Forse solo a qualche persona
anziana come me succede che, quando deve
nominare la buccia del chicco d’uva, la prima parola che affiora nella sua
mente, ma che deve ricacciare subito dentro per non suscitare ilarità e
incomprensione nei giovani del paese o in chi, venendo da fuori, è abituato ad
usare l’italiano, è quella di scrë-ffùjjë. Non mi vergogno di dire
che la mia lingua madre è il dialetto di Aielli-Aq, ed è quindi esso che
prepotentemente si fa avanti per primo tutte le volte che può, quando meno vigile
è il controllo esercitato su di esso dalla umana tendenza ad apparire
scimmiescamente come gli altri e da tanti anni di insegnamento nelle scuole
secondarie in cui bisognava pur parlare in italiano sia pure con inflessioni
dialettali.
Nel Vocabolario
abruzzese di Domenico Bielli la parola suddetta non compare ma ne sono
riportate altre in parte simili, come scrë-ccùjjë, scrë-ccójjë ‘fiocine, sottile buccia che copre il chicco d’uva’. Caratteristico è l’uso del Bielli di parole arcaiche
anch’esse nella spiegazione delle voci dialettali. Come si può notare, la prima
componente delle tre parole è sempre la stessa, mentre la seconda cambia. Fidandomi del fatto che spessissimo le parole
indicano direttamente le cose per quello che sono, ho cercato radici che
potessero rispondere al concetto di “pelle, buccia” e simili. Mi è subito venuto in mente il lat. scr-ot-u(m) ‘scroto’, la pelle che, a mo’ di
sacco, avvolge i testicoli. La radice è
presente anche nel lituano skurà
’pelle, cuoio’, ant. slavo skora
‘pelle, cuoio’. La seconda componente –fùjjë della voce aiellese (con la
normale palatalizzazione della doppia /l/ che diventa /jj/) corrisponde,
secondo me, al lat. foll-e(m) ‘mantice,
borsa, cuscino’, mentre le seconde componenti delle voci riportate dal Bielli,
varianti di una stessa radice, corrispondono al lat. culle-u(m), sempre con la /l/ palatalizzata, e al gr. kole-ós ‘fodero, vagina, guaina’. Cfr. anche
l’it. arc. coglia ’scroto’.
Come
è bello ritrovare la seconda componente -fujjë della voce
aiellese suddetta nel sardo nuorese fodd-òne 'buccia
dell'acino', nel sardo logudorese fodde 'buccia
dell'acino', e nel sardo campidanese foddi 'buccia
dell'acino'! La forma aiellese è molto più vicina a quelle sarde che
al lat. foll-e(m) 'mantice,
borsa' per via del significato che è una specializzazione di quello
della parola latina. In sardo la doppia /l/ latina si trasforma in doppia
dentale cacuminale /d/. E' quindi molto improbabile che le voci sarde e
quella di Aielli siano derivate autonomamente dalla forma latina dopo che
questa arrivò in epoca storica nei rispettivi dialetti, ma è molto più
credibile che esse si siano specializzate ad indicare la buccia dell’acino, sempre
da un termine ad esse sovraordinato simile a quello latino, ma chissà quando e
chissà dove prima che il latino giungesse storicamente nei rispettivi
territori. Certamente il latino non sarà nato e cresciuto nell'ambito ristretto
del Lazio dove lo troviamo storicamente, e pertanto diverse parole sparse nei
dialetti italiani saranno da considerare antecedenti all'arrivo in loco del
latino storico. Ma è senz'altro difficile riconoscerle.
Per
rendersi conto che è questa idea di “pelle, buccia“ o, meglio, “avvolgimento,
rivestimento” che sta sotto a queste parole si pensi alle voci, sempre tratte
dal Bielli, concujjë ‘fiocine
dell’uva’, o conculla ‘mallo della
noce o mandorla’ la quale da noi ad Aielli suona cungùjjë ‘mallo della noce o mandorla’. Va da sé che questa voce
rimonta al lat. conchyli-u(m)
‘conchiglia’ (ampliamento di gr. kónkhē, lat. concha ‘conchiglia’) o
direttamente alla rispettiva forma greca.
Abbiamo visto, infatti, in altri articoli che il greco dalle nostre
parti esisteva prima che arrivasse il latino.
Vorrei, però, che si facesse molta attenzione a questo: all’inizio della
lunghissima storia delle parole, i significati, come si può vedere in questo
caso, non erano per nulla specializzati e determinati. Non è successo, insomma,
che fosse esistito prima il significato di ‘conchiglia’ e poi da esso fosse derivato
quello di ‘mallo’: all’origine potrebbe essere stato addirittura il contrario,
e quindi più sopra non mi sono ben espresso quando ho fatto rimontare al greco
queste voci: scientificamente dovevo dire solo che in greco esistono voci
simili con un significato paragonabile, ma non uguale, a quello che appare nei
nostri dialetti, cosa che fa presumere una loro parentela, ma che non è la
prova di una primogenitura delle forme greche. Queste forme dialettali, data la
notevole differenza di significato rispetto alle corrispondenti greche,
potrebbero, insomma, essere arrivate qui non per il tramite del greco antico ma
attraverso filoni linguistici non meglio identificati che potevano essere anche
anteriori a quelli che interessarono la Grecia.
Ciò che
comunque ci interessa molto è renderci conto che i vari significati delle
parole ne hanno sempre un altro più generico sovraordinato rispetto a quello
che storicamente si fissa, per una data parola, in questa o quella lingua.
Questo comportamento, infatti, ci induce a sostenere che il significato
d’origine di una radice era talmente generico da dover corrispondere a quello
delle altre radici, come abbiamo detto in altri articoli, e che quindi i
milioni di termini costituenti tutte le lingue dell’uomo, vive o morte che
siano, derivano sempre da un unico concetto generalissimo che potrebbe
corrispondere a quello di “anima”.
Il Bielli
riporta anche un’altra voce per ‘buccia d’uva’ e cioè scur-piccë di
cui, però, non sono stato capace di interpretare il secondo membro –piccë.
Mi sembra vagamente simile all’it. buccia,
termine anch’esso molto problematico per l’etimologia. Un altro insegnamento,
non di poco conto, deriva da questa serie di termini dialettali riguardanti la buccia d’uva: il fenomeno della
ripetizione tautologica dei membri in cui può essere divisa una parola vi
spicca in una maniera incontestabile che impedisce di metterlo in dubbio.
Nel diminutivo lat. folli-cul-u(m) compare chiaramente anche il
significato di ‘scorza, buccia,
involucro’ oltre a quello di ‘sacco, sacchetto’ e anche, pensate un po’, quello
di ‘scroto’, ma mi pare che non sia stato mai
usato in riferimento specifico alla buccia dell’acino. Io sostengo che la forma diminutiva, prima
che diventasse tale, costituiva soltanto una tautologia in cui il secondo
membro –cul-u(m) ripeteva lo
stesso significato del primo, e cioè ‘involucro’, come suggerisce il
sopracitato gr. kole-ós ‘fodero,
vagina’ e il lt. culle-u(m) ‘sacco’. A
mio avviso anche il gr. phōle-ós ‘covo, buco, caverna’ , gr. phol-ís, -ídos ‘squama (di animale), scaglia’, gr. phell-ós ‘sughero’ sono tutti imparentati col lat. foll-e(m) ‘sacco, borsa’ di cui sopra.
Un’altra voce dialettale che rafforza e chiarisce quanto asserivo sui
diversi filoni di diffusione delle parole che possono interessare le lingue è concòl [1],
voce del dialetto veneto-friulano (con varianti in dialetti emiliani e
marchigiani) col significato di ‘porca, rialzo di terra tra i solchi
dell’aratro’, considerata un ampliamento del lat. concha ’conchiglia’, questo sì calco sul gr. kónkhē ‘conchiglia’. Per me
si tratta invece sempre di una forma corrispondente al nostrano cungùjjë ma con un significato talmente
diverso sia da quest’ultima che da quella greco-latina da far presuppore un
filone di diffusione diverso, appunto, dagli altri due, anche se il suo
significato di ‘convessità’, nella forma di un ‘rialzo tra solco e solco’, era
contenuto già nel genericissimo significato d’origine, o prossimo all’origine,
di concavità (si pensi alla
conchiglia) la quale è l’altra faccia della convessità. L'attuale distanza di significato,però, tra 1)'rialzo del terreno tra solco e solco', altrimenti chiamato 'porca', e 2)'conchiglia' è talmente grande in apparenza che risulta quasi impossibile arrivare a concepire una loro interdipendenza, la quale invece si fa chiara non appena li si metta tra loro in rapporto sotto il segno della "convessità".
Last but not least sempre nel vocabolario del Bielli la voce
abruzzese concujje indica, come ho detto più sopra, il 'fiocine dell'uva'.
Anche questo valore conferma la enorme elasticità originaria dei significati:
infatti non si può per nulla pensare che il significato specializzato di
'conchiglia' abbia potuto generare direttamente questo di 'buccia d'uva'! La
questione sta diversamente: sia il concetto di "conchiglia" sia
quello di "buccia" sono emanazioni tardive di un concetto precedente
e sovraordinato di 'avvolgimento, copertura, rivestimento, ecc.'. Il gioco,
poi, tra l’idea di “concavità” e quella di “convessità” si può riscontrare chiaramente
osservando l’it. conca ‘recipiente per attingere e conservare acqua’ e la voce
sarda corradicale conca ‘capo, testa’. E non bisogna pensare che la motivazione di
quest’ultima debba essere la durezza
delle ossa della testa corrispondente a quella di una conchiglia: abbiamo visto
infatti che la sottile ‘buccia d’uva’, indicata con quella radice, ne faceva benissimo
a meno. E’ sempre il concetto di
“convessità, avvolgimento, rotondità” che fa sentire la sua forza agendo nascostamente
dal profondo.
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