderie anche alla donna ‘incinta’ come
abbiamo visto. E questo perché
l’originario significato di ‘accoppiamento’ veniva ad essere in qualche modo
oscurato dall’unica radice che nella mente del dialettofono trasaccano rispondeva
a quella di appatrà, la radice
innocentissima di padre, anche se
questa poteva addirittura prestarsi, in questo caso, a trasformare l’accoppiamento in una forma
d’incesto. Ma la cosa veniva negata de facto dalla normalità per così dire esogamica
di questi rapporti.
A questo punto è molto interessante
riflettere sui diversi verbi elencati dal Lucarelli sotto la voce appatrà di cui sopra, sempre col
significato di ‘fecondare, ingravidare’.
Essi sono: attorà, dà jë pàtrë, chëprì, ngravità, mbrënà, ammarrà, ammammà. Il
primo, secondo il metodo seguito ad occhi chiusi da tutti, sarebbe un
denominale dal termine toro (dal lat.
taur-um). Esso dovrebbe significare ‘portare (la vacca)
al toro’ oppure ‘dare il toro (alla vacca)’ , ma a mio modesto avviso non è
questo il modo giusto per arrivare all’etimo, che spesso se ne sta acquattato in
fondo al termine, a dormire i suoi sonni millenari al sicuro dal forcipe
spuntato dell’etimologo. E in effetti
una parola come attorà, in cui la voce toro
sembra togliere ogni spazio ad altri improbabili concorrenti, cos’altro
potrebbe significare? In casi come
questo è molto utile ricordarsi che le parole non sono nate l’altro ieri e che
quindi è metodologicamente necessario diffidare
dei significati a portata di mano, a tutto vantaggio di quelli più lontani o
meno noti ma nel contempo più rispondenti alle norme della formazione delle
parole. Una di queste, e forse la più
importante, ci ricorda, come ho sottolineato spessissimo nei miei articoli, che
la Lingua ama designare direttamente
i suoi referenti. In altri termini, ‘portare la vacca al toro’ non è precisamente
la stessa cosa di ‘fecondare, accoppiare’. E i nostri lontani progenitori che vivevano
essenzialmente di agricoltura, pastorizia e allevamento di bestiame, a partire
all’incirca da 15mila anni fa, avevano già tutti gli strumenti linguistici atti
ad indicare le cose, gli animali, le piante e tutte le operazioni relative al
loro mondo agro-pastorale senza forse i tanti disagi legati alle moderne e un
po’ fasulle pruderie nel nominare
certe cose. O forse ce le avevano
anch’essi, soggetti per altro a tanti tabù anche di tipo linguistico, ma la mia
ricerca ha assodato anche questo: quelli che a noi sembrano eufemismi, usati per evitare significati
troppo crudi per il nostro palato di gente civilizzata, in realtà erano stati termini,
in una fase anteriore della lingua, che puntavano semplicemente e direttamente il
dito “impudico” verso la cosa designata.
Eh! si può dire che la Lingua ci si sia messa di buzzo buono per farci
credere che le nostre espressioni sono forbite, moderne, à la page e magari edulcorate, imbellettate, quando invece la loro origine, lontanissima,
è spoglia di queste preoccupazioni e rivela semmai una realtà sorgiva e una
bellezza tutt’acqua e sapone. Era una
lingua che sembra rispecchiare il detto evangelico Omnia munda mundis (Tutto è puro per i puri).
Ora, non è per niente fuori luogo
supporre che dietro il nostro attorà
ci sia il nome gr. thor-ós ‘seme animale
ed umano’, considerati anche i molti grecismi da me individuati nei dialetti
della Marsica, Abruzzo ed oltre. Sicchè è facile ricostruire un *ad-thor-are
‘inseminare, fecondare’, passato attraverso il latino popolare e arrivato quasi
indenne fino ai nostri dialetti, perlomeno del centro-meridione d’Italia. La radice era ben radicata in greco dove si
incontrano anche le forme thór-ny-sthai ‘congiungersi (carnalmente), montare’ e thrṓ-sk-ein ‘correre, saltare, montare,
congiungersi (carnalmente)’.
Quest’ultimo verbo fa capire che il significato d’origine della radice
doveva essere quello di ‘movimento’ (anche il seme genitale è un liquido,
pronto a scorrere e fuoruscire); quando essa assunse il significato di ‘seme
genitale’ piegò la spinta del
movimento nella direzione del ‘montare’ per congiungersi ed inseminare. L’inseminazione animale era quindi
strettamente connessa con il congiungimento
degli animali e dei loro organi ripoduttivi.
Non sarà forse nemmeno un caso che l’importante dio scandinavo Thor
(Tor) fosse anche divinità della fertilità maschile. L’abruzzese taur-irsë
‘ingravidare della vacca’[5],
conservatosi nella forma latina legata a lat. tauru(m) ‘toro’, con cui la radice per ‘seme genitale’ si era
incrociata, non poteva significare ‘diventare toro’ o ‘portare (la vacca) al
toro’ o ‘prendere il toro’, tutte espressioni artificiose e improbabili
rispetto alla radice, ma semplicemente ‘restare ingravidata, fecondata’,
appunto. Questa radice thor-, tor- sicuramente è dietro anche all’it. torr-ente e al sscr. dhara
‘torrente, seme’[6].
Alla luce di quest’analisi del verbo attorà si può tornare a riflettere sul verbo appatrà alla cui radice patrë abbiamo dato il significato di
‘maschio, generatore’. Infatti, come è
naturale nelle lingue delle origini, il significato generico di ‘generatore’ o
‘generante’ poteva produrre con estrema facilità un ventaglio di valori più
specifici. Si pensi, ad esempio, al sostantivo gr. gonḗ: esso, nell’ambito della radice per ‘generare’, assumeva
significati quali generazione, stirpe, generato,
figlio, generatore (nel senso anche di ‘organo genitale, seme genitale,
utero’). Allora è legittimo supporre che
la radice di patrë ‘generatore’ di
cui si parla possa aver avuto nel lontano passato anche il senso di ‘seme
genitale’ e possa così aver dato al verbo appatra’
l’identico significato di attora’,
cioè ‘inseminare’. Inoltre questo significato
di ‘generatore, genitore’ riservato al vocabolo padre fa sì che questo vada
a coincidere per il significato con il suo omologo madre, parola anch’essa
presente in quasi tutte le lingue indeuropee, a cui si dà solitamente il valore
di ‘generatrice, creatrice’ da una radice sanscrita MA- ‘misurare,
distribuire, produrre’. E chi più di una madre puo dire di aver generato i suoi figli? La possibile (anche se quasi inconcepibile
per una mente non abituata a quest’annullamento delle opposizioni generatesi
col tempo nelle lingue) intercambiabilità in tempi remoti dei due
termini designanti storicamente l’uno, e non l’uno o l’altro indifferentemente,
dei due genitori viene suggerita
anche dalla constatazione che essi formalmente sono molto simili, in quanto il
secondo membro di pa-dre (lat. pa-tr-em) corrisponde al secondo di ma-dre (lat. ma-tr-em). Resterebbe così solo il genere a
distinguere i due nomi, l’uno maschile e l’altro femminile. Ma queste sono
distinzioni grammaticali che non incidono nel profondo di una lingua. Faccio un esempio. Il gr. gón-os, con un’unica desinenza, poteva significare sia ‘figlio’ che
‘figlia’.
Di chëprì
(it.coprire) ’ingravidare’
abbiamo dato adeguata spiegazione in un recente articolo[7]
in cui si sostiene che l’azione di ‘coprire’ coincide con quella di
‘contattare, congiungersi (sessualmente)’.
E così siamo giunti al verbo ‘ngravita’
‘ingravidare, fecondare’ che sembra essere il più facile di tutti, in quanto
esso, prestito dall’italiano, farebbe
riferimento all’appesantirsi (cfr. l’agg. it. grave) della femmina dopo il suo rapporto con l’uomo, per via del
feto o embrione che comincia a svilupparsi.
Ma la cosa diventa visibile solo dopo qualche mese mentre il verbo
abbraccia tutto il periodo dal primo concepimento al parto. Si potrebbe pensare che esso, nato per
indicare l’ingrossamento della femmina, sia stato poi esteso a comprendere tutto
l’arco della gestazione. Ma io mi
permetto di ragionare diversamente. Anche qui l’appesantimento non è
esattamente un concepimento o fecondazione, concetti di cui l’uomo
agricoltore ed allevatore doveva essere
senz’altro in possesso per il semplice motivo che ne faceva una continua
esperienza con le piante, gli animali e i
suoi simili. Egli si era certamente reso
conto che le femmine mostravano quell’ingrossamento molti giorni dopo aver avuto un rapporto sessuale con i
partner. L’ingravidamento senza partner e
senza previo accoppiamento non era possibile, poteva verificarsi solo nel mito
e nelle credenze religiose. Queste
nozioni, facendo parte del bagaglio culturale dell’uomo che d’altronde usava la
lingua già da molti millenni, lo spinsero, secondo me, ad impiegare termini già
presenti nella sua lingua adattandoli a rappresentare il fenomeno della
fecondazione. Ora, riflettendo sul
significato di lat. grav-e(m) ‘pesante,
grave, robusto, fertile, fecondo (detto di terra), gravida, ecc.’
mi è venuta l’idea che la fecondità
dei terreni, cui esso rimanda, non
deve essere spiegata come uso estensivo e metaforico dell’aggettivo impiegato,
insieme al suo derivato grav-id-u(m) ‘reso pesante, gravido’, per indicare la gravidanza anche al suo inizio, immediatamente dopo l’inseminazione.
Essa va spiegata, invece, notando che la
parola che la esprime in realtà doveva all’origine significare solo ‘forza,
spinta’. Un peso è una forza, anche in
fisica un grave è tale perché
soggetto alla forza di gravità. Allora diventa piuttosto facile pensare che
il lat. grav-em ‘gravida,
incinta’ e il lat. grav-id-a(m) ’gravida,
incinta’ indicano una femmina che nel suo grembo, dopo l’inseminazione, ha
accolto e sta dando sviluppo ad una forza
procreatrice e generatrice, la stessa forza che rende fertile e ferace il
grembo della terra dopo la semina. A me
sembra così assodato che la gravidanza non era vista all’origine come un appesantimento del corpo femminile, ma,
al contrario, come un segno del suo invigorimento.
Il
precedente ragionamento trae conforto, ad esempio, dal gr. en-erg-ḗs oppure en-erg-ós ‘efficace, energico, attivo, ferace (detto di terra)’.
Anche qui la fertilità della terra viene
espressa con una radice ERG- dal
chiaro significato etimologico di ‘forza, energia’ imparentata con l’ingl. (w)ork ‘lavoro’. Ma c’è di più. Mi pare chiaro che il dan. svanger ‘gravida, incinta’ e il ted. schwanger ‘gravido, pregno’ siano legati
allo scozzese swank ‘pieno di vita o
energia’[8]. Tutti termini che richiamano anche il verbo
ingl. to swing (pass. swung o rar. swang) con tutta l’energia che sprigionano i suoi vari significati,
ruotanti intorno a quello fondamentale di ‘oscillare, vibrare’.
L’altro verbo trasaccano ‘mbrëna’ ‘ingravidare’, peraltro diffuso ampiamente altrove, conferma
ancora la nostra visione della fecondazione.
Il verbo latino di riferimento prae-gn-are ‘ingravidare’, infatti,
risulta composto dalla prepos. lat. prae-
‘innanzi’ e dalla radice -GN- ‘generare’ ben attestata in
greco e nel latino stesso anche nelle forme GON-, GEN-:
essa si ritrova tal quale nel lat. pro-gn-atu(m) ‘nato, generato, figlio’,
nel lat. gi-gn-ere ‘produrre, generare’, nel lat. co-gn-atu(m)
‘consanguineo, congiunto, parente’ (da cui l’it. cognato) e nel lat. pro-geni-e(m) ‘progenie, discendenza,
figlio, germoglio’ . L’aggettivo it. pregno, forse accorciativo del lat. prae-gn-ans
‘gravida, incinta’, rende bene l’idea del turgore
dovuto alla forza di qualche germe (seme), all’interno di piante o animali, che
sta lì lì per prorompere all’esterno .
Lo strano ammarrà ‘far fecondare la femmina
d’animale’ comincia a farsi più comprensibile quando scopriamo che esso, sempre
nel dialetto di Trasacco, significa anche ‘coprire, ammantare, ricoprire di
terra’[9]. Abbiamo più sopra ricordato che l’azione di
‘coprire’ corrisponde a quella di ‘contattare, congiungersi (sessualmente),
fecondare’. La voce dialettale marrë a Trasacco, e qua e là nel meridione, si riferisce in genere ad un involto di interiora di agnello e altri
ingredienti, cotto al forno. Un suo sinonimo, sempre a Trasacco, è treccia,
voce che spiega da sé, a mio avviso, il valore nascosto nell’altro
vocabolo marrë, cioè quello di intrico, massa, cumulo, ecc. La voce marra, in
effetti, ricorre anche nel settentrione d’Italia col significato di ‘mucchio di
pietre’[10]. Sono ora da ricordare i verbi dell’area
germanica to moor ‘ormeggiare’(inglese), mar-en ‘legare, attraccare’(medio olandese), a-marr-ar 'ormeggiare, legare' (spagnolo) ecc. Ridotta all’osso,
questa radice MAR/MOR, con altre varianti, è la stessa che indica l’atto
dell’accoppiamento tra animali nel trasaccano ammarrà, da *ad-marr-are.
E così siamo giunti all’incredibile e
ultimo verbo ammammà, della serie
elencata dal Lucarelli. Incredibile perché indica sempre lo stesso atto
sessuale dell’accoppiamento con un termine che in qualche modo si contrappone e
nel contempo richiama quello di appatrà
di cui abbiamo parlato all’inizio.
Mentre il primo verbo sembrava chiamare in causa il vocabolo padre, questo sembra richiamare quello
di mamma, voce familiare per ‘madre’,
a torto derivabile in questo caso dal lat. mamm-a(m)
‘mammella, mamma (voce infantile)’ . Nel
dialetto calabro di Mormanno-Cs, infatti, il verbo ammammà, oltre al prevedibile significato di ‘essere legato alla
madre’ presenta quelli di ‘coprire con terra una piantina per proteggerne le
radici’ e di ‘incollare, unire, legare’[11]. Non si può assolutamente pensare che
quest’ultimo significato (o insieme di significati nel fondo sinonimi) possa
essere uno sviluppo del primo che indica il legame affettivo con la mamma.
E questo ce lo suggerisce già il secondo significato che, sfrondato di
tutte le sue caratterizzazioni storiche e specialistiche, rimanda al nudo e
crudo coprire. E ora sappiamo benissimo cosa questo significhi: esso,
il coprire, aveva tutti i crismi per
esprimere, autonomamente, i significati di ‘incollare, unire, legare’, connessi
a quello trasaccano di ‘far fecondare un animale femmina’ (come abbiamo più
sopra ricordato a proposito del trasaccano chëprì
‘ingravidare’), senza dover ricorrere forzosamente al significato di ‘mamma’,
fatto per soprammercato derivare dal lat. mamm-a(m) ‘mammella’. Il quale ultimo
è legato a filo doppio, invece, con i vari mamm-ella e mamm-ell-one, termini del lessico e toponimi per ‘collina,
rilievo tondeggiante’. Non è la metafora il legante fra la mammella ‘organo ghiandolare’ e la mammella ‘collina (tondeggiante)’, significato quest’ultimo che si
sarebbe sviluppato da quello precedente! Solo la specificazione tondeggiante è dovuta all’influsso del
significato dell’altro termine, mentre ambedue immergono ed annullano le
proprie specificità nella genericità di una protuberanza. Nessuno
può, in altri termini, scientificamente dimostrarci che sia nata prima la mammella come ‘organo ghiandolare’ e poi
l’altra col significato di ‘collina’, anche se nello stato attuale della lingua,
in cui mamma ‘organo ghiandolare’ si
prende tutta l’autorevolezza del latino e mammella
come ‘collina’ è relegata come una specie di cenerentola soprattutto nei
dialetti e nella toponomastica, l’apparenza sembra volerci dimostrare il
contrario. Che meravigliosa semplicità è quella della lingua che trova sempre
il modo di ricondurre ad unità le spinte individualistiche delle parole,
necessarie comunque per una comunicazione via via più analitica, precisa,
puntuale! Una protuberanza suscitava
certamente l’idea di una forza che spinge per dar vita a qualcosa di
animato, nella mente dell’uomo primigenio, molto meno ai nostri occhi di uomini
moderni, abituati a scindere la materia dallo spirito, dopo aver perso o almeno
ridotto ai minimi termini il senso del sacro che i primitivi provavano per tutti
gli aspetti della Natura. Al loro sguardo,
che definirei olistico ante litteram,
essa doveva assomigliare in tutto alla forza
che opera e spinge nel grembo delle
femmine in gravidanza: ecco quindi
dimostrata, a mio avviso, la stretta equazione e connessione concettuale e
linguistica protuberanza=gravidanza=utero=forza
generativa=liquido seminale= genitore
(equazione che coinvolge sia la radice di pa-dre che quella di ma-mma o ma-dre[12]). Sempre nel dialetto di Mormanno la voce mamm-àta significa ‘figliata, covata’: è
interessantissimo riflettervi sopra, alla luce dei vari significati della
radice di mamma. Non bisogna banalmente pensare che la voce
sia una naturale estensione del termine mamma come se si trattasse di ‘figli
prodotti dalla mamma’, ma, in modo più diretto e semplice bisogna spiegarla
come ‘prodotto, parto’ tout court,
dato che questo è uno dei significati fondamentali della radice. Lo dimostra, a mio avviso, anche il vero valore
dell’it. covata che non è che un mero
‘distendersi sopra’, dal lat. cub-are, come fanno gli uccelli e le chiocce che riscaldano così le
uova nel nido: sappiamo che il concetto di “copertura” equivale a quello di
“accoppiamento sessuale” e di conseguenza il verbo latino, specializzatosi per
indicare solo questa operazione di covatura, dovette avere precedentemente
anche quello di ‘generare, produrre’ come è suggerito, a mio parere, dall’ingl.
cub ‘cucciolo (di vari animali)’, ingl. to cub
‘figliare’, il cui etimo risulta sconosciuto ai linguisti. I significati di ogni parola si adeguano di
caso in caso alla bisogna, allontanandosi da quello più generale ma senza
tagliare del tutto il cordone ombelicale che ad esso li lega.
E' proprio vero che non si perde nulla nella lingua. Il significato del citato ammammà 'coprire con la terra le piantine', contiene un riferimento alla parola mamma che nella lingua tartara vale proprio 'terra'!
E' proprio vero che non si perde nulla nella lingua. Il significato del citato ammammà 'coprire con la terra le piantine', contiene un riferimento alla parola mamma che nella lingua tartara vale proprio 'terra'!
Il significato di ‘incollare’ della
voce ammammà del dialetto di
Mormanno-Cs sopra citato, ci fa venire in mente l’altro significato che la voce
mamma, in vari dialetti ma anche in
italiano arcaico, ha: quello di mamma del
vino, sedimento torbido del vino, dell’aceto detto anche madre. Sempre nel dialetto di Mormanno
la voce mamma significa ‘meconio’, sostanza
vischiosa dell’intestino espulsa dai neonati nei primi giorni di vita. Il termine
madre con uguale significato di
‘feccia del vino, madre dell’aceto’ si ritrova in area germanica col ted. Mutter ‘madre’ con l’ingl. mother of vinegar ‘madre dell’aceto’, ingl.
arcaico mother ‘feccia, posatura’. Per
togliersi dalla testa che questa parola derivi direttamente dal significato di
‘madre’ si pensi al ted. Moder ‘marciume,
muffa’, oland. modder ‘sedimento
fangoso’, voci che non combaciano con quelle per ‘madre’ nelle rispettive
lingue. Ora, una sostanza torbida è un
miscuglio che richiama l’impasto di una colla,
la cui unica funzione è quella di tenere
unite due cose. Così anche per
questa via si arriva sempre allo stesso significato di ‘unione, collegamento’ espresso
dalla radice di ma-dre o di ma-mma.
Diversi sono i monti che traggono il
nome sia da madre che da padre, dalla Sierra Madre in Ispagna alla Maiella in Abruzzo, accompagnata spesso
dall’appellativo di Madre, fino al Matter-horn
(Monte Cervino, nelle Alpi occidentali tra Italia e Svizzera) che non credo
vada inteso come ‘corno, vetta dei prati’; dal Monte Padru in Corsica a Monte
Padru nel sassarese in Sardegna: ugualmente diversi sono i monti, a questo
più o meno vicini, legati alla radice simile di PETR- come Monte San Pietro,
Monte Petr-eddu, ecc. Ora sappiamo a mio avviso perché: i
rispettivi nomi padre/madre valevano in questi casi
semplicemente ‘monte, altura, protuberanza’.
Finalmente, tornando all’etimo di matrimonio e patrimonio da cui eravamo partiti, credo che ora possediamo qualche
strumento in più per decifrarlo. In
primo luogo mi sembra che se ci fidiamo dei significati usuali di padre e madre, come fanno tutti i linguisti, resteremo fatalmente
impigliati in essi senza poter raggiungere una soluzione almeno più convincente. Infatti la semispiegazione che i linguisti
danno per lat. matri-moni-u(m) si
basa sulla falsa idea che questo istituto interessa più direttamente la donna
alla quale è riservato dalla natura e dalla tradizione un compito più
impegnativo per la procreazione e la famiglia in genere, mentre il patri-moni-u(m) veniva così chiamato perché
esso indicava i beni della famiglia ereditati dal padre, più altri a qualsiasi
titolo posseduti. A me sembra, invece,
che qui padre/madre indichino lo
stesso significato di ‘insieme, gruppo, legame’, l’uno riferito all’insieme dei beni posseduti per eredità o
per altri motivi, mentre l’altro indica semplicemente l’insieme o il legame
costituito dal patto matrimoniale tra l’uomo e la donna la quale nel diritto
romano non era totalmente sottomessa all’uomo, come siamo abituati a pensare:
si legga in proposito in internet l’articolo di Giovanni Lobrano
dell’università di Sassari, Fonti sulla
natura comunitaria del matrimonio romano, in cui vengono analizzate tutte
le fonti latine che parlano del matrimonio in termini di consorti-u(m) e societat-e(m),
sottolineanti la natura paritaria della istituzione. Quindi secondo me è un
errore cercare di spiegare linguisticamente il matrimonio facendo pendere la
bilancia dalla parte della donna-madre. Come è un errore credere che il patri-monio dipenda linguisticamente dal
nome padre, perché esso, il
patrimonio, proveniva per eredità da lui.
Ma anche le donne potevano possedere un loro patrimonio, benchè non
avessero il diritto ereditario, tranne in casi previsti dalla legge. Sicchè, in ultima analisi, i due nomi a mio
avviso erano finiti per specializzarsi storicamente in base a quello che essi sembravano
in superficie indicare: il matrimonio sembrava essere più rispondente alle
esigenze e alla natura di una donna, mentre il patrimonio sembrava avere tale
nome per i motivi che abbiamo detto. Sembrava, ma non era la verità di fondo. Il secondo membro –moniu(m) dei due termini, sembra essere un suffisso perché si
ritrova anche in altri termini latini.
In realtà io penso che alle origini esso fosse dal significato
polivalente, come tutti gli altri suffissi, che in questo caso corrispondeva tautologicamente
al significato di ‘unione, legame, gruppo’ del primo membro[13].
E’ molto interessante, infine, cercare
di vedere quale possa essere il rapporto di questi termini, da me intesi come
‘gruppo, accumulo’, con la mammona
biblica, cioè la richezza. Il termine
semitico mamon, sebbene di difficile
decifrazione etimologica, aveva inizialmente il valore generico di ‘ricchezza
accumulata, patrimonio’ senza alcuna connotazione negativa o positiva e senza
alcuna connessione con il demonio, come poi invece è successo[14].
Mi scuso col gentile lettore della
lunghezza di questo articolo, ma gli etimi di matrimonio e patrimonio
erano particolarmente difficili per i motivi che abbiamo, credo, evidenziati. Ho dovuto , starei per dire, aggirarli e
circondarli da tutti i lati per costringerli ad arrendersi e rivelare, almeno
spero, la loro polivalente identità, caratteristica del resto di ogni radice.
Colpisce soprattutto che le due radici, tra sé nettamente distinte, di pa-dre e ma-dre, si ritrovino insieme ad indicare lo stesso concetto generico di
“congiunzione, accoppiamento, generazione” senza la connotazione che le
vorrebbe riservate, con quei significanti, ai propri genitori e non anche agli
eventuali compagni d’amore. Ma i
significati di una radice non sono stati solo quelli espressi dalle parole che
la contengono rimaste incapsulate, da due o tremila anni, nelle lingue
ufficiali arrivate fino a noi. I dialetti
ce lo attestano, confermando così anche la validità della Teoria della
Continuità di Mario Alinei.
[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà
A-E, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq 2003, s. v. appatrà.
[2] Cfr. G. Devoto, Dizionario etimologico, Edizione CDE
spa, Milano 1984.
[3] Cfr. M. Cortelazzo- C.
Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino 1998.
[4] Cfr. F. Calonghi, Dizionario dell lingua latina, Rosenberg
& Sellier, Torino 1951, s. v. patrare.
[6] Cfr. articolo Etimologia
di it.”torrente”, nel mio blog (giugno 2009).
[8] Cfr. Dizionario Merriam-Webster s. v. swank.
[9] Cfr. Q. Lucarelli, cit. s.v. ammarra’.
[10] Cfr. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana,
Paravia 2000.
[11] Cfr.
sito web Gli alti Bruzi e il loro
linguaggio, di Luigi Paternostro.
[14] Cfr. sito web Vangelo
e ricchezza: nuove prospettive esegetiche, di Angelo Tosati.
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