I mamuthones di Mamoiada: tracce del nome della famosa maschera sarda nell’Italia centrale e meridionale.
Nessuno, che io sappia, ha mai sostenuto che nei
nostri paesi d’Abruzzo, Lazio e Meridione in genere si potessero riscontrare
usi e soprattutto nomi di maschere e altro che possono essere messi in rapporto
con i mamuthones del titolo (particolari maschere carnevalesche di
cui hanno parlato illustri studiosi), simili ad altre figure adombrate in
svariati appellativi sardi come: mam(m)utt-one, mamucc-one,
marmut-one, mamunt-omo, mumutz-one
dal significato di ‘fantoccio, spaventapasseri, spauracchio dei bambini’ come momotti ’babau, befana, spauracchio’. In lingue
antiche del Vicino Oriente si incontrano i termini mot ,motu, momotti significanti
‘morte, caos’. Anche l’appellativo sardo mommoi
vale ‘babau, befana, fantasma, licantropo’ e simili. Per quest’ultimo cito subito la voce simile abruzzese
mamm-όvë ’babau’[1].
Il passaggio di significato da ‘figura
rituale’ (di cerimonie antichissime, tramandate dalla preistoria e risalenti al
periodo nuragico ed oltre) a ‘spaventapasseri, spauracchio, ecc.’ senza alcun
riferimento al rito d’origine, credo sia dovuto all’avvento del Cristianesimo che senz’altro cercava di
svalutare questi riti pagani a tutto vantaggio di quelli della nuova religione.
Ora,
si dà il caso che nelle feste dei nostri paesi d’Abruzzo, generalmente verso la
fine della festa patronale, compare (o meglio compariva in passato) una
maschera chiamata mamm-occia, pup-azza, pandasima(fantasma) ed anche marmotta,pucca, puca costituita da una struttura di canne coperte di abiti
vecchi o di cartapesta, con all’interno una persona la quale la fa ballare in piazza tra le risate e il divertimento dei presenti: alla fine la mammoccia
viene addirittura bruciata, atto che sottolinea la fine della festa, ma che ha
anche altre valenze, come la distruzione
del male che essa in qualche modo doveva pure rappresentare se, almeno mio parere, doveva essere imparentata, nella
notte dei tempi, con il mamuth-one di Mamoiada e con le varie entità
simili indicate dai diversi nomi sardi citati tra cui marmut-one , dal significato di
‘spaventapasseri, spauracchio, babau, ecc.’, la cui prima parte radicale è
variante della suddetta marmotta, maschera dalle forme sgraziate
che appare al termine della festa (ad esempio a Rocca di Botte-Aq), in uso
anche nel Lazio.
Anche
il dialettale mammoccio (fantoccio
goffo e rudimentale) secondo me rafforza la parentela esistente ab antiquo tra
la mamm-occia
(maschera della festa) e le figure sarde citate, una delle quali si
chiama proprio mamucc-one, termine
con la radice mam-ucc- uguale a
quella di mamm-occia . Io infatti non credo che l’etimo di mamm-occio rimandi all’it. bamb-occio ‘bimbo grassottello, fantoccio di
pezza, bambola’: me lo garantisce l’espressione
viterbese di Pantasima di mammucco indicante una ‘persona
insulsa, incapace di nulla’. Che la figura della mammoccia fosse di
origine rituale e sacra lo spiega sinteticamente Amelia De Blasis in un suo
articolo sulla mammoccia di Civitella Roveto-Aq[2],
considerata simbolo del male. Essa veniva bruciata durante una festa e doveva
avere anche il significato di ‘spauracchio, babau’ se ai bambini, per farli
stare buoni, si diceva minacciosamente: ecco la
mammoccia!
Conferma la mia idea un’altra voce del
dialetto napoletano ma diffusa anche altrove nel Meridione, e cioè mamòzio[3]. A
Napoli esiste pure la forma equivalente mammòccio la quale, se non proveniente
autonomamente dalla suddetta radice mam-ucc-, sarà derivata molto
probabilmente dalla prima, per allineamento alle molte parole in -occio come carr-occio, figli-occio,
bell-occio. I significati sono:
‘fanciullo grasso’, ‘bambola, marionetta’, ‘persona ingombrante’, ‘sciocco’,
‘persona di carattere chiuso’, ‘donna che si intromette’, ecc. Bisogna tener presente anche l’abruzzese mamozzo
col significato di ‘persona brutta’. Ma,
signori miei! quando si parla di persona
ingombrante e di persona dal
carattere chiuso non posso non pensare proprio ai mamuthones di Mamoiada,
che procedono lentamente, con una maschera nera sul volto e una giacca di lana
scura, senza emettere una parola, muti, mentre sono guidati dai cosiddetti issohadores
(quelli con la ’soga’ in mano), maschere dalle vesti chiare,
agili nei movimenti e che quindi dovrebbero rappresentare gli uomini, non le
bestie come i mamuth-ones.
Qualcuno potrebbe obbiettare che però tutti i
significati del meridionale mamòzio si riferiscono alla sfera
laica, per così dire, non a quella rituale e sacrale. Ma questo non è vero
perché in Basilicata in varie festività viene acceso un
fantoccio chiamato appunto mamozië[4],
parola uguale al mamòzio napoletano suddetto, la quale presenta laicamente, per così dire, i significati di
‘fantoccio, pupazzo’ ma anche di ‘statua, scultura’ e, in senso lato, di
‘persona stupida’. Ad Amantea-Cs la mamozia
indica una ‘donna inetta, intontita, incapace, impacciata’: quasi
un’altra fotocopia della figura del mamuth-one muto, goffo, impacciato col suo carico di pesanti campanacci!
L’etimo di napoletano mamòzio, quindi, in
nessun modo può essere riportato al solito it.bamb-occio ma, semmai, a quello (tutto da scoprire) del sardo mamuth-one col suffisso accrescitivo-peggiorativo
–one.
In linea suppositiva a me sembra che inizialmente esso avesse il significato
generico di ‘animale’, magari relitto della civiltà nuragica o prenuragica
apparentato con il termine mammut di origine russa (mamot o mamont), riferito ai ben noti animali ora estinti ma vissuti (alcune
specie nane) fino a tre/quattromila anni fa. Così si spiegano, al posto dei mamuth-ones, anche i boes ‘buoi’ del carnevale
di Ottana nonché gli urtzus ‘orsi’ di quello di Ula Tirso
dove però le maschere indossano pelli
non di orso ma di cinghiali e di caproni. Naturalmente la parola sarda, data la
sua estrema antichità, si sarà incrociata con altre parole simili nella forma
ma diverse nel significato il quale, di volta in volta, avrà influenzato il significato
e il comportamento della maschera. Si pensi, ad esempio, al gr. kápr-os’cinghiale, porco’, uguale nella
forma al lat. caper, capr-i ‘capro’.
La
maschera abruzzese, ma anche pugliese,
pucca, puca penso che avrà
qualcosa da spartire con l’inglese Puck, un genio folletto delle
favole. Per il significato della pup-azza, di cui si è parlato sopra come
equivalente di mammoccia, non ci
inganni il valore vezzeggiativo del suo significato italiano di ‘bambola’: nel
ladino-veneto la voce pòp vale ‘statua, pupazzo’ ma anche ‘spaventapasseri’. A La Valle Agordina-Bl essa indica un ‘grande
pupazzo fatto con culmi di granoturco e poi bruciato la sera precedente la
festa di San Marco’[5].
E’
veramente bello scoprire che i mamuth-ones sardi erano parenti stretti, molto probabilmente, delle nostre
mammòccë , marmottë
e dei nostri mamòzzë, mamòzië, abruzzesi e
meridionali.
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla
editore, Cerchio-Aq. 2004
[2] Cfr.
sito web: http://web.tiscali.it/civitellaroveto/ameliaguida1.html.
[3] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET,
Torino 1998.
[4] Cfr. G.
Tardio, Fantocci nei rituali fest ivi, presente
in rete, pag. 13 e nota 9.
[5] Cfr.
Cortelazzo- Marcto, cit.
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