Per comodità del lettore avverto che la prima parte di questo articolo è la trascrizione di quello pubblicato nel 2010.
Il napoletano (e non solo) guaglionë ‘ragazzo, adolescente’ ha dato e dà tuttora filo da
torcere ai linguisti che hanno proposto varie soluzioni, a mio avviso poco
convincenti, per il suo etimo, fino a quella che rinvia alla serie onomatopeica
gua…gua riferita a bambini piccoli e incrociatasi col
lat. ganeo,-onis ‘frequentatore di
taverne, crapulone’. Io penso che, vista anche la difficoltà interpretativa che
essa presenta, la parola attinga la sua linfa vitale da strati preistorici
molto lontani nel tempo e che la sua radice sia quella presente nella prima
componente della voce cagli-andrë
‘fanciullo’ del dialetto di Villapiana-Cs.
A dir la verità l’etimo più
accettabile mi è parso quello proposto in un blog a firma di Raffaele Bracale,
il quale, dopo aver passato in rassegna le principali proposte al riguardo,
individua nel basso latino galione(m)
‘giovane mozzo, servo sulle galee’ l’origine del napoletano guaglione, che nel mio paese di
Aielli-Aq suona uajjólë.
A mio avviso la parola sopra
citata cagli-andrë del dialetto
villapianese apre una finestra insperata per l’individuazione dell’etimo di guagliónë. Essa ha tutta l’apparenza di
un composto di tipo greco *kalli-anér,
-andrós il quale però, stando al significato superficiale, dovrebbe
significare solo ‘bell’uomo’. Ora, prima
di arrivare alla mia proposta, è molto importante riflettere che spesso, in
diverse parole, il significato di ‘fanciullo, figlio, giovane animale’ si trova
abbinato a quello di ‘rampollo, pollone’ come nel gr. móschos ‘ramo, rampollo, giovane uomo o animale, vitello,
rondinino’, lat. pullus ‘pollone,
germoglio, puledro, pulcino’, ingl. scion
‘pollone, prole’, ingl. offspring
‘pollone, prole’, ted. Sprőssling ‘pollone,
figlio’, fr. rejeton ‘pollone,
prole’, gr. kóros ‘fanciullo, figlio,
stelo, giunco’, lat. nepos,-otis
‘nipote, discendente, rampollo di animale, germoglio’ a cui si appaia il lat. nepeta
‘nepitella, calaminta’ nonché nept-unia ‘specie d’erba’, ecc. Faccio
osservare, nel frattempo, che la prima componente di cagli-andrë ‘ragazzo’ mi
sembra accostabile a termini come kala-mínthe ‘calaminta, nepitella’: non ho segmentato la parola in kalam-ínthe come taluno fa
richiamandosi al gr. kálam-os ‘canna’
seguito dal suffisso cosiddetto mediterraneo –inthe, perché la nepitella è un’erba aromatica dal forte
odore di menta (gr. mínthe)
e quindi è probabile che il suo nome greco includa in sè il nome della menta. Comunque la prima componente kala- deve essere la stessa di quella ampliata di kálam-os ‘canna’, di kalám-e ‘ stelo, gambo, paglia’, e di
altri fitonimi. La componente –andrë di cagli-andrë , se la facciamo corrispondere alla relativa parola greca,
significa ‘uomo’ ma anche ‘maschio’ di qualsiasi età. Motivo per cui l’intero termine cagli-andre ‘ragazzo’ verrebbe a configurarsi, a mio parere,
come un composto tautologico nel caso in cui alla prima componente diamo il
significato di ‘fanciullo, figlio’ secondo la frequente corispondenza tra il
concetto di vegetale e quello di
‘fanciullo, figlio’. Ma quasi
sicuramente anche la seconda componente è partita con un valore di ‘vegetale’
se il gr. kóri-on equivale a
gr. korí-andr-on ‘coriandro, coriandolo’,
un’erba delle ombrellifere (cfr. il succitato gr. kóros ‘fanciullo, stelo),
e andr-áchne significa
‘porcellana (specie d’erba), fragola selvatica’. Io sostengo, in effetti, che
il significato che si nasconde dietro queste radici di fitonimi è quello di
‘essere vivente’, concetto che abbraccia non solo tutte le piante ma anche
tutti gli animali, compreso l’uomo. Ne
sarebbe una conferma il termine greco cál-andros
‘sorta di allodola’ molto simile a cagli-andrë. L’espressione omerica kallí-pais theá , riferita a Persefone, non significava pertanto
agli inizi ‘la giovane e bella dea’ ma
semplicemente ‘la giovane dea’, avendo qui kallí-
lo stesso significato di –pais ‘fanciulla’.
Dati questi presupposti il
napoletano guaglionë potrebbe essere
stato un ampliamento di cagli- (kalli-) con l’aggiunta del suffisso –onë, non necessariamente un
accrescitivo.
Precedentemente dicevo che
il basso lat. galione(m) mi sembrava,
tra le altre, una proposta accettabile: solo che il termine, a mio avviso, doveva
esistere già da molto tempo col significato generico di ‘ragazzo’, prima che
entrasse nelle galee ad indicare
specificamente il mozzo, come in qualche modo dimostra la presenza di cagli-andrë nel dialetto di Villapiana.
E questo suo uso marinaresco dovette causare la sonorizzazione della labiale
sorda iniziale di un originario *calione(m) per influsso del nome della
‘galea’, trasformandolo così in galione(m) con
contemporanea rietimologizzazione del termine, quasi indicasse il ‘ragazzo
della galea’. Successivamente si sarà
avuta la trasformazione della velare sonora in labiovelare sonora (gu-), sulla
scia di qualche altro influsso da identificare, molto probabilmente quello
delle parole trattate con pronuncia longobarda come guanto, guado, guasto provenienti da forme con fricativa sonora
iniziale v-.
Ho ripreso dopo molti anni questo articolo perché
bisognava apportarvi qualche correzione e qualche precisazione. Ho scoperto che
in napoletano esiste il termine gaj-aru ‘giovinetto’ insieme al termine gaj-ar-ellu ‘bimbo, ragazzo’[1]. Ecco dunque riapparire la radice della prima
componente di cagli-andrë ‘fanciullo’
di cui sopra. E sì, perché in napoletano, come succede molto spesso nei
dialetti della Marsica e altrove, la liquida /l/ si palatalizza trasformandosi in
semiconsonante palatale /j/, scritta
talora con la semplice vocale /i/, o in liquida laterale /gli/, come nei
vocaboli napoletani iuoglio ‘loglio’[2]
(dal lat. loli-um), o
juoglio, gliuglio, gliuoglio[3]. Caratteristiche sono le voci iaio ‘gelo’, ialo’gelo’ nella prima
delle quali si è avuta la palatalizzazione della /l/, assente nella
seconda. La semiconsonante iniziale /i/
proviene dalla velare /g/ come nella parola abruzzese-napoletana jatta
‘gatta’, attraverso evidentemente una forma precedente (g)jatta < gatta, o come l’abr. jallë
(anche vallë)<gallo. Al napolet. ialo
si affianca la variante ielo
‘gelo’, presente anche nell’abruzzese. Mi viene in mente, per la /a/ di ialo
la forma dell’aggett. ted. kalt ‘freddo’ della stessa radice di
lat.gelu’gelo’. Mi sono un po’ dilungato nell’esame di queste
voci napoletane per acquisire una qualche dimestichezza soprattutto col
trattamento di alcune consonanti, in specie la liquida /l/, in quel dialetto,
esperienza che mi torna utile nel sostenimento della mia proposta sull’etimo di
guaglione.
Ho letto il lungo e dotto
articolo di Armando Polito[4]
sull’etimo di guaglione nel quale egli
critica la proposta sopra citata di Raffaele Bracale, facendo notare
soprattutto che la presunta parola del basso latino (più precisamente medio-latino) galion-e(m) ‘giovane mozzo, servo sulle galee’
in realtà non esiste nel “Glossario della media ed infima latinità” del Du
Cange. Quasi tutte le affermazioni che il Polito fa sono a mio modestissimo
parere condivisibili, tranne due: 1) l’insistenza nell’accennare qua e là al
fatto che il significato del termine guaglione
non si limita a quello di ‘ragazzo, giovincello’ ma si estende ad abbracciare
anche uomini di una certa età; 2) l’affermazione perentoria (a p.10, punto 3)
“…il passaggio a gua- presuppone un’iniziale va-/wa-
e non ga-…” in cui critica la
proposta di alcuni di far derivare guaglione
dal lat. ganeon-e(m)
‘crapulone, nonché quella di p. 5 “… non si capisce per quale oscuro motivo ca- abbia dato gua- ed –l- si sia
sviluppata in –gli-.”.
Ora, per quanto riguarda la
prima affermazione c’è da notare che, in tutti i dialetti in cui compare la
parola guaglione e simili il
significato di fondo resta quello di ragazzo
o giovane, anche se essa, soprattutto
per via del servizio, attività o mestiere esercitato, si estende anche a persone
di età avanzata. Del resto si sa, ad esempio, che presso i
latini uno era considerato e chiamato giovane
(lat. iuven-em) fin oltre i
40 anni. La seconda affermazione mi ha fatto sospettare che il Polito non
avesse grande dimestichezza col dialetto napoletano, come del resto non ce l’ho
nemmeno io. Solo che lui ha avuto, diciamo così, l’avventatezza di non andare a
verificare in qualche modo la sua convinzione dell’impossibilità del passaggio
fonetico da ga- a gua- nel napoletano anche perché aveva
già in mente l’etimo da lui supposto per guaglione ( e cioè il termine
medioevale balivo che assunse di
tempo in tempo molti significati ruotanti intorno a quello di ‘persona
investita di qualche autorità’, da quella di governatore a quella dell’umile
banditore). In verità ho potuto constatare,
con l’aiuto di vocabolarietti in rete, che diverse sono le voci napoletane che
attestano quel passaggio, come guance/it.gancio, guarzone/it.garzone,
guarrese/it.garrese,
guarnère/it.carniere,
guatto/it.quatto
(in cui il passaggio avviene dalla velare sorda del part. pass. latino coact-um)[5],
gualla
‘ernia’ che molto probabilmente presuppone una forma di partenza *galla o *calla, simile al gr. kḗlē, dor. kálē ‘ernia, tumore, rigonfiamento’.
Si potrebbe quindi ben sostenere per questo vocabolo, senza forzature, la
trafila *calla>*galla>gualla inammissibile per il Polito. Il rafforzamento della /l/
nel vocabolo potrebbe essere dovuto al fenomeno del raddoppiamento pretonico o
postonico, molto frequenti nel napoletano e non solo, come in ommo
‘uomo’, in comme ‘come’, ammore ’amore’, cammisa
‘camicia’, cénnere ‘cenere’, chiammà ‘chiamare’, ecc. ecc.
Diverse sono le voci napoletane che attestano
il passaggio della velare sorda /c/ alla
rispettiva sonora /g/ (da cui
eventualmente spiccare il volo per forme in gua-)
come groce
‘croce’, galappio ‘calappio’, gaviglia ‘caviglia’, gravone
‘carbone’, gresema ‘cresima’, guarracino, una sorta di pesce nero
chiamato coracino, in cui si verifica
il passaggio dalla velare sorda co-
addirittura alla labiovelare gua-,
ecc.
E’ vero che la forma
palatalizzata -gli- deriva in genere
da -li- o –le- ma non sempre. Spesso la doppia –ll- (senza la presenza delle vocali palatine /i/ ed /e/) genera in
napoletano il suono palatale –gli- come
in cagliozza<
it. gallozza, faglià < fallare, paglioccola
(grumo di farina non ben mescolata)<*palloccola,
diminutivo di it.palla, ecc. Le varie forme napoletane sopra citate derivanti
dal lat. loli-u(m) permettono
di dire che anche il lo- iniziale
poteva trasformarsi in glio-, anche
se in questo caso potrebbe adombrarsi un’assimilazione all’esito –gli- del seguente –li-. Nell’abruzzese del mio paese di Aielli la parola in questione suona
jjójjë
con le due /l/ originarie del
latino trasformate in semivocali raddoppiate /jj/. Le chelï-èndrë, nel dialetto abruzzese, sono ‘le prime gemme degli
alberi’[6]
che ci riconducono quindi al regno vegetale dei getti, polloni, rampolli,
ramoscelli’ i quali spesso condividono l’etimo con i rampolli animali ed
umani. Il lat. cali-endr-u(m) o cali-andr-u(m) indica una ‘capigliatura posticcia,
ornamento femminile della testa’ cioè un insieme di capelli assimilabili alla peluria
e ai getti
del regno vegetale, concetto che ritorna nel gr. káll-unthr-on ‘rami’ o gr. káll-untr-on ‘scopa’, oggetto costituito da un
manico ed un insieme di rametti di scopa; la parola può aver dato origine al
lat. cali-endr-u(m) di cui sopra, ma secondo me non è
certo. In greco la parola ha subito il forte influsso del verbo kallún-ein ‘abbellire’.
Ora, ammesso che la radice
originaria di nap. guagli-one sia cal-, la stessa del primo elemento del
calabrese cagli-andrë
‘ragazzo’, non c’è nessuna difficoltà teorica, in base alle considerazioni
fonetiche più sopra fatte, che essa dia come esito la forma guagli-óne (visto che nel napoletano esiste
anche gaj-aru ‘giovinetto’,
una forma intermedia, per la sillaba iniziale, fra cagli-andrë e guagli-one). Per essa si può presumere un normale raddoppiamento
pretonico della /l/ che ne provoca la
trasformazione nel suono –gli- come
abbiamo visto poco fa. Nel mio paese, e in genere nella Marsica, il termine è uajj-ólë o
vajj-ólë (con forme metafoniche per il
femminile e il plurale), le quali paiono diminutivi del nome che è alla base
del napoletano guagli-one il cui
suffisso –one non è accrescitivo ma
assimilabile a quello di molte altre parole latine che escono in –on-e(m) e a quello di voci italiane come capro/capr-one, ladro/ladr-one, in cui il
suffisso dà, o prova a dare, qualche sfumatura di significato in più alla parola
di base a cui si unisce. In abruzzese si incontra anche un forma guajónë[7]
‘giovinotto, ragazza’ con la liquida /l/
palatilizzata ma non raddoppiata. La variante napoletana guagnóne non deriverà
direttamente dal verbo napoletano guagnì ‘piagnucolare’, come voleva il
Rholfs[8],
ma sarà stata frutto dell’incrocio di guaglióne col verbo suddetto, che ha
trasformato il significato in ‘colui che piagnucola’.
Da ultimo credo sia utile
accennare al fatto che in napoletano esistono forme, antiche e moderne, come quaglia
‘ragazza rotondetta’, quagliòzza[9]
’ragazza formosa’, quagliòna[10]
‘ragazza’ che fanno presumere un incrocio della parola guagliona col nap. e it. quaglia. Io propendo a credere che inizialmente si
trattava di radice diversa da quella di gual(l)- , gal(l)-, cal(l)-
di cui abbiamo parlato sopra la quale in fondo coincide con quella di lat. gall-u(m) ‘gallo’, gall-in-a(m)’gallina’. Quest’altra,
invece, andava a coincidere con radici simili a quella di lat. *coc-ul-a(m)’quaglia’, medio-lat. quagla[11]
’quaglia’ ingl. cock ‘gallo’, fr. coq
‘gallo’, fr. coc-otte ’gallina’
‘ragazza o donna leggiera’, infant. ‘gallina’, serbo-cr. kok-ot ‘gallo’, serbo-cr. kok-oš ‘gallina’, ungher. kak-as ‘gallo’, gr. kikk-ós ‘gallo’, gr. kíkk-a ‘gallina’. Infatti abbiamo mostrato come i rampolli del regno
animale coincidano con quelli umani e vegetali. Inoltre la quaglia
appartiene alla stessa famiglia del gallo e della gall-ina; che esistesse una parola appartenente a questo secondo ordine
di radici in velare, è dimostrato, a mio avviso dall’ingl. cackle ‘fare coccodè’, ted. gackel-n ‘schiamazzare, far coccodè’, dall’abr. cach-ilï-à o cach-ëlëj-à ‘schiamazzare della gallina che ha
fatto l’uovo’, ‘balbettare’, calabr. cacagliare, cacagghiare ‘tartagliare’[12], fr.arc.
cacailler ‘chiocciare, far coccodè’. Il significato della radice, il quale
inizialmente doveva indicare un suono
generico, assunse a mio parere quello di ‘coccodè’ perchè esisteva una
parola uguale o simile per ‘gallina’, come succede sempre in casi del genere. E non mi si venga a dire che le voci
abruzzesi sono state prese di peso da quella inglese.
Dimenticavo il lat. cuc-ul(l)-u(m)’cuculo’, ingl. cuckoo
‘cuculo’, ecc.. Per poter convincersi che i nomi e i versi di questi uccelli
non sono onomatopeici, prego di leggere l’articolo Etimo di chicchirichì ‘gheriglio della noce’ e la falsità delle onomatopee presente nel mio blog (/6/25/2009). Un
forte indizio sul valore iniziale generico dei versi riferiti a questi uccelli
è il fatto che in greco kokkú-sd-ein significa sia ‘fare chicchirichì’ riferito al gallo, sia
‘fare cuccù’ riferito al cuculo. I due versi non sono affatto sovrapponibili e
quindi è lecito supporre che il significato di fondo della radice fosse quello
di ‘suono’ o ‘rumore’, come espressione di una tensione o energia
interiore che si manifestavano
attraverso la sonorità. Il gr. kĩku-s significa proprio
‘forza, vigore, energia’ e gr. kikka-baû ‘verso della civetta e del gufo’ il cui secondo membro
richiama, a mio parere, il gr. baú ‘verso del cane’. Però il gr. kikká-bē, che in Euripide vale ‘civetta,
gufo’, etimologicamente va collegata, secondo me, con la serie cui appartiene
il gr. kikk-ós ‘gallo’, più sopra citato, e il gr. kakká-bē ‘pernice’. Tutte radici considerate onomatopeiche ma che
lo erano poco e, quindi, solo per via convenzionale, perché inizialmente
avevano a mio avviso il valore generico di “suono”, rafforzato dalla
reduplicazione del segmento fonico, con o senza antifonia vocalica. Le stesse radici avevano elaborato l’altro
significato generico di “animale, uccello” che cercava pretesti per
specializzarsi in questo o quell’animale
o in questo o quell’uccello che emetteva il presunto verso onomatopeico:
le varie specie di pernice non fanno affatto kakká-bē!
Un altro caso molto
interessante è quello costituito dal sicil. cucchigghiàta[13],
calabr. cucugliàta, pugl. cucugghiàta ‘allodola ca(p)pelluta’,
voci che vengono derivate dai linguisti da un latino parlato (alauda) *cuculleāta ‘allodola che
porta un cappuccio’, il quale farebbe riferimento al ciuffo di penne erettili
sul capo dell’uccello che, se si vuole essere precisi, è appunto un ciuffo non un cappuccio. In pugliese si ha
anche la forma cocùgghia che però non è retroformazione da cucugghi-àta (cfr. anche spagn. cogujada ‘allodola cappelluta’), come pensano i linguisti, ma una voce
femminile composta dalla stessa radice di lat. cucul(l)-u(m) ‘cuculo’ sopra citato, che in quel caso si era
incontrato col verso cu-cu
dell’uccello, in quest’altro, invece, col lat. cucull-u(m) ‘cappuccio’, fatti che
determinarono lo specializzarsi nei due sensi diversi del significato iniziale
e generico del termine, secondo me “uccello”.
In sardo logud. la voce cucc-ullia[14]
(nuor. cucullia) ha il significato
generico di allodola non di allodola cappelluta, e il primo membro del
nome richiama il primo di sardo logud. cucca-pedra ‘allodola’. La finale –àta
non rappresenta un suffisso latino femminile, simile a quello del part. passato
della I coniugazione, ma a mio avviso adombra una seconda componente di un termine
*cucull-ata, col significato di
‘allodola’; in qualche modo esso si può ricavare dal lat. al-aud-a(m) o ala-ud-a(m)‘allodola’
se nello spagn. moderno allodola
suona al-ondra. Da quest’ultima voce, infatti, si ricava una prima
componente al- se la seconda –ondra equivale alla seconda –andra di it. cal-andra (cfr. gr. kál-andr-os ‘sorta di allodola’). Del
resto anche il greco ci offre la possibilità di ricavare la componente –all- da korud-áll-os ‘allodola
cappelluta’, ampliamento della forma kórud-os dallo stesso significato.
In sardo logud. si incontra
la voce cucc-uda ‘upupa’[15]
che può facilmente ingannare sulla sua etimologia che credo venga spiegata infatti
come “(uccello) munito di cresta” dalla base cucca- che mostra spesso
il valore di ‘cima, punta, cresta di monte’ in vari dialetti. In realtà il
termine si inquadra nella serie cui appartiene il serbo-cr. kok-ot ‘gallo’ sopra indicata. Ancora nel
logudorese esiste il vocabolo cucc-ol-adu ‘crest-ato’ che è ampliamento di quella base (normalmente si
ha in sardo cucc-uru ‘cima,
cocuzzolo’): anche se esso coincide col lat. cucull-u(m) ‘cappuccio, involucro di carta per
incartarvi pepe (che evidentemente aveva la caratteristica forma a cuneo)’, di
cui abbiamo parlato più sopra, qui il significato è quello diretto di “cresta”
non quello metaforico di “incappucciato”. D’altronde, per mancanza di una
visione più profonda ed ampia della Lingua, non si è ancora abbastanza capito,
a mio parere, che i due significati di “cima, cresta” e “cappuccio” sono
interconnessi, almeno in questo termine.
L’upupa, in sardo logudorese, mostra tra i tanti anche il nome di cuccu-baju, cuccu-vaju che condivide con quello dato all’allocco. Il termine è quello del greco bizantino koukkou-bágia ‘civetta’ ma io non credo che le
voci sarde ne derivino direttamente: basta osservare che altro nome logudorese
dell’upupa è culu-baju con la seconda
componente –baju che serve ad indicare l’upupa (ilare uccello calunniato
dai poeti) diverso dalla civetta.
Il gentile lettore mi scusi se
mi dilungo nell’analisi di qualche altro termine sardo per upupa, ma la cosa è
davvero interessante. Uno di essi è laudaddeu[16]
che non so se vada sciolto in ‘lode a Dio’ o in ‘loda Dio’ ma comunque ciò non
ha molta importanza ai nostri fini etimologici. Già molti anni fa nell’articolo
Parole sarde del DULS presente nel
blog (23/6/2009) avevo asserito che espressioni come sardo caddu de Deu ‘cavalocchio,libellula’ ripetevano lo stesso concetto
di “animale” nei due termini di cui si compone. Anche qui la voce lauda-ddeu
deve ripetere lo stesso cliché, ma il membro iniziale deve essere il latino
e sardo alauda ‘allodola’ che qui naturalmente prende il significato di
‘upupa’ non tanto perché i due uccelli hanno la cresta sul capo, quanto perché
i nomi sono intercambiabili per via del loro significato d’origine molto
generico. Qui è successo l’identico fenomeno dell’it. lodola, cioè l’errata
discrezione della /a/ iniziale el
termine, considerata parte dell’articolo femm. deter. la in italiano, e dell’articolo femm. deter. sa in sardo, sicchè quelle che erano s’alauda in sardo e l’al(l)odola
in italiano sono diventate rispettivamente sa
lauda e la lodola. La lauda si incrociò col termine omofono
sardo per ‘lode’ vista la presenza del –ddeu
successivo. Le parole, lo sappiamo, non
vedono l’ora di assumere un significato purchessia per giustificarsi sul piano
della lingua in cui vengono a trovarsi. Infatti, a mio avviso, la stessa
espressione, interpretata diversamente, ha dato origine all’altro termine sardo
per ‘upupa’ saluda-ddeus che deve
essere sciolta in ‘saluta Dio’ oppure in ‘saluto a Dio’. In realtà in questo
caso si è avuto l’agglutinamento dell’articolo apostrofato s’ ‘la’ con sardo alauda ‘allodola’
che ha prodotto prima un *salauda e poi, per incrocio con sardo
saludu ‘saluto’ o con una voce del
verbo saludai ‘salutare’, la voce saluda-ddeus: la presenza del secondo membro –ddeu ha spinto il parlante a trovare un
significato purchessia all’intera espressione in cui il senso originario del
primo membro avrebbe creato qualche difficoltà di comprensione. L’altra espressione sarda saluda su re ‘upupa’ che letteralmente
vale ‘saluta il re’ è a mio avviso l’interpretazione erronea di un originario *s’alauda-sorex, il cui
secondo membro, che in latino significa ’sorcio’, viene inteso e segmentato come
so-rex>
su-rex> su re ‘il re’ dal
lat. reg-e(m) ’re’. Naturalmente dietro il suo significato
specializzato doveva esserci il significato generale di ‘animale’ o ‘uccello’. Si pensi, ad esempio, che il sardo algherese crab-edu [17]‘alzavola’
(cioè un tipo di anatra) è molto simile al sardo crab-it(t)u ‘capretto’.
Se si riflette sulle parole
che sto per citare, prese da diverse lingue e dal dialetto sardo, francamente
non si riesce ad indicare quali siano le varianti o le forme metatetiche
rispetto ad una radice d’origine, la quale evidentemente non lo era mai stato,
perché esse già sussistevano da sempre, col significato generico di ‘animale’, insieme
a quella radice considerata erroneamente capostipite. Ecco le parole: sardo crob-u’corvo’,
sardo creb-u ‘cervo’, sardo
algherese crab-u, crab-edu ‘tipo d’anatra’, sardo crab-a ’capra’, lat. capr-a ‘capra’, ted. Käfer ‘coleottero’,a.isl. hafer’capro’,
gr. kápr-os
‘cinghiale’, a. a. ted. hrab-an= ted. Rabe ‘corvo’, ingl. raven
‘corvo’, ingl. crow ‘cornacchia,
corvo’, lat. cerv-us ‘cervo’, calabr.
cerv-iéllu ‘capretto’ (che a mio parere non
è dall’ant.fr. chevrel ’capretto’),
abr. cerv-ónë ‘grosso serpente’, it. lupo cerv-iero ’lince’[18],
lat. corv-us
‘corvo’,gr. kór-ak-s ‘corvo’. Come secondo me dimostra l’algherese crab-u ’anatra maggiore’, che condivide la
radice con quella di sardo crab-u ‘capro’, non bisogna farsi ingannare dalle radici onomatopeiche
supposte per diversi dei termini sopra elencati, nonché da quelle che fanno
riferimento ad una idea di “corno” o ad altro per i restanti termini.
Un’altra osservazione moltissimo interessante
si può fare sulla radice cerv- che, secondo me, si ritrova anche nel ted. Kerb-tier ‘insetto’ (anche ted. Kerf
‘insetto’) che viene spiegato come un calco sul lat. in-sect-u(m)’insetto’
che per la verità i classici usavano solo al plurale insecta. Come avevo notato
anche nell’articolo Nomi di venti ovvero gli
abbagli della linguistica del 1/5/2012, nel dialetto sardo campidanese si
incontrano le voci cerpi-u e in-cerpi-u ‘insetto’ le quali fanno supporre (cosa che non avevo evidenziata
in quell’articolo) che il termine tedesco sopra citato, con radice simile nel
primo membro, non sia calco sul lat. in-sect-u(m) ‘insetto’ come si pensa[19]
ma esistesse autonomamente già da molto tempo[20]. Il ted. Kerb-tier, sul piano della lingua tedesca, significa letteralmente
‘animale (-tier) con intagli (Kerb-)’
dal verbo kerb-en ‘intaccare’
allo stesso modo come viene inteso il lat. in-sect-u(m) che letteralmente vale
‘(animaletto) intagliato’ part. pass. del verbo in-sec-are ‘intagliare,
incidere’, nomi che si riferirebbero al fatto che il corpo degli insetti è
generalmente nettamente diviso in due o più parti. Il latino sarebbe calco del
gr. én-toma ‘insetti’ e così la
questione sembra chiudersi definitivamente senza alcuna possibilità di
contraddirne la soluzione. La quale non
mi soddisfa almeno alla luce di uno dei principi cardinali della mia
linguistica (di ascendenza saussuriana) secondo cui è vano credere che i nomi
siano stati posti ai referenti con le significazioni di cui si caricano solo
successivamente e che magari indicano questa o quella sua caratteristica,
mentre il nomoteta iniziale della lingua, diciamo così, ha indicate le cose per
quello che erano, anche se con concetti generalissimi.
In base a queste mie
convinzioni il primo componente di ted. Kerb-tier non va accostato al verbo suddetto, ma alla radice di lat. cerv-u(m) ‘cervo’ sopra citato insieme alle
altre parole corradicali, nel suo significato primordiale che secondo me era
quello di ‘animale’ prima che il termine si incrociasse col verbo kerb-en ‘intaccare’ e gli permettesse così
di dar vita ad una parola che sembrava essere stata creata apposta per quegli
animaletti col corpo segmentato. Lo stesso fenomeno deve essere avvenuto per il
gr. én-tom-on ‘insetto’ che nel suo significato di parata vale
‘intagliato’ (dal verbo témn-ein ‘tagliare’) con sottinteso
zǭ-on ‘animale’. Non è
azzardato, per gli stessi motivi, ipotizzare un termine arcaico, caduto poi in
disuso, che suonasse *en-thum-on col significato di ‘essere
vivente, animale’. La radice di –thum-on corrisponderebbe a quella di gr.
thum-ós ‘animo, anima, vita, spirito,
coraggio, ardore, collera, mente, pensiero, ecc.’ a sua volta ampliamento del
verbo thú-ein ‘mettere in
rapido movimento, muoversi con impeto, agitare, infuriare, imperversare, sacrificare
(sign. prim. far fumare), ecc.’.
L’espressione erodotea én-toma poieĩn ‘fare sacrifici,
sacrificare’ credo possa farci propendere per un’idea simile che vede in én-toma una copertura di un precedente *én-thuma
con la radice usuale per indicare i sacrifici,
piuttosto che indicare, secondo la lettera, lo spezzettameno o l’uccisione
della vittima del sacrificio. Da non dimenticare i forti influssi di questa
radice nel ted. dun-st ‘esalazione,
vapore, fumo, nebbia’, ted. tumm-el-n ‘mettere in moto, agitare, affrettarsi’ e, a mio avviso, anche
ted. Tümm-ler ‘delfino’ o ‘specie di
piccione’ in quanto ‘esseri viventi, animali’ come l’ingl. tom-tit ‘cinciallegra’, uccello noto, oltre che col semplice tit, anche come tit-mouse in cui ritorna
il falso ‘topo (-mouse)’, falso perché qui deve fare i conti non col ted. Maus ‘topo’, lat. mus ‘topo’, gr. mus ‘topo’
bensì col ted. Meise ‘cinciallegra’. Ma anche il topo
non era altro che un piccolo animale.
E siamo giunti al lat. in-sect-u(m)
‘insetto’ che non so se sia il più facile o il più difficile dei tre. E’
chiaro che la sua spiegazione non va cercata tra le radici per ‘taglio,
sezione’ e simili ma, a mio parere, bisogna andare ad interrogare il ted. Ein-sicht
corrispondente all’ingl. insight per appurare qualcosa. I due sostantivi sono composti dalla
preposizione ein- (in-) ‘in, dentro’ e dalla componente
-sicht
(sight) ‘vista’. Insomma, si
tratta di una visione che si spinge
all’interno, una intuizione, una profonda perspicacia, una capacità di
penetrazione caratteristica della mente di una persona intelligente. Fin qui i significati della parola inglese e
di quella tedesca coincidono, ma per quella tedesca ho rilevato un significato
più particolare, non presente in tutti i vocabolari, che a prima vista sembra
non essere in armonia con gli altri: impulso,
istinto. Ora, basta notare che, volendo
capire qualcosa di profondo si ha bisogno di una forte energia intellettiva,
per cominciare a rendersi conto che, in realtà i due poli della penetrazione mentale e degli impulsi vitali di qualsiasi natura sono
due aspetti diversi di una medesima realtà, quella dell’uomo composto, diciamo
così, di materia e forma. Il quale, per mettere in moto sia le attività
superiori mentali e spirituali sia quelle di natura istintiva deve sottoporle comunque
a tensione ed animazione. Infatti, nell’articolo Principi di gnoseologia del 8/1/2913, tratto abbastanza ampiamente
di come l’uomo abbia tradotto nella lingua, attraverso il concetto di
‘attenzione e tensione’, e quindi di ‘spinta’, tutte le sensazioni da lui
provate, anche le superiori. Si aggiunga
il fatto che i termini sopra citati hanno come etimologia una radice
corrispondente a quella del verbo latino
sequi ‘seguire’, il quale si configura come l’azione che compie chi cerca
di entrare ed entra in contatto con qualcosa attraverso l’attenzione degli occhi, nel caso dei verbi tedesco e inglese,
rispettivamente seh-en ‘vedere’ e to see
‘vedere’. Insomma il ted. Sicht
‘vista’, per esempio, è la traduzione visiva di questo moto di attenzione e di tensione compiuto da chi è impegnato nel vedere. Ecco perché Ein-sicht ha mantenuto anche il
significato apparentemente un po’ anomalo, rispetto agli altri, di impulso, istinto che abbiamo visto abbondare, ad esempio, nel gr. thum-ós
‘animo, ardore’ ma anche ‘mente, pensiero’.
In latino abbiamo il termine secta, simile formalmente a sicht/sight,
ma col significato di ‘setta’, un insieme di seguaci. Ora, tirando le somme di queste
considerazioni, mi pare che non sia affatto uno sproposito supporre per il lat. in-sect-um ‘insetto’ un sostantivo primordiale
sottostante, uguale al tedesco Ein-sicht ma col significato di impulso, energia vitale, anima, animale
molto distante da quello del part. passato del verbo lat. in-sec-are ‘incidere,
intagliare’. Nella lunghissima storia di una lingua moltissimi saranno stati i
termini col significato di animale
sul piano diacronico e su quello sincronico nei diversi dialetti, via via
rimpiazzati da altri: quindi non è affatto difficile che tra di essi ne siano
capitati alcuni soggetti ad essere interpretati come animali segmentati e quindi adatti ad indicare la classe degli
insetti.
Can-ëstr-élla era il termine riservato all’upupa
nel mio paese di Aielli, termine che finora non ho riscontrato in altri paesi
della Marsica. Si pensava che l’uccello
fosse così nominato per la somiglianza della sua cresta aperta ad un canestro,
ma non è così. In verità l’elemento can- richiama il ted. Hahn
‘gallo’ il greco dor. khán ‘oca’, il fr. can-ard ‘anitra’, il fr. cane
‘anira femmina’ e, se si vuole, anche il lat. can-e(m) ‘cane’, in quanto animale. L’elemento –ëstr- forma il secondo
membro, con valore talora dispregiativo, di voci come l’it. poll-astra, it. aquil-astro ‘falco
pescatore’, sardo logud. abil-astru ‘poiana’ il cui primo elemento abil-
vale ‘aquila’.La radice astr- si
ritrova nell’a.a.ted. agal-astra inteso come ‘uccello (-astra)
crocidante’ ma secondo me questa interpretazione del primo membro agal- è erronea. L’elemento –élla non è affatto un suffisso
diminutivo ma si ritrova, ad esempio, nel gr. ell-ós ‘cerbiatto’, gr. él-aph-os ‘cervo’, ecc.
[2] Cfr. sito web: http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Giuseppe-Giacco-Vocabolario-napoletano-vesuvioweb.pdf
[4] Cfr. sito web: http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Armando-Polito-Guaglione-Ricerca-etimologica-vesuvioweb.pdf
[5] In abruzzese
esiste anche la forma uattë ‘quatto’< quattë. Comunque si incontrano (cfr.
vocab. del Bielli) anche forme in gu-
come nell’espressione guéttë guéttë ‘quatto quatto’ con la
/a/ mutata in /é/. Si incontra anche vèrcë
per it. “quercia”.
[6] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla
editore, Cerchio-Aq 2004.
[7] Cfr. D.Bielli, cit.
[8] Cfr. G. Rholfs, Vocabolario dei dialetti salentini,
Edit. Congedo, Galatina-Le, 1976, tomo I, p.264.
[9] Cfr. per le due voci sito
web: http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Giuseppe-Giacco-Schedario-napoletano-II.pdf
[10] Cfr: https://books.google.it/books?id=M3_7GwAACAAJ&dq=na+bona+quagliona&hl=en&sa=X&ved=0ahUKEwiK_LLT_PjaAhVRZ1AKHYwqCIIQ6AEIKzAA.
[11]Cfr.web:https://iris.unito.it/retrieve/handle/2318/104124/16106/RIVOIRA_Le%20parole%20dell%27agricoltura_POSTPRINT.pdf
s.voce quagla.
[12] Cfr. D. Bielli, cit. nonché Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino
1998, s. voce cacàglië.
[13] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, cit.
[15] Cfr. sito web: http://www.antoninurubattu.it/r5/index.php?option=com_glossary&Itemid=0&glossid=9&page=1152
[16] Cfr. sito web: http://www.antoninurubattu.it/r5/index.php?option=com_glossary&letter=U&id=193078
[18] La lince non è un lupo né cacciatrice di cervi, ma semmai assomiglia ad un grosso
gatto e si nutre di piccoli mammiferi come uccelli.
[19] Da informazioni tratte
dal Web la parola kerb-tier viene
ricondotta alla creazione, come calco sul termine latino corrispondente, a due
importanti scrittori tedeschi, uno del ‘600, l’altro del ‘700. Cfr. https://en.wiktionary.org/wiki/Kerbtier
e https://educalingo.com/it/dic-de/kerbtier
[20] Indipendentemente
dall’avvenuto o meno calco sul latino insetto
la dimostrazione che la parola ted. Kerf esistesse già per conto suo col sinificato di
‘tipo di mosca’ è data da questo sito web: https://de.wiktionary.org/wiki/Kerf
, in cui si afferma che le antiche definizioni del termine Kerf descrivevano una mosca di color nero.
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