Ormai, come ho ripetuto più volte, questo è un principio assodatissimo
della mia linguistica: è vano credere che il significato etimologico di un
termine possa essere cercato tra le espressioni metaforiche, traslate, figurate
che da esso sono apparentemente e subdolamente suggerite o da esso possono
essere ricavate con i significati che attualmente la Lingua assegna alle parole
o alle parti di cui esse sono composte. La Lingua, al contrario, nomina
direttamente i suoi referenti, nel senso che le parole contengono in sé radici
che all’inizio della loro annosa vicenda, la quale si immerge ben a fondo nella
preistoria, indicavano le cose per quello che erano, cioè con concetti
appropriati che non avevano bisogno dell’ausilio delle varie figure retoriche,
ben descritte dalla grammatica sin dall’antichità. Il problema è costituito dal fatto che, col
passare dei molti millenni che ci separano dall’origine di una parola, su di
essa si sono in genere accumulati significati diversi da quelli primordiali,
sviando e frastornando la nostra capacità indagatrice. Questo è potuto accadere perché i significati
che una radice poteva assumere, nelle varie e frammentate parlate di una
comunità preistorica, erano i più diversi, in un ventaglio aperto a 360°, e
soggetti a facili e numerosi incroci, contrariamente alla falsa idea
profondamente infissa nella nostra mente, secondo cui una radice era ed è
adatta ad esprimere solo uno o alcuni dei significati, tra tutti quelli
possibili, a parte i significati metaforici che da essa possono scaturire.
Così, per il tedesco Hoch-zeit ‘nozze, matrimonio’, i linguisti non possono fare altro
che prendere atto dei due significati apparentemente indiscutibili, quello dell’aggettivo
hoch- ‘alto’ (cfr. ingl. high ’alto’) che presenta anche i
significati simili e traslati di ‘grande, importante, sublime, ecc.’, e l’altro
del sostantivo zeit ‘tempo’, affine all’ingl. tide ‘marea, corso, tendenza, stagione, tempo, periodo (festivo)’
per ricavarne i significati di ‘tempo importante’ o ‘cerimonia festiva
importante’ i quali sembrano adattarsi bene ad indicare metaforicamente le nozze, o il matrimonio, a meno che non si colga la nota stonata di questa definizione figurata che nulla ha a che fare
col modo di procedere e di costruire le parole da parte della Lingua. Così facendo i linguisti seppelliscono per
l’eternità il vero significato di questa parola Hoch-zeit ‘matrimonio’ che, all’origine, era più o meno lo stesso di
quello indicato dal vocabolo di oggi nel suo complesso, ripetuto però tautologicamente
in ciascuna delle due componenti del termine.
La prima componente Hoch- è solo una reinterpretazione di un vocabolo
originario similissimo all’ingl. hock
‘garretto’, significato che apre a tutti quelli che indicano un’articolazione,
una connesione, un insieme, una massa, una unione, un matrimonio, quindi. Lo
stesso ted. Hocke ‘mucchio di covoni’
conferma bellamente il nostro ragionamento come pure l’ingl. hock nel significato colloquiale di
‘impegnare’, il quale è sempre un ‘legare qualcosa a qualcos’altro’. Si tenga presente anche la variante ingl. hitch ‘annodarsi, impigliarsi’ nonché
(amer. colloq.) ’andare d’accordo, essere in armonia’. Fa parte di questa serie
anche l’it. cocca, considerato di
etimo sconosciuto, nel significato di ‘nodo’ agli angoli di un fazzoletto. Ma, a ben riflettere, anche l’altro
significato di ‘tacca all’estremità della freccia’, che permette l’aggancio
della freccia con la corda, fa capo a quello generico di ‘connessione, unione’
specializzatosi e incrociatosi con altri significati. Molto probabilmente, allora, anche il dialettale (centro- meridionale) cocchia 'coppia, pariglia' sarà derivato da un precedente *coc-ula piuttosto che essere variante di lat. cop-ula 'legame'. Il significato tipografico di Hochzeit, poi, e cioè quello di 'doppione', parla chiaro. Altri termini li lasciamo
stare, questi esempi bastano ed avanzano.
Per la componente –zeit e il
suo probabile incrocio con un originario termine per ‘matrimonio’ o
‘massa, impasto’ si guardi il danese taet ‘spesso’ (agg.), dan. tit ‘spesso’(avv.), ebraico tit ‘terra argillosa, terra grassa’,
ted. Tit-sche 'salsa, intingolo', ted. Mahl-zeit 'pasto' (non 'ora di pasto', che si dice essen-zeit) il cui 1° membro Mahl- in tedesco significa da solo ugualmente 'pasto', ingl. tod ‘unità di peso per lana, fascio,
massa’. Ma la cosa più interessante è
incontrare nella lingua egizia il termine tit,
tjet, tet (con varianti) ‘nodo di
Iside’, un particolare tipo di nodo che la dea egizia, nota in tutto il bacino
del Mediterraneo, portava tra i due seni. Essa secondo la leggenda istituì
anche il matrimonio ed è quindi
possibile che questo nome tet, tit, tjet avesse avuto in qualche lingua
o dialetto del mondo egizio proprio quel significato, giunto in verità fino a
noi.
Interessante è anche l’esatta corrispondenza di questo tratto di
sonorità zeit < zit con il
dialettale meridionale zita, termine
che indica solitamente un tipo di pasta (la
quale si configura appunto come un impasto, mescolamento, unione), oltre a
designare lo sposalizio stesso e il matrimonio. Questo significato —è importante notarlo—
non è dovuto al fatto che anticamente il tipo di pasta veniva usato anche nei
pranzi matrimoniali, ma alla circostanza che doveva esistere nei nostri
dialetti un termine simile o uguale per ‘matrimonio’ che si incrociò con quello
corradicale per ‘impasto, pasta’ e determinò l’impiego di quel tipo di pasta
nel pranzo delle nozze. Che la pasta zita assomigli a quella più nota come bucatini è dovuto all’incrocio con un
probabile termine come l’ingl. teat
‘capezzolo’, una sorta di tubicino, dotto per la fuoruscita del latte.
La leggenda di Santa Zita, inoltre, la vergine (cfr. tosc. cita ’ragazza’) di Lucca di umile
famiglia, narra, tra l’altro, che essa mangiava lo stretto necessario e lavorava
indefessamente tanto da essere diventata esile come un fuscello, cioè come uno stelo
di paglia, dunque, altra epifania del concetto di “bucatino”, cioè la pasta
zita.
La Santa, un giorno, essendo rimasta a pregare troppo a lungo dopo la Comunione,
e dovendo preparare il pane per la famiglia del ricco mercante presso cui svolgeva
il suo servizio di domestica, trovò miracolosamente la farina già impastata nella madia: è evidente che il
suo nome, fatto derivare dal toscano cita,
citta ‘ragazza’, si incrociò con
termini indicanti il concetto di “unione, impasto, matrimonio” di cui ho
parlato sopra. L’it. zitella, diminutivo di zita, a mio parere conferma l’incrocio
della radice con quella per ‘matrimonio’: il suo significato originario di
‘ragazza non sposata’, infatti, senza la connotazione dispregiativa attuale, si
sarà originato proprio a contatto con l’altro termine simile per ‘matrimonio’,
che avrà generato prima il significato di ‘ragazza da matrimonio, da marito’ e
quindi quello di ‘ragazza non sposata’.
Tutto dottissimo, a parte il nodo di Iside "tra i due seni". Questo significa che la dea aveva tre mammelle, essendo, il seno, l'insenatura che le divide. Certo: in alcune statue, alla dea se ne scolpivano anche di più. E' evidente, però, che qui non ci si riferisce a quella iconologia. E, comunque, la "forma", di cui parlo, non è iconica, ma linguistica.
RispondiEliminati prego parla di altre etimologia di parole tedesche
RispondiElimina