sabato 14 luglio 2018

Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli: “Palazzë, ag. Una varietà di fico grosso”.



Vattelapesca donde derivi l’aggettivo! L’unico termine italiano cui esso sembra chiaramente alludere è palazzo che al massimo, però, potrebbe suggerire, con un po’ di buona volontà, l’idea di “grandezza”.   Ma in realtà la strada che porta alla soluzione del dilemma c’è in questo caso ed è anche abbastanza agevole, una volta diradate le nebbie che l’oscurano.

   In greco si incontra la parola phḗlēk-s , che il Rocci traduce “fico agreste, cioè che sembra maturo ma non è”.  Sicuramente  agreste sta qui per “agresto” che in italiano significa ‘acerbo, aspro’. Difatti il vocabolario del Gemoll traduce direttamente “fico acerbo”.  Il Rocci suggerisce anche l’etimo dal gr. phêl-os ‘ingannatore’ in quanto quel tipo di fico sembrerebbe maturo senza esserlo. Ma, secondo me, se presso qualche scrittore greco il termine ha questo significato esplicitato dal Rocci, ciò è dovuto a semplice incrocio con la parola greca per ‘ingannatore’, che non costituisce a mio parere il suo vero etimo il quale scaturirà direttamente dal significato generico di ‘fico’, come succede spessissimo in tanti altri casi. 

   In abruzzese si incontra la voce fëllacciànë ‘fiorone, fico fiore’[1], cioè il fico primaticcio che matura alla fine della primavera o inizio dell’estate.  E’ strano però che i linguisti, pur formulando qualche ipotesi sull’etimo di questa voce, non indichino affatto il gr. phḗlēk-s di cui ho detto sopra.  Sarà forse perché il significato di ‘fico acerbo’ non collima con quello di ‘fiorone’? Ma questi sono accidenti superabilissimi spiegabili con qualche incrocio, appunto! Li avrà distolti il suono della vocale /a/ presente in tutta la sua pienezza nella voce laziale (Bellegra-Rm) di fallacciano[2]?

  Alcuni linguisti riconducono la voce abruzzese, che presenta altre varianti come fëllàccë, fëllàcchië (più vicine al termine greco citato), al lat. fic-u(m) ’fico’ attraverso, credo, la forma dialettale latina ricostruita *fic(u)la-c(u)l-u(m), una sorta di doppio diminutivo di fic-u(m) ‘fico’, con assimilazione regressiva della prima /c/ alla /l/ successiva dopo la caduta, nella pronuncia,  della /u/ intermedia (sincope), dando così come esito filla-. La seconda /c/ seguita da /l/ ha dato l’esito normale –cchjë   formando la voce fillà-cchje passata quindi a fëlla-cchjë, con trasformazione nella  vocale indistinta /ë/ della /i/ nella sillaba iniziale non accentata.

   A parte tutto ciò, resta anche il fatto notevole che nel dialetto dorico, come i cultori di greco sanno, ad ogni eta impuro (da me reso graficamente con –ē-) corrisponde un’alfa, che ha il suono aperto della /a/ italiana.  Quindi il termine attico-ionico phlēk-s ‘fico acerbo’ sopra citato, in dorico avrebbe dovuto presentare la forma *phálak-s che richiama, nella pronuncia, la voce suddetta fallacc-iano di Bellegra-Rm. Ma il bello è che essa richiama anche l’abr. palazzë , del titolo di questo articolo, riferito a ‘varietà di fico grosso’.  In effetti la pronuncia di /ph/ in greco  era quella di una semplice /p/ seguita da un leggero soffio di aspirazione, tanto che nei primi tempi di trascrizione in latino arcaico, esso veniva reso anche col semplice /p/, che è un’occlusiva labiale, non una fricativa sorda /f/ come oggi noi la pronunciamo. Quindi, a mio parere, l’abr. palazzë e l’abr. fëllacc-iànë (che all’origine dovevano indicare nient’altro che il concetto di “fico”) attestano le due oscillazioni di pronuncia esistenti ab antico di una base originaria corrispondente al dorico *phálak-s.

   La pronuncia della parte finale di palazzë deve derivare da una forma  originaria *phalàk-jë (evolutasi da dorico phálak-s) con pronuncia prima gutturale, poi palatale e, successivamente, affricata (ts)  dando come esito appunto palazzë. Il passaggio da palatale –ccë ad affricata sorda –zzë è attestato in diverse voci abruzzesi come zichë da cichë ‘piccolo, poco’[3]; abr. zizëlà ‘cigolare’ da abr. cëcëlà ‘cinguettare’ (arcaico chëchëlà ‘cinguettare’), ad Aielli-Aq. ed altrove.  Alcuni fanno derivare il nome fëllaccianë suddetto e varianti dal personale Felicianus ‘Feliciano’ e arrivano anche a metterlo in connessione col nome del Santo.  A parte il San Feliciano patrono di Foligno si incontrano anche i santi Primo e Feliciano, martirizzati nel IV sec. d. C. che, data la loro incertissima esistenza reale, potrebbero avere a che fare con questi frutti “prim-aticci” o “primizie”, nel senso che il nome di Feliciano potrebbe essere stato quello di una divinità della natura e della fecondità in tempi preistorici.

   Porto a conoscenza di chi non lo sapesse  che in Grecia, nelle feste di Dioniso (Bacco) chiamate Falloforie, gruppi di vergini portavano in processione enormi “falli” di legno di  fico, simboli del dio Priàpo, il quale adornava spesso orti e giardini anche a Roma, rappresentato appunto con quel simbolo di legno di fico. Perché il legno di fico? Come sempre accade in questi casi, il motivo è da cercare nel semplice incrocio di termini simili: la prima parte del dorico *phál-ak-s è quasi uguale al gr. phall-ós ‘fallo’, simbolo della forza generatrice.  In qualche dialetto e in periodi precedenti a quello classico quel termine doveva significare direttamente ‘fico’. Del resto  la radice delle due parole greche  era la stessa, e cioè BHEL ‘essere turgido, rigonfio, rotondeggiante’, significato adatto sia per l’organo sessuale maschile, sia per ogni frutto, in specie quello del fico in genere e del tipo fëllacciànë in particolare.  Nella radice è incluso anche il significato di ‘rigonfio, grosso’ che spesso accompagna la definizione di questo tipo di fico. Gli incroci sono molto importanti perché possono spiegare fatti particolari altrimenti poco comprensibili.  Un altro significato di fëllacciànë ‘fico primaticcio di colore nero con riflessi azzurrognoli’[4]: come mai spunta questo colore nero? Io non credo affatto che queste precisazioni siano casuali. Ci deve essere una qualche giustificazione.  Secondo me difficilmente il termine deriva direttamente da quello del dialetto dorico: esso potrebbe essere arrivato dalle nostre parti anche prima che esso approdasse in Grecia e potrebbe essersi incrociato con una radice per ‘nero’ come quella che ritroviamo nell’ingl. black ‘nero’ che, secondo i linguisti, è quella del lat. flag-r-are ‘ardere, bruciare’ in quanto il nero è il colore di qualcosa bruciato.  La radice sarebbe BHLEG ‘brillare’ molto simile nella forma esteriore a quella di gr.  phlēk-s ‘fico acerbo’.

   Quante cose ci raccontano le parole, in specie alcune, su epoche lontanissime dell’uomo, se sappiamo prenderle per il verso giusto e interrogarle senza presunzione! Altrimenti si chiudono a riccio e diventano mute come pietre. Sono giustamente gelose, soprattutto verso i saccenti insopportabili, dei loro autentici tesori.
     

  




[1] Cfr. Cortellazzo-Marcato, I Dialetti Italiani, UTET Torino, 1998, sub voce.

[2] Voce che indica il ‘fico’ che matura dopo la metà di luglio.  A fine luglio a Bellegra-Rm se ne celebra infatti la sagra.

[3] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla edit., Cerchio-Aq. 2004.


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