Uno degli errori, se non l’errore più gravido
di conseguenze, che gli etimologi commettono quando cercano di rintracciare il valore
originario di un vocabolo è quello di non tener conto della pletora di
significati che qualsiasi termine può aver avuto nel corso della sua veramente
lunga storia la quale, contrariamente a quello che generalmente si crede, può spingersi
ben addentro al vastissimo periodo preistorico del Paleolitico. Questo fatto, poi, è tanto più sconvolgente
quanto più si constata che la mutevolezza dei significati non è causata solo dal
gioco dell’estensibilità figurata del presunto significato di base di un
termine, in uno stadio qualsiasi della lingua o delle lingue in cui esso o la
sua radice appare, e quanto più si constata
l’importanza del gioco casuale degli incroci con altri termini apparentemente
simili nella forma e talora diversissimi nel significato, ma soprattutto quanto
più si constata che il significato originario di un termine è talmente generico
e vasto da poter comprendere in sé uno smisurato numero di significati ad esso subordinati
che lì per lì sembrerebbero reclamare un’origine non comune ma separata. In altre parole, il lavoro dell’etimologo viene
a mio parere irrimediabilmente intralciato dal pregiudizio che ogni radice sia
nata per designare un concetto o un referente determinato quando invece
bisognerebbe prendere atto che essa, all’origine, ha un significato
genericissimo uguale a quello espresso da tutte le altre radici e che solo
attraverso l’uso in un dialetto e in una lingua la radice solitamente perde il
suo significato generico per acquisirne uno più specifico subordinato a quello
generico, rendendo così più precisa e agevole la comunicazione tra i parlanti.
E’ quello
che a mio parere è successo anche al termine storico Fara. Fin dagli anni del liceo mi è stato insegnato
che esso indicava, tra i Longobardi, un insieme
di uomini o famiglie legati tra loro da vincoli di sangue che li riconducevano
ad un progenitore comune e che essa costituiva la base per la creazione di un
contingente militare utile per le loro continue migrazioni insieme a donne,
vecchi, bambini e animali affrontate a partire dal II sec. d.C., migrazioni che
li portarono ad occupare gran parte dell’Italia, dal VI sec. d.C. fino
all’VIII. La Fara era insomma pressappoco
il corrispettivo di quello che, con termine tedesco, oggi si indica come Sippe ‘famiglia, schiatta, prosapia’. Molti sono i paesi che in Italia hanno il
nome di Fara o Farra che, secondo tutti gli studiosi, sarebbero la prova della
presenza in quelle località di fare
longobarde ivi stanziatesi sotto la guida di un duca, perché ogni fara ne
aveva uno. La fara è stata vista anche come un ‘popolo in armi in movimento’,
secondo l’etimologia che vorrebbe ricondurre il termine alla radice del ted. fahr-en ‘viaggiare’. Ma così non è. Perché se è vero che deve
esserci stato, fra questi due termini, un normale incrocio che ha influenzato
il significato di fara, è altrettanto
vero che l’etimo deve essere a mio avviso cercato altrove.
Nell’articolo
Il parapetto del mio blog[1] ho già
incontrato quella che per me è la radice appropriata della parola di cui si
discute. Alla nota 4, soprattutto, ho
mostrato come l’ingl. fr-iend ‘amico’, che in scozzese vale ‘parente’ come in antico alto
tedesco fr-iunt
‘parente’, con sincope della vocale /a/, debba essere collegato proprio all’it.
par-ente e non al lat. par-ente(m) ‘genitore’, benchè le due radici, quella che indica un singolo
membro di un parentado e quella che
invece designa il generatore di una
singola famiglia finiscano per coincidere: si pensi, per fare un esempio, al variare
di significati tra lat. gent-e(m) ‘gente’ (complesso di famiglie nella Roma antica unite dal
nome, dal capostipite, dagli usi religiosi, oppure ‘popolo, razza, nazione’),
ingl. kind ‘genere,tipo’, ted. Kind ‘figlio, figlia, bambino,
fanciullo’, ingl. kin ‘parentado,
congiunti, famiglia, parente’ e ci si renderà conto come una stessa radice
possa essere usata ad indicare sia il genitore che il generato (figlio), sia la
singola famiglia costituita da un insieme di membri uniti da strettissimi
vincoli di sangue, sia un insieme di
famiglie, sia un più generico insieme
di persone o cose. Di solito si è
portati a credere che questi significati si siano sviluppati tutti da quello
iniziale di generare e non si
sospetta minimamente che quest’ultimo invece potrebbe essersi sviluppato, ad esempio,
proprio da un’idea precedente di “gruppo, unione, congiungimento” riferita
all’atto sessuale degli animali che nella procreazione sono soliti copulare, appunto, dando luogo a quell’unione che è alla base di ogni gruppo possibile ed immaginabile di
uomini, animali e cose. Questo è il
motivo per cui non si può sostenere, ad esempio, che il lat. co-et-u(m)
‘radunanza, aggregazione, scontro –cfr. it. ceto’ sia diverso e posteriore al lat. co-it-u(m) ‘coito’ che vale anche
‘congiunzione’ in senso generico. Ambedue presuppongono il verbo lat. co-i-re ‘andare (-ire) insieme (co-),
riunirsi, azzuffarsi, associarsi, congiungersi sessualmente’ che ci ricorda
come alla base di tutti i significati specifici dorma in genere l’idea primordiale
di “movimento, spinta, forza”. Lo stesso
gr. koítē, almeno nel significato di ‘canestro,cesta,
paniere’, presuppone una matrice comune
con le rispettive forme latine per ‘coito’ o ‘ceto’ prima che avvenissero le
relative specializzazioni : una cesta
è sempre un insieme, non di uomini ma
di vimini.
Tornando
alla fara dei Longobardi, variante secondo
me della forma para di cui parlo
nell’articolo Il parapetto sopra
ricordato, mi pare di poter affermare che il suo significato originario indicasse
il rapporto tra uomini legati tra
loro da vincoli di consanguineità per via della loro discendenza da un antenato
comune: anche in questo caso, come vado dicendo spesso in questi ultimi articoli,
potevo risparmiarmi la fatica di andare a trovare l’etimo giusto, potendolo
ricavare, starei per dire ad occhi chiusi, dal significato fondamentale della
stessa parola fara.
Cose
straordinarie si scoprono se si va un po’ a riflettere su alcuni termini antichi
riconducibili, come tra poco vedremo, alla parola in questione. Il lat. farre-ation-e(m) o con-farre-ation-e(m) indicava una forma
di matrimonio romano tra patrizi che
avveniva attraverso l’offerta di una focaccia, che forse veniva assaggiata
anche dagli sposi, a Giove Farreo (cfr. lat. far ‘farro’), presenti il Pontefice Massimo, il Flamine Diale e dieci
testimoni. Il verbo lat. con-farre-are
valeva ‘unire in matrimonio’. A me
sembra impossibile derivare questo significato dal nome del tipo di grano
indicato apparentemente dalla radice, cioè il farro. In effetti né il significato di ‘unire’ né quello di
‘matrimonio’, che nel fondo ribadisce sempre quello di ‘unione’, si possono
ricavare da questa radice per ‘farro’.
Mi sembra altrettanto impossibile che l’idea centrale espressa da questo
istituto matrimoniale, quella di “unione” appunto, la si debba ricavare dal farro una cui focaccia entra a far parte
della cerimonia. Perché mai la focaccia
di farro ha tutta questa importanza, ammesso che veramente l’abbia avuta? I linguisti sono troppo frettolosi, a mio
parere, quando rimandano ad essa l’etimo di con-farre-ation-e(m) senza tentare
nemmeno di giustificarne in qualche modo la presenza nella cerimonia. Queste
concrete difficoltà si dissolvono non appena baleni nella nostra mente l’illuminazione
chiarificatrice, secondo la quale la con-farre-ation-e(m) non è altro che un
termine che contiene proprio la stessa radice del termine fara, nel suo valore fondamentale di ‘unione, congiungimento’, come
quello che si concretizza nel matrimonio fra i due coniugi o anche nel significato
di aggregazione della sposa alla
famiglia dello sposo[2]. La cosa è a mio avviso dimostrata dal termine
arcaico ingl. fere ‘compagno, collega, marito, moglie’ fatto
derivare erroneamente dall’antico alto tedesco far-an ‘andare, viaggiare’ come il ted. Ge-fähr-te ‘compagno, amico’, il quale quindi
non significava originariamente ‘uno che viaggia insieme con un altro’ ma
semplicemente ‘uno pari o appaiato ad un altro’. Naturalmente
l’incrocio col verbo far-an ‘viaggiare’, che pure ci è stato, non è avvenuto senza
conseguenze: ha prodotto il significato aggiuntivo e complesso di ‘compagno di
viaggio’ che si affianca a quello originario di semplice ‘compagno, amico’. La
radice puntualmente rispunta nel lat. ferru-men o feru-men ‘saldatura,
connessione, incollatura, materia per saldare’[3]. Tutto
ciò provoca un nostro ammirato stupore, per l’improvvisa facilità e abbondanza
di riscontri probanti per le nostre tesi, unito al senso di vicinanza che
percepiamo tra le lingue europee, molto maggiore di quello che eravamo abituati
a provare! Ripeto ancora una volta (come
un mantra che dovrebbe scuotere le nostre coscienze o come una sorta di fissazione
tipo la “Delenda est Carthago” di catoniana memoria) il pensiero di Einstein
secondo cui una teoria è tanto più valida
quanto più numerose sono le cose che collega.
Una
cerimonia, un rito hanno sempre bisogno, poi, di un minimo di gesti, usi, comportamenti
che vengono alimentati quasi inconsapevolmente, nel corso dei millenni,
dall’incrocio del termine che indica il nucleo dell’avvenimento con altri
simili in superficie ma con significati diversi da quello originario in
profondità, i quali possono finire col prevalere se nel frattempo il
significato iniziale del termine è scomparso dall’orizzonte lessicale della
lingua e vive magari solo in forme che solo lo studioso riesce a scovare, come è successo in questo
caso. Questo fatto inoltre dimostra ancora una volta che la rigida distinzione
nel trattamento delle consonanti esplosive indoeuropee, come viene teorizzata
dagli studiosi, la quale prevede la trasformazione in spirante /f/ della
esplosiva labiale /p/ nelle lingue germaniche (cfr. lat. pater/ingl. father) deve essere corretta e spiegata
in altro modo, visto che forme in spirante /f/ si incontrano anche in aree
diverse da quelle germaniche, come quella latina.
Il lat. farr-agin-e(m) ‘biada, mangime misto per animali; mistura,
miscuglio’ non trae il nome da quello del farro
che è uno degli ingredienti insieme ad altri cereali (orzo, grano, ecc.) bensì
dal significato di fondo della radice che è quella di “mescolanza, confusione,
ecc.”, altra forma di ‘unione, congiunzione’ che può assumere un’apparenza più
ordinata nello spagn. parr-illa ‘griglia’ con le sue stecche o ferri incrociati secondo un
disegno. Esisteva anche la variante lat.
ferr-agin-e(m) con lo stesso significato che
ha dato il dialettale fërr-àina in Abruzzo. Questo termine poteva
riferirsi anche a piantine in erba di cereali, mietuti prima di maturare per il
foraggiamento degli animali. La radice
compare a mio avviso anche nel gr. phár-os ‘tessuto, panno, tela, mantello, coperta,
ecc.’. Lo stesso termine greco vale
anche ‘aratro’ e viene riportato dai linguisti alla radice di gr. phár-ynks ‘gola, faringe’ e accostato al
significato di lat. for-are ‘forare,
bucare’. Ma non è così! L’aratro è una struttura, uno strumento composto di vari elementi incastrati tra loro, e quindi il
termine qui ribadisce il concetto di “commettitura, congiungimento, unione,
intreccio” sotteso anche a quello di “tessuto”[4]. Anche il lat. for-u(m) ‘ponte della nave’ ribadisce la cosa, in quanto il ponte è
costituito da serie di tavole interconnesse. Il plur. fori indica ‘file di sedili, celle delle api, tavola da gioco
(scacchiera)’, tutti significati relativi ad oggetti costituiti di più
elementi. La radice ricompare anche
nell’egizio paar ‘tessuto’. Le parole sono certamente più vetuste delle
stesse piramidi d’Egitto e ingannano anche i linguisti, come dimostra la lunga
storia di questo FAR -/PAR– che taluni vorrebbero confinare al
ted. fahr-en ‘viaggiare’, senza tener conto dei
suoi numerosi agganci sia in senso orizzontale che in quello della
profondità.
Da ultimo,
per completare adeguatamente il quadro, bisogna assolutamente parlare della Festa delle Farchie che si celebra a
Fara Filiorum Petri nel Chietino in coincidenza della Festa di Sant’Antonio
Abate. Le farchie sono fasci di canne che, legati da ritortole di rami di
salice rosso, raggiungono il rispettabile diametro di circa 1 m. e un’altezza
fino a 8-10 m. La sera della vigilia della
festa, il 16 di gennaio, esse vengono incendiate secondo un rito simile a tanti
altri in Italia e in Europa connessi con antichissime festività preistoriche
legate in genere al ciclo annuale del sole.
Ma in questo caso credo si possa parlare, per i motivi che subito dirò,
di una festa che sanciva il raggiungimento di una stretta alleanza federale di
piccole comunità preistoriche circonvicine, come la festa del Settimonzio della
Roma primitiva, e che finì col confondersi con la festa del Santo di Padova.
Da ciascuna
delle varie frazioni e contrade (12) del comune di Fara si muove, il giorno
della festa, una farchia per raggiungere il piazzale della chiesa di
Sant’Antonio. Oggi essa viene
trasportata da un trattore, in passato naturalmente da un carro trainato da
buoi se non addirittura sulle spalle dei contradaioli. Ora, che cosa possono rappresentare queste
farchie nell’ambito di questa manifestazione tradizionale? Il nome farchia
deve ricorrere anche altrove in Abruzzo, come a Trasacco nella Marsica, dove
indica appunto un grosso fascio di frasche che veniva acceso la sera della
vigilia della festa di Sant’Antonio, ma indicava anche un normale fascio di
frascame usato per l’accensione dei tradizionali forni per il pane[5]. C’è nel nome l’idea di fascio non disgiunta però da quella di fuoco. Il sostantivo farchia deve provenire da una forma
italica *far-cula non
attestata ma altamente probabile, data la nostra ormai profonda conoscenza
della radice FAR- che abbiamo detto indicare sostanzialmente un raggruppamento, una unione che in questo caso si concretizza nel fascio di frasche o canne con tutti i valori figurati connessi di
stretta unione fra due persone (matrimonio), fra più persone (famiglia) o fra
più famiglie costituenti la fara
longobarda. Ma poteva senz’altro
indicare anche una probabile federazione di piccole comunità preistoriche limitrofe che per motivi economici, religiosi
e militari avevano sentito la necessità di unirsi
e di eleggere una sede comune che le rappresentasse tutte. Ecco perché ancora oggi a Fara Filiorum Petri
le farchie si muovono dalle numerose frazioni verso il sagrato della chiesa di
Sant’Antonio, attualmente ai bordi del paese di Fara. Lì, seguendo i precisi comandi
del capofarchia (come fosse un duca della fara longobarda), i
contradaioli mettono ciascuna di essa in posizione verticale fissandola in modo
che non cada. Sempre a Trasacco la parola farchia,
oltre a designare una leguminosa simile alla cicerchia, ha il valore di
‘grossolana farina costituita dalla mistura
di diversi cereali e usata per approntare un pastone per gli animali’.
Date le
precedenti considerazioni a me pare inattendibile la vulgata secondo cui le
numerose Fara, Farra della toponomastica, sparse nel territorio italiano, sarebbero
la spia dello stanziamento in queste località di unità famigliari e militari
dei Longobardi. Il termine l’abbiamo
visto arrivare da molto lontano, sia nello spazio che nel tempo, e così poteva
benissimo indicare un nucleo abitativo o una comunità (secondo l’etimo)
risalente ad epoche di molto antecedenti a quella dei Longobardi. Il nome della
frazione Leo-fara, ad esempio, nel
comune di Valle Castellana nel teramano, mi sembra possa essere interpretato come
composto da due radici tautologiche per popolo,
comunità, paese: quella di –fara,
che conosciamo, e di leo- dal gr. léōs ‘popolo, schiera’.
Per dare un
esempio della varietà di forme e di significato che una parola può assumere (e
che a volte scompaiono senza lasciare traccia) faccio notare che a Palena-Ch si
incontra la voce forchja che indica
un caprile, un piccolo spazio delimitato da graticci
di canne, un’altra forma di insieme,
gruppo . Il termine non può derivare da un lat. furc-ula(m) ‘piccola forca’ ma deve
richiamare la radice del lat. for-u(m) ‘ponte della nave’ sopra citato, da un precedente *for-cula(m) non attestato. A Rapino-Ch, un
mazzetto di canne (un altro insieme) infiammate, usato per bruciare le setole
del maiale ammazzato, viene chiamato firchje,
altra variante di farchja. Sembra strano, ma non lo è: la variante porta
con sé il ricordo, a mio avviso, dell’incrocio con un nome per ‘maiale’
incontrato nella notte dei tempi e poi scomparso: il ted. Ferk-el ‘lattonzolo, porcellino’, imparentato con lat. porc-u(m) ‘porco, maiale’. Dimenticavo le ferchje (al posto di farchje)
di Casacanditella, sempre nel Chietino.
Sembra di essere di fronte a certe varietà di forme apofoniche così
frequenti nell’area germanica! La farchia
in qualche dialetto indicava proprio un ‘tipo di canna’ con le cui foglie si
impagliavano le sedie (cfr.lat. fer-ulam ‘ferula, canna’). E’
facile immaginare che in questi casi la parola dovesse nascondere un
significato generico originario di ‘erba, pianta, pollone,rampollo’ con
riflessi semantici anche nel regno animale. Lo stesso lat. far ‘farro’ è una
piantina come lat. far-far-u(m) o far-fer-u(m) ‘farfaro’, con radice raddoppiata,
che è un tipo d’erba.
Il concetto
di “fuoco, falò” che sembra accompagnare questo termine potrebbe non essere secondario,
nel senso che esso non sarebbe stato indotto dall’uso cui la farchia è
destinata. Esso potrebbe essere
effettivamente autonomo rispetto all’altro di ‘insieme, gruppo, fascio’. E’ noto che il termine faro, la cui radice assuona perfettamente con quella di far-chia, viene fatto risalire al nome dell’isoletta di
Faro di fronte ad Alessandria d’Egitto dove esisteva un faro per la
navigazione. Ma taluni, a ragione, fanno
notare che la parola potrebbe di per sé indicare ‘luce, splendore, fuoco’ se si
tiene presente la radice greca PHA- ‘risplendere’ e i termini copti firi ‘risplendere’ e fra ‘sole’[6]. Si noti
la somiglianza con l’ingl. fire
‘fuoco’, ted. Feur ‘fuoco’ i quali,
più che essere considerati trasformazioni
di un termine come il gr. pŷr ‘fuoco’ con la labiale /p/ iniziale, debbono a mio
avviso essere visti come forme parallele intercambiabili esistenti già dai
primordi. Propendo a credere che nel
teonimo Iuppiter Farreus, divinità cui si dedicava la focaccia di farro nella cerimonia
matrimoniale di cui sopra, l’epiteto Farreus fosse, prima che avvenisse l’incrocio con la
radice di farro, un appellativo
autonomo di Giove, dio della luce del
giorno[7]. Il verbo lat. ferru-min-are ‘saldare’ (presente anche in italiano per via dotta) era
usato in genere per i metalli e allora doveva alludere a saldatura a fuoco. Nello
stesso mito Prometeo ruba il fuoco agli dei nascondendolo nell’interno di una fer-ul-a(m) ‘canna’ e lo porta agli uomini. Allora
la radice fer- doveva nasconderne un’altra per ‘fuoco’, come avviene spessissimo
in questi casi.
Un’ultima
osservazione si deve fare in merito al lat. ferr-u(m)
‘ferro’ ed è a mio avviso di notevolissima portata, onde io “del vedere in me
stesso m’essalto” come il nostro padre Dante[8]. L’etimo di lat. ferr-u(m) dà molto da fare ai linguisti che restano molto incerti nelle
loro proposte. A mio avviso questo
succede perché, anche in questo caso, mancano del metodo giusto. Io ricavo l’etimo piuttosto facilmente da
quanto ho detto precedentemente sulla radice FAR-/FER- e da una semplice riflessione
sul minerale ferroso, dinanzi a cui si trovarono gli uomini che dovettero per
primi nominarlo, naturalmente sfruttando, come avveniva quasi sempre, qualche termine
già esistente nel loro vocabolario. Infatti
la cosiddetta magnetite, uno di questi minerali, si presenta come un insieme di cristalli cementati con
materiale roccioso: una vera e propria ferr-agine(m) = farr-agine(m) ‘mistura (di cereali)’ o ‘impasto, ammasso’ dunque! E che dire di lat. ferra-mentu(m) il quale indica qualsiasi
strumento in ferro, compresi l’aratro e il rastrello, come lo stesso lat. ferr-u(m)?
Ma se solo si riflette sul fatto che l’aratro fu inventato almeno
5-6mila anni prima della scoperta del ferro o almeno del suo uso industriale, e
che esso era quindi costituito solo di elementi lignei, si deve dedurre che non
solo il suo nome più diffuso di aratru(m)
ma anche questo più raro di ferru(m)
dovevano andare a perdersi nella notte dei tempi, data del resto la normale
ancestralità di tutti i termini o, almeno, delle loro radici. E ce lo conferma proprio il gr. phár-os che significa ‘tessuto’ ma anche
‘aratro’! Il rastrello, usato ancora
fino a ieri nelle nostre campagne, era normalmente di legno perché più
maneggevole e meno costoso rispetto ad esemplari di ferro. E’ pertanto vano pensare, come purtroppo
siamo in certo senso costretti a fare oggi, che i ferri del mestiere siano una parola inventata successivamente alla
scoperta del relativo metallo! Nulla di
più falso! La parola, inoltre, non indicava in via figurativa gli strumenti,
bensì la struttura o composizione di cui essi si sostanziavano!
L’it. inferriata sicuramente non è
nato come ‘intreccio di aste di ferro’ ma solo come ‘intreccio’ e basta! L’it. afferrare
non è il risultato del mettere mano al
ferro (una spada, ad esempio), come si pensa, ma solo un mettere la mano su, nel senso di ‘contattare,
attaccarsi, impossessarsi’ e quindi ‘prendere (con forza)’ o ‘comprendere’ qualcosa.
L’it. sferrare, in tutti i suoi
sensi, ne rappresenta l’opposto attraverso il prefisso s- con valore privativo negativo. L’it. ferrato, nel senso di essere un valido conoscitore di una materia o
argomento, non deriva dall’essere ben corazzato
o armato ma piuttosto dall’essere ben
saldo o solido nella conoscenza di quel certo argomento.
La giurisprudenza
un tempo prevedeva, tra diversi tipi di associazioni agrarie, la soccida di ferro (non so se sia contemplata
ancora oggi dal Codice civile), un contratto di natura associativa in base al
quale il locatore di un fondo lo cedeva in affitto al conduttore insieme ad un
certo numero di animali senza partecipare agli utili e alle spese
dell’allevamento, ma a condizione di riavere, alla scadenza del contratto, gli
animali che aveva ceduto o, più precisamente, animali dello stesso valore di
quelli che aveva affidati all’inizio al locatario. Il contratto era chiamato anche locazione di ferro[9]. Ora vi sono due possibilità di spiegazione per
questa espressione. Si sa che soccida
corrisponde al nominativo lat. societas
‘società, unione, compartecipazione, accordo’, con ritrazione dell’accento
tonico sulla prima sillaba. Il vocabolo ferro o lo si considera una sorta di
tautologia rispetto a soccida, e cioè
un antichissimo termine per ‘accordo, patto, unione’ trascinato con sé,
attraverso strati linguistici diversi, dal termine soccida subentrato successivamente o lo si può intendere come usato
ad indicare la caratteristica fondamentale di questo contratto, costituita dalla
parità del valore degli animali
ceduti e di quelli riconsegnati alla fine dal locatario. La voce arcaica ingl. fere ‘compagno, collega, marito, moglie’, di cui ho parlato già
sopra, nei dialetti attuali britannici indica una persona di rango
o competenza uguale, pari[10]. I due significati di ‘compagnia, società’
e di ‘uguaglianza, parità’ sono interdipendenti come sappiamo. In abruzzese il sostantivo sòccë (ma anche sóccë – ad Aielli) vale ‘mezzadro’ o ‘socio di un accordo, in
genere non scritto, di una sorta di soccida,
mentre l’aggettivo sòcce/sóccë vale
‘pari, uguale’[11]. Lo stesso lat. firm-u(m) ‘fermo, solido’, che secondo me è ampliamento in /m/ di
questa stessa radice FER-, ha dato in francese ferme che significa, tra l’altro, anche ‘locazione, affitto,
appalto’: siamo quindi sempre vicinissimi al concetto di “accordo, contratto”. La voce fërmèlla/frëmmèlla ‘bottoncino per camicie e
grembiuli’ del dialetto di Trasacco[12] non ci può più nascondere
la sua antica natura di ‘fermaglio’ o ‘strumento (per fermare, chiudere, connettere,
unire)’. Il fr. ferme significa anche ‘travatura del tetto’ che assuona bene, anche
nel significato, con ingl. frame
‘intelaiatura, ossatura, montatura, cornice, ordinamento, sistema, forma, modulo‘(cfr. ingl. roof
frame ‘orditura del
tetto’). Il gr. phorm-ós vale ‘cesta, stuoia, fascio,
legno incrociato’, cioè un intreccio, un insieme.
A questo punto non si può trascurare il
lat. forma(m) ’forma’ (dai molti
significati tra cui, ad esempio, quelli di ‘cornice, ordinamento, sistema,modulo’[13], presenti anche nel citato
ingl. frame) erroneamente considerata
metatesi di gr. morphé ‘forma’: forse
è vero l’inverso, il termine greco è metatesi del latino. Il verbo lat. form-are significa ‘formare, plasmare, creare, istruire, educare,
allevare’, tutti significati che a mio avviso scaturiscono da quello nascosto
nel fondo di ‘mettere insieme, comporre, fare, lavorare’: la radice, non
dimentichiamolo, è sempre quella, ad esempio,
di lat. ferru-min-are
‘saldare’, lat. firmu(m) ‘fermo,
solido’, ecc. Possiamo unire al gruppo
l’ingl. to farm ‘coltivare, allevare (animali)’ che forse fu presa dal fr. ferme ‘fattoria, casa colonica’ ma più
probabilmente è variante di ingl. frame
‘struttura’. Buon ultimo arriva il lat. parm-a(m) ‘scudo piccolo rotondo’, dal gr. párm-ē
‘scudo piccolo rotondo’. I nomi di questi oggetti naturalmente risalgono ad un
periodo antichissimo quando essi erano composti di un’armatura in legno che sosteneva graticci di vimini, magari a più
strati rinforzati da imbottiture varie.
Si trattava dunque di veri e propri strutture
o strumenti nel senso etimologico di
‘composizione’. Infatti il gr. hopl-on valeva ‘gomena, arnese, strumento,
arma, scudo (pesante)’. Il concetto di
“rotondità” che accompagna la parma si
ritrova, ad esempio, nell’ingl. frame
che significa anche ‘orbita’. Ma doveva nascondersi anche nel lat. form-a(m), nel significato di ‘forma per
fare il formaggio’, se è vero che nell’industria casearia il termine forma “indica un cerchio di legno
rotondo in cui si versa il latte coagulato per fare il formaggio”(R. Nannini,
1561)[14]. I composti ingl. farm-house ’casa colonica’ e frame-house ‘casa con ossatura in legno’, che sembrano creati apposta per
indicare i loro rispettivi referenti, in realtà dovettero nascere come varianti
tautologiche indicanti semplicemente la ‘casa’, come avviene per la maggior
parte dei nomi composti germanici. Mi fermo qui sperando di aver dilettato
almeno un po’ qualche sporadico, paziente e gentile lettore.
Ora potrei anche lasciare questo mondo,
soddisfatto del lavoro compiuto, se non proprio felice!
[1] Cfr.
l’articolo Il parapetto del febbraio
2016 (pietromaccallini.blogspot.it).
L’articolo andrebbe letto prima di questo.
[2] In effetti il termine con-farre-ation-e(m)
rivela lo stesso fenomeno da me riscontrato nel termine com-pan-atico, in cui il
pane non c’entra nulla col
significato profondo di ‘accompagnamento, unione’ che la parola a mio parere
ha. Anche qui il farro non c’entra nulla col
significato di ‘matrimonio, unione’ che essa indica (cfr. l’articolo Il flauto di Pan nel mio blog). La Lingua ci conferma ancora una volta che
essa ama chiamare le cose per quello che sono, direttamente. E che quindi dobbiamo essere molto ma molto
guardinghi quando ci troviamo di fronte ai vari usi cosìddetti traslati o
figurati o metaforici delle parole: nella maggior parte dei casi vi si nasconde
un bluff!
[3]
Naturalmente non credo che questo feru-men derivi da una radice indoeuropea DHER da cui deriverebbe lo stesso lat. firm-u(m) ‘fermo, solido’.
[4] Per il lat. aratr-u(m) e gr. árotr-on (cret. áratr-on) non inganni il facile rimando ai verbi lat. ar-are
‘arare’ e gr. aró-ein
‘arare’. A mio avviso bisogna pensare
che il nome dello strumento sia formato da due radici tautologiche per
‘connessione, congiungimento’ rappresentate dalla nota radice indoeuropea AR (cfr. gr. árthr-on ‘giuntura, articolazione’
simile per altro ad aratro) e dalla
voce gr. ētri-on, dorico átri-on ‘trama, ordito,
tessuto’. L’azione dell’arare deve essere vista, poi, come un
congiungimento penetrativo del vomere e della terra la quale viene così quasi
ad esserne fecondata, significato espresso da alcune parole greche della
stessa radice.
[5] Cfr. Q.Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq,
2003. A San Marco in Lamis, nel
foggiano, le farchie sono chiamate fracchie per metatesi e accompagnano la
processione serale del Venerdì Santo.
Una volta avevano la grandezza di normali torce, oggi son o invece molto
più grandi.
[6] Cfr. dizionario etimologico
di O. Pianigiani in rete.
[7] Cfr. ant. iraniano far-nah ‘luce’, lat. for-n-u(m) o fur-n-u(m) ‘forno’, lat. for-m-u(m) ‘caldo’.
[9] Cfr. dizionario etimologico
di O. Pianigiani in rete, s. v. ferro.
[10] Cfr. il vocabolario inglese
Merriam-Webster.
[11] Ad Aielli, il mio paese, il
proprietario che possedeva una sola vacca si metteva d’accordo con un altro
proprietario che era nelle sue stesse condizioni, per poter formare una coppia
di buoi necessaria per l’aratura. Egli
così diventava un sóccë ‘socio’.
[13] Veramente è il diminutivo
lat. formula(m) a significare anche ‘formulario’.
L’ingl. form ‘modulo’, derivato dal
lat. form-a(m) ‘forma’ fa supporre che anche il
nome non alterato avesse in latino il significato di ‘formulario,
modello’. Ma soprattutto esso ci induce a credere, a mio parere, che l’ingl. frame ’struttura, modulo’ doveva essere
nei primordi preistorici una semplice variante di lat. form-a(m) presente su suolo britannico, o altrove nell’area
germanica, già prima dell’arrivo dei Romani.
Il cacio-cavallo, che dà tanto
da penare agli etimologi, per me è una normale tautologia. Il costituente –cavallo è della famiglia di ingl. wheel ‘ruota’, da antico ingl. cweel ‘ruota’. La voce si è adattata poi ad indicare la
forma rotondeggiante ( a pera) del caciocavallo. Cfr. anche la voce abruzzese cuèlla (ad Aielli) ‘una ciambella di
legno di olmo o salice’ adattata al basto per farvi passare i legacci che assicurano
la soma. Esiste nei dialetti abruzzesi la voce cuvéjjë, covélla ecc., che indica un ‘anello’ che
fissa il giogo al timone dell’aratro. La
radice è quella di lat. cav-u(m) ‘cavo, concavo’, arcaico cov-u(m). Per la verità si incontra anche la voce
dialettale cóvo
(Toscana), còvë (Abruzzo) ‘anello del giogo’ che rimanda
direttamente al lat. co(h)um ‘incavo
del giogo’ dove inserire o legare il timone, In Ennio cohum vale ‘volta del cielo’(cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani , UTET, Torino
1998). Ma non si può nemmeno escludere una radice in velare, come quella
riscontrabile net ted. Kug-el ‘palla’.
[14] Cfr. M. Cortelazzo-P. Zolli,
DELI Dizionario etimologico della lingua
italiana, Zanichelli editore, Bologna, 2004, s.v. forma. Nel dialetto di Rocca
di Botte-Aq ricorre la voce cassu che indica ugualmente un
‘cerchio di legno di faggio’ dove si spreme la cagliata e si fa scolare per
qualche giorno (cfr.M. Marzolini, “…me
nténni?”, Arti grafiche Tofani, Alatri-Fr, 1995). Allora mi pare credibile
che anche il lat. case-u(m) ‘cacio,
formaggio’ dovesse indicare questo cerchio,
data la sua quasi completa somiglianza col cassu suddetto.
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