Confesso che non avevo mai ben riflettuto
sull’espressione italiana non veder l’ora
(di fare qualcosa), e osservo che in genere i vocabolari vi girano attorno
dandone sì la spiegazione ma astenendosi dal proporne un’origine. Tra le poche lingue che ho potuto consultare
ho notato che solo lo spagnolo usa un’espressione che sembra la fotocopia di
quella italiana: no ver la hora. Non penso tuttavia che una delle due lingue
l’abbia presa dall’altra, ma che ambedue la derivino da uno strato precedente
risalente ad un latino parlato, perché in quello classico si usavano altri modi
per esprimere lo stesso pensiero.
Comunque sia, anche se l’espressione si fosse sviluppata in una sola
lingua e poi passata all’altra, resterebbe sempre il problema di capirne il
significato originario, che non sembra affatto dato per scontato. Si potrebbe essere indotti a pensare che un
forte desiderio, anche quando non sia espressione di una esigenza biologica,
possa provocare, in chi ne è affetto, la sensazione di perdere la vista e, per
questa via, arrivare a giustificare la locuzione suddetta. Si suole in effetti dire non ci vedo per la fame, ma, se ci si riflette, questo modo di dire
non è lo stesso di non vedo l’ora di
pranzare. Il primo vuole indicare tout court la causa impediente che
provoca in me l’obnubilamento della
vista, il secondo, invece, sembra tutto teso a rivelare un forte desiderio di arrivare al pranzo, che potrebbe
essere sì provocato dalla fame ma, a seconda del contesto, anche da altro,
come, ad esempio, dalla voglia di andare subito dopo a divertirmi, a fare una
passeggiata o a trascorrere un’ora di piacere con amici o con una donna amata,
o perfino dal piacere di gustare un pranzo prelibato che fa venire l’acquolina
in bocca, anche se non si fosse molto affamati.
Una volta chiarito il senso di fondo dell’espressione
si resta tuttavia insoddisfatti quanto al significato letterale preciso. La lettera ci informa infatti solo sul fatto
che l’ora (il momento) di fare qualcosa non la si scorge e pertanto potrebbe
addirittura far nascere legittimamente la convinzione che essa andrebbe a
pennello per esprimere non il desiderio, ma l’impossibilità di fare alcunché.
Insomma, non vedo l’ora del pranzo dovrebbe
più logicamente significare che io non potrò pranzare, resterò a digiuno
saltando il pranzo, e magari dovrò attendere l’ora della cena, perché sto eseguendo
un lavoro materiale o mentale così coinvolgente, o così necessario, che non posso
assolutamente interromperlo o procrastinarlo.
O anche perché chi solitamente ha l’incombenza di preparare il pranzo è per
qualche motivo assente, ed io che non so cucinare mi debbo adattare ad un
frettoloso spuntino.
A questo punto sembrerebbe inevitabile alzare le mani in segno di resa e
dedurre, senza altre spiegazioni, che a volte la lingua è veramente illogica o
almeno molto irregolare nel dar vita ai pensieri che vuole comunicare. Ma questo succede, a mio parere, perché non
ci rendiamo ben conto che le parole ci pervengono spesso da tempi lontani e
anche remoti, remotissimi, in cui esse potevano avere significati anche molto
diversi da quelli che ora ci mostrano in superficie. Una prova di ciò possono darcela proprio
alcune radici che significavano sia ‘guardare, vedere’ che ‘aspettare,
attendere’ come il franco ward-ōn ‘stare in guardia’, da
cui l’it. guard-are, e il ted. wart-en ‘aspettare’. Nell’it. guard-are è rimasto solo uno dei due
significati originari ma in qualche dialetto rispunta anche l’altro, come negli
abr. vardà e aguardà ‘aspettare’[1]. La voce aguardà
ha subìto l’evidente influsso dello sp. a-guard-ar
‘aspettare, attendere’. Ricordo che
quando ero un ragazzo ancora imberbe, mia madre qualche volta, quando l’acqua d’estate
scarseggiava, mi mandava a “guardà” o a “guardà l’acqua” in una fontanella
pubblica vicino casa nostra. Già allora
il verbo mi suonava un po’ strano, giacché non potevo certo capire che esso
all’origine non indicava l’azione di ‘stare a osservare’ l’acqua, cosa un po’
ridicola, ma quella di ‘attendere l’acqua’, cioè il proprio turno per attingere
l’acqua, visto che molte altre persone erano lì in attesa per lo stesso motivo.
E ne ho viste di zuffe fra donne inferocite le cui idee sulla fila da
rispettare evidentemente non collimavano!
Anche l’ingl. wait ‘aspettare’
deriva da a. fr. waiti-er ‘guardare
attentamente, osservare’, affine ad a.a.
ted. wahta,
ted. mod. Wacht ‘guardia’ con i quali ha qualcosa da spartire il letterario
it. guat-are, diverso dall’it. guard-are sopra analizzato. La stessa storia si ripete con l’it. a-spett-are
proveniente dal lat. ex-spect-are ‘aspettare, attendere’:
la radice –spect- corrisponde a
quella di lat. spect-are ‘guardare’
tratta dal supino del verbo lat. spic-ere ’guardare, osservare’.
Il latino in verità aveva anche il verbo ad-spect-are, più affine
formalmente all’it. aspettare, ma col
significato di ‘guardare’, non di ‘attendere, aspettare’. L’importante è che la
stessa radice –spect- poteva assumere
il significato di ‘aspettare’ oltre a quello di ‘guardare’, come attesta il
sopra citato lat. ex-pect-are ‘aspettare, attendere’.
Da quanto detto si può desumere che i
concetti di “guardare, osservare” e di ”attendere, aspettare’ dovevano essere talmente simili, in diverse
lingue, da poter essere contenuti in una medesima radice. E in effetti, se ci si pensa un po’, si nota
che alla base dei due concetti se ne trova un altro più generico ad essi
sovraordinato: quello che esprime una
tensione del nostro animo o della nostra facoltà mentale verso qualcosa o
qualcuno che si trova nel nostro campo visivo, nel caso del significato di
‘guardare’, o verso qualcosa o qualcuno che attendiamo dal nostro più o meno
prossimo futuro, nel caso del significato di ‘attendere, aspettare’[2].
Ora, la stessa tensione deve stare dietro al verbo vid-ere, sia che esso significhi ‘vedere’,
cioè esercitare la facoltà della vista e percepire visivamente qualcosa che
cade sotto i nostri sensi, sia che abbia, come spect-are, il valore di ‘guardare’, ‘essere
prospiciente, dare su’ e simili, giacchè nei due casi la radice esprime sempre il
protendersi idealmente o della nostra
mente verso l’oggetto da vedere o di un edificio, un balcone, una finestra ecc.
verso un luogo su cui guardano. Io penso che anche il lat. in-vid-ere
‘invidiare’ debba essere inteso in questo modo, e non come generalmente si fa, considerando
la preposizione in- come una
negazione simile a ‘male’, cosa però poco usuale, e traducendo così il tutto
con ‘lanciare uno sguardo bieco’ contro qualcuno o ‘gettare il malocchio’
contro una persona. A me sembra che
questi significati siano nati allorchè il verbo si specializzò nel significato
di ‘vedere’ appunto, ma precedentemente esso ne aveva uno più generico (con in- illativo ‘verso, contro’) simile, ad
esempio, a quello del verbo ad-vers-ari ‘avversare, contrariare,
essere ostile, ecc.’ la cui tensione
contro qualcuno è evidente, pur potendosi essa trasformare in una tensione positiva nel termine
corradicale ad-version-e(m) ‘attenzione’ o nel verbo ad-vert-ere ‘volgere
verso, guardare, vedere, ecc.’. Il lat. in-vidi-a(m), significando anche ‘impopolarità, avversione’ contro un
uomo politico non amato dal popolo, mi pare che abbia poco a che fare col
concetto di “invidia, gelosia” bensì con quello di “ostilità, avversione,
antipatia’, concetti che giustificano agevolmente quello di “rigettare,
rifiutare, negare, rintuzzare” che il verbo in-vid-ere pur aveva. La radice di
lat. vid-ere credo sia in rapporto
con quella di ted. wid-er ‘contro’, a.
sass. with, with-ar ‘contro, con’ ed altre lingue germaniche. Secondo me essa riappare, con valore
positivo, anche nel verbo it. guid-are derivante, attraverso il provenzale guid-ar, dal franco wīt-an ‘inviare in una direzione, indirizzare’. E non è escluso che il
lat. vit-are ‘scansare, evitare’ ci sia
pervenuto attraverso il concetto di respingere
o declinare qualcosa che non
piace e che avversiamo . Il lat. vet-are ‘vietare, interdire, negare, impedire, opporsi’ ha tutta
l’aria di essere una variante della radice vid- nel significato di ‘avversare,
essere contrario’. Lo stesso lat. In-vit-are
‘invitare, accogliere’ presuppone un’idea di “spinta, incitamento” che può
essere esercitata in una direzione o in quella contraria. In Sardegna si può facilmente sentir qualcuno chiedere ad altri di
“invitargli un gelato”, cioè di offrirgli
un gelato. Tutto si spiega riflettendo
sullo sp. en-vite ‘scommessa, spintone, offerta, proposta’ che però mi sembra diverso dalla radice di sp. in-vit-ar
‘invitare’ proveniente dal latino: probabilmente era una radice che si trovava
in Spagna, in Sardegna e altrove da tempi preistorici col valore generico di
‘spingere’, il quale poteva poi specializzarsi in quello di ‘porgere, offrire’
ma anche di ‘indurre, allettare, invitare’.
Anche la “scommessa” si configura come una “posta (in gioco)” o una
“offerta”.
E’ arrivata dunque l’ora di concludere l’articolo e di dare finalmente
una spiegazione all’espressione, rimasta in sospeso, da cui siamo partiti, e
cioè non veder l’ora (di fare qualcosa). Dico subito che il significato originario
che a me sembra il più probabile è: non posso attendere l’ora… nel senso
di non sapere, non riuscire ad aspettare, tanto sono impaziente, l’ora in cui
avverrà l’evento così desiderato.
Abbiamo visto infatti che la radice di lat. vid-ere ‘vedere, guardare’ poteva benissimo, nei primordi della sua
storia, avere il significato di ‘aspettare, attendere’ come altri verbi
esaminati, relativi all’area del senso della vista. Sappiamo poi che il latino
era una lingua concreta e diretta, per cui essa faceva solitamente a meno dei
numerosi verbi cosiddetti fraseologici e spesso riempitivi come appunto sapere,
potere, riuscire, volere, che in italiano si accompagnano di frequente agli
infiniti di altri verbi per specificarne il colore. Perciò
il semplice non video horam ‘non
vedo l’ora’ si può rendere in italiano con ‘non
riesco (non posso, non so, ecc.) a vedere l’ora…’. Infatti una frase latina come eum non fero si tradurre ‘non lo
sopporto’ o anche, ugualmente bene e a seconda dei gusti o del contesto ‘non
riesco a sopportarlo’ o ‘non posso sopportarlo’ o ‘non so sopportarlo’. E’ vero
che l’espressione non affiora nel latino scritto che conosciamo, ma essa poteva
certamente vivere nella lingua parlata come in qualche modo dimostra la sua
presenza nello spagnolo no ver la hora
‘non veder l’ora’. Anche altre lingue
europee confermano lo stesso cliché
dell’attesa per esprimere lo stesso concetto, come l’ingl. I
can’t wait ‘non vedo l’ora’ ma letteralmente ‘non posso (non so)
aspettare’. Ricordiamoci di aver
incontrato più sopra il verbo wait
‘aspettare’ che all’origine significava anche ‘guardare, vedere’. In inglese si usa anche la locuzione I’m
looking
forward to… per esprimere lo
stesso concetto, col significato letterale di ‘guardo in avanti (con
impazienza) verso..’. C’è sempre questa idea di “guardare”. In tedesco si ha l’espressione ich
kann nicht die Zeit erwarten ‘non posso (non so) aspettare
l’ora…’. Il verbo er-wart-en ‘aspettare’
richiama il semplice wart-en incontrato più sopra, che aveva in lingue germaniche sia il
significato di ‘guardare’ che quello di ‘aspettare, attendere’. E’ sempre lo stesso cliché! Chi ci libererà mai dalla mortifera
ripetitività presente nelle cose della lingua e della vita? Eppure, nel mio
piccolo, imbocco imperterrito sentieri mai calpestati da altri!
Deo gratias!
[2] Cfr.
l’articolo Principi di gnoseologia,
presente nel mio blog pietromaccallini.blogspot. it, agosto 2013.
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