Il modo di dire in epigrafe ricorre anche nella forma negativa (Non) sono (più) i tempi che Berta filava
e vuole significare ‘Ai tempi dei tempi, quando le cose andavano bene’. Un tempo, dunque, situato in una dimensione
di favola in contrasto con quella del presente che solitamente sentiamo, per
certi versi, come una brutta copia del più o meno lontano e mitico
passato.
Questa volta non credo che mi dilungherò troppo, perché la soluzione
dell’enigma costituita dal nome personale Berta
è a portata di mano. Come premessa dico
solo che la mia interpretazione è talmente obbiettiva (mi scuso, col gentile
lettore, di quella che può apparire come una mia arrogante sicumera) che non
potrà essere messa in dubbio, al punto che sfido chiunque tra i miei pochi
lettori, dotti o no, a farmi fare una pessima figura (e li ringrazierò per
questo), proponendo una più realistica e scientifica soluzione. I linguisti, pur essendo in genere molto più
preparati di me nelle varie branche della materia, non sono purtroppo arrivati
alla spiegazione vera di questa locuzione, e mai ci arriveranno, a mio parere,
se non avranno prima capito e accettato il mio metodo esplicativo che, come un
grimaldello, scardina con disinvolta rapidità ed efficienza quelle serrature che
purtroppo risultano inviolabili con chiavi normali non calibrate adeguatamente.
Fuor di metafora, bisogna che si riesca a capire che solitamente, dietro le
parole chiave di qualche proverbio o modo di dire (ma anche in molte altre del
lessico normale) come questo in esame, si nascondono vocaboli con significati tenuti
ben nascosti da quelli di altre parole omofone sopraggiunte successivamente. A
me l’assunto sembra del tutto chiaro, e lo vado ripetendo e dimostrando da gran
pezza nei miei articoli.
Su questa Berta, che
donnescamente filava, sono nate supposizioni e favole che possono riempire un
libro intero. Tuttavia la supposizione
che va per la maggiore fa coincidere Berta
con la madre di Carlo Magno o la sorella che portava lo stesso nome. Ambedue furono costrette, secondo notizie
romanzesche, a sostenere la propria vita filando umilmente la lana, a causa di improbabili
rovesci economici. Mi viene da
esclamare: «Poveri
linguisti! tutto quello che sanno fare su questa storia è scegliere, fra le
tante, la versione tradizionale più convincente». L’è tutto da rifare! osservava col suo
accento fiorentino il gagliardo Ginettaccio commentando le tappe del Giro
d’Italia, quando lui non correva più.
Ora
si dà il caso che, nel dizionario online del dialetto di Gallicchio-Pz[1],
si trovi, sotto la voce fëlà, l’espressione
Cuànnë Vèrtulë fëlavë resa in
italiano con “Quando Berta filava, All’epoca in cui la gente era ancora onesta,
Al tempo dei tempi”. Siccome mi era
sorto il dubbio che il nome Vèrtulë potesse
non corrispondere ad un possibile diminutivo italiano Bèrtola, del personale Berta,
chiesi informazioni direttamente alla signora Balzano, creatrice e curatrice
del sito, la quale gentilmente mi ha precisato che quel nome proprio non esiste
nel dialetto di Gallicchio e che lei l’aveva tradotto con l’it. Berta solo perché pensava, giustamente,
che il detto dialettale ripetesse quello italiano. Questo è molto interessante perché mi
consente di affermare con grande sicurezza che il modo di dire gallicchiese è
vicino a quello che doveva essere il testo originario del detto. La voce vèrtulë dovrebbe essere stata scritta,
all’origine, con la minuscola perché essa corrispondeva a qualche forma
diminutiva di un termine *verta o simile col significato di ‘fusaiola’ o
anche di ‘fuso’, lo strumento con cui si filava la lana contenuta[2]
nella conocchia o rocca, ancora ai bei tempi della mia
fanciullezza che rimpiango nostalgicamente. Credo sia superfluo ricordare il
betacismo cioè lo scambio v/b e
viceversa, abbastanza ricorrente nei nostri dialetti meridionali ma anche
altrove[3].
La radice è quella del verbo lat. vert-ere ‘volgere, girare’, azione fondamentale impressa al fuso dalle
abili mani delle filatrici che così torcevano il pennecchio di lana tratto a
mano a mano dalla conocchia, trasformandolo in filo. Un ragazzo di oggi credo che a mala pena
conosca il termine fuso avendo una
vaghissima nozione dello strumento con la sua forma aerodinamicamente allungata,
e che tanto meno conosca la parola conocchia
o quella che da noi era chiamata la vert-ecchia[4],
una fusaiola rotondeggiante che, inserita in fondo al fuso, serviva da volano
al suo movimento vorticoso. Da noi, quindi, la radice del verbo vert-ere ‘girare, avvolgere’ serviva ad
indicare la fusaiola ma altrove
poteva designare il fuso stesso, come nell’antico alto ted. wirt,
wirt-l
‘fuso’. Del resto essa nel ted. moderno torna ad indicare di nuovo, con Wirt-el, la fusaiola. Nel dialetto gallicchiese si incontra anche vèrt-ulë ‘bisaccia’ che però non ha a che
fare con la nostra locuzione , corrispondente
all’altra forma lucana con betacismo bèrt-ula ’bisaccia’, anche calabrese e
siciliana[5],
derivante dal lat. avert-a(m) ‘sacco,
valigia’ con aferesi della /a/ iniziale.
Delineato
questo quadro, tutto appare molto più chiaro.
Il modo di dire preso in esame voleva spiegare la diversità del
presente, visto spesso come peggiore dei tempi andati, rispetto ad un passato
più o meno mitizzato. Ogni civiltà ha
sempre creato la sua Età dell’oro. Il
detto, rimaneggiato con qualche aggiunta, potrebbe essere espresso più chiaramente
in una variante come questa: Sono finiti
i tempi in cui le cose andavano meglio e la gente era più onesta, quando ogni
cosa funzionava secondo il modo naturale ad essa connesso, cioè il fuso filava,
l’aratro arava, l’erba cresceva, la pecora brucava e la moglie non tradiva. E sì, perché la suscettibilità dell’uomo nei
confronti della donna, in passato molto più provocabile che ai nostri giorni,
avrà trovato nel proverbio, una volta subentrato in esso il nome Berta, una
conferma di quello che magari già andava sospettando, forse ingiustamente. E’
probabile che la forma originaria del detto fosse proprio quella di una favola,
breve e sentenziosa, in cui i protagonisti erano tutti personificati, animali,
piante e oggetti.
E i
linguisti ancora non smettono, e mai smetteranno, di cercare con accanimento
l’identità della fantomatica Berta, frutto di un brutto scherzo
che la Lingua, la quale è vecchia di decine di migliaia di anni (la filatura mi
pare risalga al neolitico), ha giocato nei loro confronti: sarebbe proprio ora
che si svegliassero una buona volta!
Oh!
che cosa non darei per rivedere filare sulla scala con le vicine di casa la vecchierella del leopardiano “Sabato del villaggio” e
della mia fanciullesca memoria, vivida e dolente insieme!
[1] Cfr. sito web:
http://www.dizionariogallic.altervista.org/index.htm . Il dizionario, impeccabile nella veste
grafica e nelle spiegazioni, è opera di Maria Grazia Balzano.
[2] Ricordo che il bastone
della rocca, in genere costituito da una canna, si apriva in diverse parti ad
una delle due estremità, in modo da formare una sorta di gabbietta ovoidale,
entro la quale veniva sistemato l’ammasso della lana da filare. La forma poteva
naturalmente variare di zona in zona.
[3] Cfr. abr. bive
‘vivo’ (lat. viv-um), abr.vève
‘bere’ (dal lat. bib-ere), nel Vocab.abruzz. di
Domenico Bielli; ital. arcaico boce ‘voce’, ecc.
[4] Cfr. lat. vert-ic-ill-u(m)
‘fusaiola’, gallicch. furt-ëc-ìllë ‘fusaiola’.
[5] Cfr. M. Cortelazzo- C.
Marcato, I Dialetti Italiani, UTET,
Torino 1998 sub voce bèrtula.
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