Vattelapesca donde derivi l’aggettivo! L’unico
termine italiano cui esso sembra chiaramente alludere è palazzo che al massimo, però, potrebbe suggerire, con un po’ di
buona volontà, l’idea di “grandezza”.
Ma in realtà la strada che porta alla soluzione del dilemma c’è in
questo caso ed è anche abbastanza agevole, una volta diradate le nebbie che
l’oscurano.
In
greco si incontra la parola phḗlēk-s , che il Rocci traduce “fico agreste,
cioè che sembra maturo ma non è”.
Sicuramente agreste sta qui per “agresto” che in italiano significa ‘acerbo, aspro’.
Difatti il vocabolario del Gemoll traduce direttamente “fico acerbo”. Il Rocci suggerisce anche l’etimo dal gr. phêl-os ‘ingannatore’ in quanto quel tipo di
fico sembrerebbe maturo senza esserlo. Ma, secondo me, se presso qualche
scrittore greco il termine ha questo significato esplicitato dal Rocci, ciò è
dovuto a semplice incrocio con la parola greca per ‘ingannatore’, che non
costituisce a mio parere il suo vero etimo il quale scaturirà direttamente dal
significato generico di ‘fico’, come succede spessissimo in tanti altri
casi.
In abruzzese si incontra la voce fëllacciànë
‘fiorone, fico fiore’[1],
cioè il fico primaticcio che matura alla fine della primavera o inizio
dell’estate. E’ strano però che i
linguisti, pur formulando qualche ipotesi sull’etimo di questa voce, non
indichino affatto il gr. phḗlēk-s di cui ho detto sopra.
Sarà forse perché il significato di ‘fico acerbo’ non collima con quello
di ‘fiorone’? Ma questi sono accidenti superabilissimi spiegabili con qualche
incrocio, appunto! Li avrà distolti il suono della vocale /a/ presente in tutta
la sua pienezza nella voce laziale (Bellegra-Rm) di fallacciano[2]?
Alcuni linguisti riconducono la voce
abruzzese, che presenta altre varianti come fëllàccë, fëllàcchië
(più vicine al termine greco citato), al lat. fic-u(m) ’fico’ attraverso, credo, la forma dialettale latina
ricostruita *fic(u)la-c(u)l-u(m),
una sorta di doppio diminutivo di fic-u(m) ‘fico’, con assimilazione regressiva della prima /c/ alla /l/
successiva dopo la caduta, nella pronuncia,
della /u/ intermedia (sincope), dando così come esito filla-.
La seconda /c/ seguita da /l/ ha dato l’esito normale –cchjë formando la voce fillà-cchje passata quindi a fëlla-cchjë, con trasformazione nella
vocale indistinta /ë/ della /i/ nella sillaba iniziale non accentata.
A
parte tutto ciò, resta anche il fatto notevole che nel dialetto dorico, come i
cultori di greco sanno, ad ogni eta impuro
(da me reso graficamente con –ē-)
corrisponde un’alfa, che ha il suono aperto della /a/ italiana. Quindi il termine attico-ionico phḗlēk-s ‘fico acerbo’ sopra citato, in
dorico avrebbe dovuto presentare la forma *phálak-s
che richiama, nella pronuncia, la voce suddetta fallacc-iano di Bellegra-Rm. Ma il bello è che
essa richiama anche l’abr. palazzë , del titolo di questo
articolo, riferito a ‘varietà di fico grosso’.
In effetti la pronuncia di /ph/ in
greco era quella di una semplice /p/
seguita da un leggero soffio di aspirazione, tanto che nei primi tempi di
trascrizione in latino arcaico, esso veniva reso anche col semplice /p/, che è
un’occlusiva labiale, non una fricativa sorda /f/ come oggi noi la pronunciamo. Quindi, a mio parere, l’abr. palazzë
e l’abr. fëllacc-iànë (che
all’origine dovevano indicare nient’altro che il concetto di “fico”) attestano
le due oscillazioni di pronuncia esistenti ab
antico di una base originaria corrispondente al dorico *phálak-s.
La pronuncia della parte finale di palazzë
deve derivare da una forma originaria *phalàk-jë (evolutasi da dorico phálak-s) con pronuncia prima gutturale, poi
palatale e, successivamente, affricata (ts)
dando come esito appunto palazzë. Il passaggio da palatale –ccë ad affricata sorda –zzë
è attestato in diverse voci abruzzesi come zichë da cichë ‘piccolo, poco’[3];
abr. zizëlà
‘cigolare’ da abr. cëcëlà ‘cinguettare’ (arcaico chëchëlà ‘cinguettare’),
ad Aielli-Aq. ed altrove. Alcuni fanno
derivare il nome fëllaccianë suddetto e varianti dal personale Felicianus ‘Feliciano’ e arrivano anche
a metterlo in connessione col nome del Santo. A parte il San Feliciano patrono di Foligno si
incontrano anche i santi Primo e Feliciano, martirizzati nel IV sec. d. C. che,
data la loro incertissima esistenza reale, potrebbero avere a che fare con
questi frutti “prim-aticci” o “primizie”, nel senso che il nome di Feliciano
potrebbe essere stato quello di una divinità della natura e della fecondità in
tempi preistorici.
Porto a conoscenza di chi non lo sapesse che in Grecia, nelle feste di Dioniso (Bacco) chiamate
Falloforie, gruppi di vergini portavano in processione enormi “falli” di legno
di fico, simboli del dio Priàpo, il
quale adornava spesso orti e giardini anche a Roma, rappresentato appunto con
quel simbolo di legno di fico. Perché il legno di fico? Come sempre accade in
questi casi, il motivo è da cercare nel semplice incrocio di termini simili: la
prima parte del dorico *phál-ak-s è quasi uguale al gr. phall-ós ‘fallo’, simbolo della forza generatrice. In qualche dialetto e in periodi precedenti a
quello classico quel termine doveva significare direttamente ‘fico’. Del
resto la radice delle due parole
greche era la stessa, e cioè BHEL ‘essere
turgido, rigonfio, rotondeggiante’, significato adatto sia per l’organo
sessuale maschile, sia per ogni frutto, in specie quello del fico in genere e del
tipo fëllacciànë in particolare. Nella radice è incluso anche il significato
di ‘rigonfio, grosso’ che spesso accompagna la definizione di questo tipo di
fico. Gli incroci sono molto importanti perché possono spiegare fatti
particolari altrimenti poco comprensibili.
Un altro significato di fëllacciànë ‘fico primaticcio di
colore nero con riflessi azzurrognoli’[4]:
come mai spunta questo colore nero? Io non credo affatto che queste
precisazioni siano casuali. Ci deve essere una qualche giustificazione. Secondo me difficilmente il termine deriva direttamente
da quello del dialetto dorico: esso potrebbe essere arrivato dalle nostre parti
anche prima che esso approdasse in Grecia e potrebbe essersi incrociato con una
radice per ‘nero’ come quella che ritroviamo nell’ingl. black ‘nero’ che, secondo
i linguisti, è quella del lat. flag-r-are
‘ardere, bruciare’ in quanto il nero
è il colore di qualcosa bruciato. La radice sarebbe BHLEG ‘brillare’ molto simile nella forma esteriore a quella di gr. phḗlēk-s ‘fico acerbo’.
Quante cose ci raccontano le parole, in specie alcune, su epoche
lontanissime dell’uomo, se sappiamo prenderle per il verso giusto e
interrogarle senza presunzione! Altrimenti si chiudono a riccio e diventano
mute come pietre. Sono giustamente gelose, soprattutto verso i saccenti
insopportabili, dei loro autentici tesori.
[1] Cfr.
Cortellazzo-Marcato, I Dialetti Italiani,
UTET Torino, 1998, sub voce.
[2] Voce che
indica il ‘fico’ che matura dopo la metà di luglio. A fine luglio a Bellegra-Rm se ne celebra
infatti la sagra.
[3] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla edit., Cerchio-Aq. 2004.
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