A Lecce dei Marsi il gioco del “nascondino” veniva chiamato topatopa [1] e a Rocca di Botte-Aq topo topo .
In altri paesi della Marsica, ad indicare lo stesso gioco, bastava la sola topa, come a Trasacco e Luco dei
Marsi. Ormai ben lo sappiamo, non
bisogna credere per nulla che queste denominazioni siano dovute all’inventiva
estemporanea di qualche ragazzo e che si siano poi affermate definitivamente. La denominazione infatti ricorre non solo
nella Marsica, ma anche altrove in Abruzzo, nel Lazio e addirittura a Milano (toppa) e nel Trentino (tupa).
Questo fatto depone a favore di una sua origine antica, preistorica, in
direzione di un significato che doveva essere, né più né meno, che quello di
‘nascondino, luogo nascosto, tana, buco’.
In effetti un altro nome del gioco era proprio tana, diffuso in molte parti d’Italia.
C’è un’altra osservazione importante da fare. In greco il termine tóp-os, il cui significato più diffuso e
noto è ‘luogo’, indicava anche, in Aristotele, l’organo sessuale femminile
(cfr. il vocab. Rocci). Ora, non si può negare che questo termine, a parte la
desinenza –os, assomigli ad uno dei
nomi più diffusi tra noi per designare l’organo femminile, e cioè topa. Ma perché faccio un simile accostamento? Il
motivo è che, a mio avviso, tutte le voci, dialettali o no, che si riferiscono
all’organo sessuale femminile, anche quando sembra che esse indichino
tutt’altro, in verità all’origine esprimevano, una volta tolte le incrostazioni
superficiali, il concetto di “fessura, cavità, buco” come ho avuto modo di
mostrare in alcuni articoli per alcune di esse[2]. E che cosa c’entra questo con la voce topa ‘nascondino’? C’entra perché secondo
me questa voce, in tempi lontani o lontanissimi, doveva avere proprio il
significato di ‘nascondino, nascondiglio, tana, buco’, cioè il nome stesso del
gioco. Solo che a questo mio saldo
convincimento si oppone la vulgata di tutti gli studiosi secondo cui l’organo
femminile suddetto è chiamato topa
per via figurativa a causa della somiglianza dei peli neri del pube a quelli di
una talpa o un topo, e rincarano la dose osservando che anche la sorca ‘organo femminile’ è così chiamata
perché simile ad un sorco, sorcio,
dal lat. soric-e(m) ‘topo,
sorcio’. E così sembra che,
effettivamente, non mi resti che arrendermi e tacere. Io, però, non demordo perché conosco le mille
trappole che le parole, con le loro radici in vita da decine di migliaia di
anni, fanno scattare prima di concedere la loro ben custodita intimità.
Il ragionamento dei linguisti, che sembra ineccepibile, mostra in realtà
qualche punto debole che può inficiarne la validità: come mai solo il pube
femminile sarebbe coinvolto nella somiglianza col pelo del topo e non anche il
pube maschile, del tutto simile? La lingua, inoltre, che è solita nominare
direttamente le cose (come ho mostrato sovente nei miei articoli), contrariamente
a quello che appare in superficie, perché mai dovrebbe confondere i peli del pube con l’organo genitale femminile? D’accordo, questi sono solo indizi, anche
se sufficienti,però, a mettere in dubbio la veridicità della vulgata dei
linguisti. Ma l’it. toppa ‘buco della serratura’ viene ad assumere in questo contesto
la dignità di “prova”, insieme al milanese toppa
‘gioco del nascondino’, al sardo tupa
‘tana’ ma anche ‘buco della serratura’ e al trentino tupa ‘gioco del nascondino’, anche per la facile allusione
dell’espressione “buco della chiave” all’atto sessuale, e ci conferma così il
sempre presente principio che l’uomo, dando vita al linguaggio, ha normalmente
indicato le cose realisticamente per quello che erano e non perché esse fossero
simili ad altre che d’altronde, soprattutto alle origini, egli doveva in gran
parte ancora nominare. Siamo pertanto più
attenti quando analizziamo i fenomeni linguistici e in questo caso non
lasciamoci fuorviare dalla forza seduttiva del pelo, come recita anche un detto volgare. Questa forza del pelo ha inoltre permesso al locutore di scivolare
inavvertitamente, quasi con naturalezza, da una parola realisticamente cruda e
diretta per i genitali femminili verso l’uso di un termine omofono ma di
significato diverso che comunque si prestava ad indicare per via figurata ed eufemistica una
cosa così pruriginosa come i genitali femminili: ma che si tratti per così dire
di falso gioco eufemistico, perché sotto la superficie del termine ben si
nasconde l’originario termine diretto e crudo, credo di averlo sufficientemente
mostrato sopra, come del resto è avvenuto anche per la coppia fresca/fregna di cui ho parlato nell’articolo sopra citato. Pertanto è
molto probabile che i numerosi termini, con cui viene indicato nei dialetti
l’organo sessuale femminile, nascondano un meccanismo simile in base al quale si
deve andare a cercare in fondo ai vari significati superficiali quelli di buco, cavità, insenatura, ecc. più
direttamente rispondenti alla cosa da nominare. A rendere poi questa operazione non sempre facile c’è da notare che,
in questi casi, le parole che indicavano direttamente
i genitali femminili caddero dall’uso facilitando l’impressione, anzi, la
certezza che, sotto i termini omofoni subentrati al loro posto, non ci fosse
nessun altro termine da cercare: errore gravissimo che insieme a qualche altro
ha impedito, a mio avviso, alla linguistica di aprire panorami nuovi nella
ricerca, molto diversi da quello tradizionale.
Ma è un fatto che, se i termini con i significati nudi e crudi sono
scomparsi, restano comunque, nei dialetti ma anche nell’italiano stesso o in
altre lingue, diversi altri termini più o meno omofoni col significato generico
di ‘cavità’, affine a quello di organo sessuale femminile. Fatto che conferma la bontà di ciò che vado
sostenendo. Ma per tagliare
definitivamente la testa al toro riguardo ai cosiddetti significati figurati o
metaforici delle parole voglio fare l’esempio di una espressione che ho
decifrato proprio qualche giorno fa.
Mi sono chiesto perché, per
definire una persona molto bassa, si usa dire, non sempre scherzosamente, “è un tappo, è un tappetto”. Perché mai
l’inventore, diciamo così, di questa curiosa espressione è ricorso al tappo, tra i tanti piccoli oggetti,
sinonimi o meno di tappo, come cavicchio, zipolo, legnetto, cece, cicerchia, puntina, fuscello, pagliuca, ecc.? Dopo aver riflettuto un po’, poco convinto del
significato metaforico di tappo, mi è
venuto in mente l’aggettivo greco tap-ein-ós ‘umile, misero’ ma anche
‘basso (di luogo), basso di statura’. In
italiano tapino ha mantenuto solo il
significato figurato di ‘misero, infelice, povero, ecc.’ e chi cita il termine
greco solitamente dimentica questo significato che doveva essere quello
concreto originario. La forma dialettale tappìnë[3] con la
labiale raddoppiata ci fa capire che la parola dovette essere intesa ad un
certo momento come diminutivo di tappo
e questo favorì l’origine dell’espressione suddetta essere un tappo ‘essere assai basso’. Ma poteva esserci in Grecia e altrove un
sostantivo poi caduto in disuso, formato dalla radice dell’aggettivo tap-ino.
Le tappine in Sicilia e
altrove sono scarpe basse, senza tacco, pianelle. Nella laguna veneta le tappine sono fondali bassi, secche.
Anche nella lingua spagnola il termine tapón
‘tappo’ viene usato, familiarmente, per ‘persona bassa’.
Qualcuno fa derivare l’aggettivo tapino
dall’ant.fr. tapin ‘nascosto,
silenzioso’ di origine germanica, cfr. gotico tapp-jan ‘nascondere’, che per me è variante, nella radice, di it.topa ‘genitali femminili’ o it. topa ’nascondino’. D’altronde anche l’ingl. tap ‘zipolo,tappo’, ted.occid. tap
‘tappo’, ted. moderno zapf
‘zipolo,tappo’ insieme all’it.tappo
condividono con il verbo gotico citato la funzione di “nascondere” nel senso
di ‘coprire, chiudere’ in riferimento ai
vari buchi di recipienti contenenti in genere liquidi. Da non dimenticare la variante ingl. top ‘tappo’ come nell’espressione (bottle) top ‘tappo della
bottiglia’ nonché il sardo tup-óne ‘tappo’, anche piccolo, in cui il falso suffisso –óne non è accrescitivo. La lingua è
terribilmente versicolore, ingannevole e sempre pronta a mescolare le carte in
tavola; infatti in questo caso cerca di insinuare nella mente del parlante
l’idea che quel top abbia il normale
significato di ‘cima, punta,apice,colmo’ del collo della bottiglia dove si
trova il buco col tappo. Ma a noi non ci
frega! Sappiamo che la parola deve indicare la cosa in sé e non per via
metaforica. Infatti il verbo to top vale anche ‘coprire’, significato che scivola facilmente in quello di ‘chiudere’, e in diversi altri. E in effetti se ci si riflette un po’ il
significato di ‘essere in cima’ in questo caso non è altro che lo sviluppo del
significato di ‘coprire’: qualcosa che copre un’altra cosa, deve stare spesso in cima, sopra all’altra, non
importa se con contatto o senza. La parola top
è usata anche per indicare una vasta gamma di indumenti della parte superiore
del corpo, compreso il reggiseno: da quello che abbiamo detto, però, il
concetto di ‘parte superiore’ nella definizione del termine è qualcosa che è
subentrato successivamente, per via dell’incrocio di top ‘cima, vertice’ con l’originario *top ‘copertura, coperta ’ e quindi ‘giacca, maglia, indumento’, col
quale siamo tornati, se vogliamo, all’italiano
dialettale tupa ‘cavità, buco,
tana, nascondino’ e dialett. topa
‘genitali femminili’ . Ma c’è ancora l’it. toppa
(rammendo di uno strappo) il cui senso originario doveva essere quello di chiusura, ostruzione, copertura e di pezzo
di stoffa che si prestava a riparare un buco, uno strappo in un indumento.
E l’it. in-toppo nel senso
appunto, di ‘ostacolo, ostruzione’ dove lo mettiamo?. La ciliegina sulla torta
è per me rappresentata, però, dal nome composto inglese top secret ‘massimo segreto ’ che, come ho mostrato per altri
composti in altri articoli, inizialmente doveva essere una tautologia in cui la
prima componente top aveva lo stesso
significato di secret ‘segreto,
nascosto’ di origine latina.
Successivamente l’espressione si è prestata, a causa dell’incrocio con top ‘massimo’, ad esprimere un segreto particolarmente
riservato. Allo stesso modo dobbiamo toglierci dalla mente che l’it. topaia ‘buco di topi, bugigattolo,
stamberga’ deve il suo nome a quello del roditore. Diceva pressappoco il
Saussure che la lingua, contrariamente all’idea falsa che ce ne facciamo, non è
un meccanismo creato apposta per la descrizione dei concetti che deve esprimere[4].
Essa si arrangia come meglio può, riciclando spesso parole che originariamente
avevano un altro significato, fortuitamente sostituito da uno più moderno e
diffuso, proprio di un altro termine omofono.
I riferimenti relativi a questa radice non finiscono qui. Anche il lat. tub-u(m) ‘tubo, condotto’ e il lat. tub-a(m) ‘tromba’, ingl. tub ‘mastello,
tinozza’, ted. Topf ‘pentola’ in
quanto “cavità”,
fanno parte della stessa famiglia unitamente alla variante oscoumbra tufa che continua in svariati dialetti
italiani nelle forme tofa, tufa, tuva, ecc. indicanti una grossa conchiglia tortile di forma conica usata
un tempo da pescatori e pastori a mo’ di tromba.[5]
Nell’antichità latino-greca la tofa era simbolo di fertilità femminile
per ovvi motivi, credo, data l’apertura della conchiglia che dava l’idea dei
genitali femminili o della cavità conica dell’utero. Ma poteva anche darsi che in qualche lingua con quel termine si indicassero chiaramente i genitali femminili: cfr. il gr. top-os 'genitali femminili' sopracitato. In napoletano un insulto rivolto a madri o
sorelle di qualcuno era quello di tofa
che significava e significa ancora ‘puttana, zoccola’, voce quest’ultima
che ha nei dialetti due significati, quello di ‘topo di chiavica’ e quello di
‘puttana’ oltre a quello di ‘organo sessuale femminile’[6].
In paesi dell’Estremo Oriente ancora oggi si suona questa conchiglia in
occasione di cerimonie relative alla fertilità e alla nascita. Era qui allora
che, a mio avviso, gli etimologi dovevano cercare per trovare la spiegazione
del dial. topa ‘organo sessuale
femminile’! Ma la voce topa ‘femmina
del topo’ o anche ’talpa’ era la più comune, la più diffusa e anche la più a
portata di mano nel nostro cervello, sicchè si superò anche il naturale
ribrezzo che il roditore, in specie quello di fogna, suscita e che avrebbe
dovuto in qualche modo impedire il paragone tra i due referenti. Le due tope, insomma, erano a mio parere
impossibili da paragonare vicendevolmente in quanto generanti sentimenti
diametralmente opposti: attrazione e repellenza. Della stessa famiglia sono a mio parere le
voci dialettali corse tofone, tufone, tafone[7] ’foro,buco,burrone’
nonché il gallurese tavoni ‘breccia,
buco nel muro’ e la voce tàfano ‘ano’
del dialetto di Aielli-Aq, il mio paese, e di altri.
La topa è una imbarcazione (quindi una cavità) a fondo piatto della Laguna di Venezia, che nel nome
richiama l’ingl. tub ‘tinozza’ sopra
citato’, termine che vale anche ‘sorta di imbarcazione’. A Frassinoro-Mo la
voce topa indica un copricapo a busta
realizzato con pelliccia, simile al colbacco, e lo si fa derivare da topa ‘genitali femminili’ ma si
trascura il fatto che topa è anche un termine hindi che indica varie
specie di ‘copricapi’ o anche il ‘cofano’. Nel caso della topa di Frassinoro ritorna la tentazione di crederla derivata figuratamente
dall’idea di ”pelo, pelame” connessa con
quella di “topo”. Il fatto è che la
radice top aveva già in ingl. dial. il sign. di ‘ciuffo, bioccolo’ come in ingl. tuft ‘ciuffo, fiocco ’ e ant.fr. top ‘ciuffo’; quindi, anche per questa
via si dovrebbe escludere il tentativo di collegare i termini alla peluria del roditore. Ma c’è da supporre
che questi significati di ‘ciuffo, pelame’ rinviano all’idea di “insieme,
gruppo, unione’, già adombrata nel significato di ‘coprire’ che la radice come
abbiamo visto aveva; infatti l’idea di “coprire” coinvolge anche quella di
‘stare addosso, formare un gruppo, un insieme, una massa’ come risulta evidente,
ad esempio, nella voce del dialetto
di Trasacco-Aq toppë ‘gruppo di persone, assembramento,
capannello di gente, bioccolo, groviglio, grumo di farina’. Da questo si capisce bene anche l’origine del
dialettale abruzzese toppa ‘zolla’ e toppa ‘palla di neve’, nonché il sardo tupa ‘macchia, cespuglio’ che abbiamo
più sopra incontrato ma col significato di ‘tana, buco della serratura’.
Questa radice TOP- ha avuto la fortuna, dunque, di
conservarsi, con le sue varianti e con gli svariati significati, riallacciabili
comunque gli uni agli altri, in diverse lingue o nella stessa lingua. Naturalmente non credo di averli elencati
tutti. Qualcuno è rimasto fuori. Ma è
ora di passare ad analizzare velocemente, per non rendere l’articolo troppo
lungo, l’altra voce dialettale sorga,
soreca ‘organo sessuale femminile,
che avevamo introdotta all’inizio dell’articolo e da cui pare derivare anche la
voce regionale zoccola, più sopra citata, attraverso un
diminutivo lat.*sorc-ula(m) da lat.sorex, -icis ‘topo’, incrociato con it. zoccolo da lat. volg. *socc-ul-u(m), diminutivo di lat. socc-u(m)’zoccolo,sandalo’.
La radice di soreca, sorega deve essere quella di gr. sarko-phágos ’sarcofago’, parola che i greci
credevano erroneamente che indicasse una pietra calcarea che consumava (-phágos) rapidamente la carne (sarco-)
dei cadaveri. La verità è che essi si
trovarono di fronte ad un composto il cui significato superficiale era
cetamente quello, ma in epoche preistoriche esso dovè indicare proprio il ‘sarcofago,
cassa da morto, urna, loculo’ in quanto ‘cavità’. La radice della prima componente secondo me è
la stessa di gr. sarg-ánē ‘canestro,
cesta’, gr. sṓrak-os ‘paniere,
cestello’, gr. súrikh-os ‘paniere,
cestello’, in quanto ‘cavità’, non importa se fatta di vimini o altro, anche se
radici per l’uno e l’altro concetto si saranno senz’altro incrociate. Il termine che taglia la testa al toro è sarrac-à ‘seppellire, sotterrare’[8] del
dialetto di Trasacco-Aq. e sarrac-à ‘sotterrare, nascondere’[9] di Luco
dei Marsi-Aq. Qui il raddoppiamento
della liquida /r/ sarà dovuto alla necessità di distinguere il verbo dall’altro
in uso dalle nostre parti ed altrove e cioè saracà
‘battere, percuotere’. Le citate
parole greche per ‘canestro, cesta’ sono ampliamenti e varianti della radice di
gr.
sor-ós ‘serbatoio, urna, cassa da morto, bara’, gr. sor-éllē ‘urna cineraria’. Molti sono i
termini sparsi in molte parti d’Europa che hanno il significato di ‘indumento,
camicia’ in quanto ‘cavità’ che avvolge e copre, com ingl. dial. sark ‘camicia’,
rum. sarica ‘mantello di lana’, lat. sarc-ina(m) ‘fagotto, bagaglio, involto’ che non va accostato direttamente al verbo sarc-ire ‘cucire’, per quanto i due
concetti, che a noi appaiono diversi, possono
trovare un punto di contatto nell’idea di ‘unione, connessione, accumulo,
compressione, avvolgimento’. Per questa via si può arrivare a spiegare facilmente anche l'it. sar(a)cin-esca, in quanto 'connessione, cucitura, chiusura', allontanando così anche l'ombra fastidiosa dei saraceni che ne avrebbero inventato l'uso. D'altronde la parola era lì con tutta la sua forza evocatrice e non si poteva nemmeno lontanamente supporre che essi avessero dato alla parola solo il contributo, forse, della /a/ tra parentesi a causa dell'incrocio tra i due termini simili. E' stata proprio la facilità ad individuare abbastanza spesso le più probabili radici, che non mi pare faciloneria, ad avermi dato la forza di continuare per tanti anni nella ricerca, e a convincermi sempre più della reale produttività del mio metodo d'indagine.
L’ingl. dial. sark ‘camicia’
sopra citato, presenta varianti numerose
in Europa, oltre l’ant. ingl. serc, serce, con significati uguali o un po’ diversi come
ant. sl. sraka ‘tunica’, russo soročka ‘camicia’, bosniaco saruk 'turbante', rom. sarica ‘mantello di lana’ , finland. sarkki ‘camicia’, lit. sarkas ‘camicia’, russo soreka ‘antico copricapo femminile’,
abr. sàrica ‘camiciotto di lino usato
dai contadini al lavoro’, abr. sàrëchë ‘giubba’[10]. Il tipico copricapo filippino fatto con foglie di bambù è chiamato, da una lingua locale, sarok. Non può essere scartato nemmeno il sarong, il drappo di cotone o lino avvolto intorno alla vita, in molti paesi del sud-est asiatico, se esso significa etimologicamente 'guaina, copertura', secondo il dizionario Webster. Ce ne sono altri nei dialetti italiani. In
questo contesto è molto interessante, per scoprire i numerosi influssi
reciproci delle parole, riflettere su alcune definizioni come quella dell’abr. surëc-onë ‘topo tettaiolo’ che formalmente
sembra solo un accrescitivo di abr. sorëchë
‘sorcio, grosso topo’, parola che però nei dialetti già di per sé esprimeva
spesso la dimensione accrescitiva,
indicando il topo di fogna, cioè la zoccola,
denominazione etimologicamente legata all’altra voce, come abbiamo già visto.
Il topo tettaiolo vive nei tetti,
nelle soffitte, negli scantinati ma come mai la parola portava spesso con sé la
precisazione che si trattava di topo di fogna o di soffitta? La risposta è che
essa, nel lontano passato, si era incrociata con altra parola indicante una buca, una tana o anche un ambiente
più o meno disordinato o degradato come una stamberga, un tugurio, una prigione
(di quelle di una volta), un bugigattolo.
La fogna, abituale residenza
di questi ratti, è appunto un canale di smaltimento di acque reflue, generalmente
sotterraneo e angusto, e la soffitta di una casa è appunto lo spazio ristretto
del sottotetto. Ora, la radice di ingl. sark ‘camicia’ sopra incontrata è usata
ad indicare in edilizia le sark-ing boards ‘tavole di
copertura’, pannelli o tavole più o meno sottili che si inchiodano alle travi
del tetto per sostenere poi le tegole o lastre di ardesia. Eccola allora la radice, che, con le molte
varianti, doveva essere alla base della relativa parola scomparsa ma solo dopo
essersi incontrata con l’altra per ‘topo’ ed averne ampliato il significato in
‘topo di fogna, di scantinato, di soffitta’. C’è comunque il marchigiano (Arcevia-An)
sorchi-àra ‘prigione’[11] che ci
dà una mano. Il termine non è sorci-àra
da sorce ’sorcio’, come ci saremmo
aspettati, ma deve essere lo sviluppo di un lat. mediev, *sorc-ul-ari-a(m) > *sorcl-ari-a(m) > sorchi-ara, derivato non da un diminutivo per
‘sorcio’ ma di uno per ‘stamberga, bugigattolo, prigione’. Buon ultimo mi pare
opportuno citare anche il gr. súrigg-s ‘siringa, zampogna, custodia della lancia, vena, fistola,
corridoio, galleria, tomba egiziana (scavata nella roccia)’. I vari significati ruotano tutti intorno al
concetto di ‘cavità, condotto’ e la parola sembra una variante della radice di
cui stiamo parlando. Anche l’espressione
topo tettaiolo deve essere il
risultato dell’incrocio di un termine topo
per ‘copertura’, come si è visto più sopra, con la parola lat. tect-u(m) ‘tetto’, in quanto ‘copertura’. Le
parole sono certo antichissime ed hanno avuto modo di incontrarne diverse con
le quali hanno intrecciato una relazione!
Non vorrei dimenticare l’it. sarrocch-ino o sanrocch-ino, un
corto mantello di cuoio o di tela incerata, usato un tempo dai pellegrini. Esso,
secondo me, ci riporta alla multiforme radice sopra citata col significato generico
di ‘copertura’. Molti, spiegandone la
storia, si lasciano ingannare dal fatto che san Rocco, il protettore dalla
peste ed altre malattie, usualmente viene rappresentato con un mantello di quel
tipo. Non tengono conto, costoro, che il
nome e la figura di questo Santo, storicamente molto incerta e fumosa, saranno
stati alimentati dall’apporto delle parole, almeno di alcune, che avrà
incontrato in Europa. Pare, ma non è certo, che fosse nato a Montpellier in
Francia. E non si può quindi non riflettere che il suo nome quasi coincide col
medio alto tedesco sarrok ‘veste militare’[12],
appartenente alle radici suddette.
Chiudo citando una curiosa e interessantissima espressione del dialetto
lucano di Gallicchio-Pt e cioè cammisë
d’u surgë ‘camicia del topo’[13], gioco
in cui due persone si passano con le mani un filo legato alle estremità e lo
guidano sapientemente a formare un intreccio, che sarebbe quindi la camicia del topo, ma in realtà i due
termini pervenuti da tempi lontanissimi, attraverso quel gioco, dovevano
indicare proprio un intreccio, una
sorta di tessuto la cui radice (quella di surgë
) si incrociò con altro termine simile che con quella radice indicava appunto una
maglia, una camicia. L’idea di ‘tessere, intrecciare, connettere’ può declinarsi sia come ‘unione di più cose
(in questo caso fili ) e quindi di
‘panno, tessuto’, sia come ‘copertura, indumento, ecc.’. Il napoletano la surëchë[14]
significa anche ‘tipica acconciatura femminile’, che dovrebbe corrispondere
a quella un tempo usuale tra le donne e chiamata crocchia o anche cipolla:
un intreccio di capelli o trecce ravvolti sulla nuca o sul
capo.
[2] Cfr. ad
es. l’articolo “Fischia-froce […]”
presente nel mio blog (aprile 2011) pietromaccallini.blogspot.it.
[3] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[4] Cfr. F.
de Saussure, Corso di linguistica
generale (tradotto e commentato da T. De Mauro), Editori Laterza,1076,
p.104.
[8] Cf. Q.
Lucarelli, Biabbà Q-Z, cit.
[9] Cfr.
G.Proia, La parlata di Luco dei Marsi,
Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[10] Cfr. D.
Bielli, cit.
[11] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, cit.
[14] Cfr.
Ivan Cavicchi, In mezzo al petto tuo,
Ediz. Dedalo, Bari, 2009, p. 207.
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