domenica 16 dicembre 2018

Gli inganni tessuti dalle parole stesse, a cui purtroppo tutti abboccano.



Nella lingua sarda, non ricordo in quale dialetto, la voce imbalzu presenta il valore di ‘companatico’ ma anche quello di ‘impasto’. Sardo imbaltzare significa ‘ammaltare, impastare la malta’ oltre che ‘mangiare (insieme al pane) come companatico’: cfr. l’espressione sarda imbalzare su pane cun buttiru ‘mangiare il pane con burro’. A prima vista i due concetti non sembrano correlati vicendevolmente, ma basta leggere l’interessante  articolo del mio blog Il flauto di Pan (10.2.15) in cui si mostra che il significato di fondo della radice pan è ‘stare insieme con’, e ‘miscuglio, impasto’, radice che ritorna nell’it. companatico, per cominciare a pensare che anche in questo caso la radice balt/palt doveva avere lo stesso significato di ‘stare insieme, unito’. In quell’articolo facevo notare come l’it. companatico si dovesse intendere non come derivato dall’espressione lat. cum pane ‘col pane’, come tutti intendono, ma come ‘(qualcosa che si mangia) insieme con altro’. In sardo esiste anche im-pan-igu ‘companatico’.

    Ora, l’aggettivo emiliano imbalzà, uguale formalmente alla suddetta voce sarda, ha il significato di ‘impastoiato’ (detto di cavallo) e di ‘impacciato, intrigato, incapace’ (detto di persona).  L’aggettivo è fatto derivare da balza, nel significato di ‘pastoia’[1].  C’è dietro il lat. balte-u(m) ‘cintura, bandoliera, striscia’. Nel nostro dialetto di Aielli ed in altri ricorreva, ai bei dì andati, la voce vàvëzë ‘legaccio per covoni’ ricavato da un mazzetto di steli di grano. Una pecora o una capra ammàvëzata (da avvavëzata) indicava uno di questi animali rimasti bloccati in qualche cengia o spuntone di roccia, dove era stato abbastanza facile scendere ma difficile o impossibile risalirne, sicchè l’animale era come impedito, appunto, e incapace di trarsi d’impaccio da solo.  Taluni ravvisano una radice mediterranea *palt ’fango’ alla base dell’it. pantano, ma io penso che essa non sia tale, ma sia la stessa di sardo imbalzu ‘impasto, ecc.’ e di aiellese vavëzë ‘legaccio per covoni’; il fango, infatti, non è che un’altra forma di ‘impasto’.  Dietro i significati diversi della superficie di questi termini si ritrova sempre quello più profondo e generico di ‘ connessione, unione, ecc.’ 

   Ora, forte di queste considerazioni, mi è sembrata strana l’etimologia che tutti danno di it. pastoia, un legaccio per le zampe degli animali, fatto derivare da lat. past-u(m)’pascolo’, lat. past-ori-u(m) ‘pastorale’.  Esiste infatti il toscano pastoia ‘miscuglio di acqua e farina o crusca’ per alimento di pulcini, uccelletti, ecc. che convalida il ragionamento fatto precedentemente da me che mette in stretta relazione il concetto di “miscela, miscuglio” con quello di “legame, legaccio”.   Non è in effetti razionale, se ben si riflette, derivare la pastoia=legaccio dall’idea di “pascolo” che è tutt’altro rispetto a quella di “legaccio” ma è invece molto razionale, come abbiamo visto, rapportare l’idea di “miscuglio” a quella di ‘legaccio’.  La radice di pastoia= miscela rispunta ancora, secondo me, nell’it. pastr-occhio ’intruglio, pasticcio’.  Nel dialetto lucano di Gallicchio-Pt il sm. pastùrë vale anche ‘panzerotto salato con ripieno di salsiccia, soppressata, uovo sodo e toma, tipico del periodo pasquale’[2], una bella mistura di ingredienti, insomma!
 
  In dialetti abruzzesi si trovano le varie voci pasë, pàs-ulë, pas-òlë[3] col  significato di ‘laccio, cappio’ da collegare, credo, col serbo-croato pas ‘cintura, cinghia’ e con l’it. pass-ante, così chiamato evidentemente non perché attraverso di esso passa la cinghia, come tutti chiosano, ma perché, ancora una volta, la radice si prestava ad indicare sia il ‘cappio’, e quindi il passante (che è una specie di piccolo cappio) attraverso cui passa la cinghia, sia la cinghia stessa.  Nel dialetto di Trasacco-Aq.  la pastora[4] significa, oltre che ‘pastoia’, anche ‘cinghia di cuoio per calzoni’ e ‘striscia di cuoio usata dai barbieri per affilare il rasoio’, significati che nulla hanno a che fare col pascolo. Sempre nel dialetto di Gallicchio sopra citato la voce pašë (anche pascë) significa ‘giogaia’, la pelle pendula nel collo dei bovini che assomiglia a una striscia, una benda, un panno, appunto.  La radice, in un significato alquanto diverso in superficie, ricompare, sempre in questo dialetto, nel verbo m-baš ( anche m-basci) ‘aggiogare’, che è fondamentalmente un congiungere, un legare. La labiale sonora /-b-/ è dovuta all’assimilazione della labiale sorda originaria alla nasale sonora /m/,  a sua volta proveniente dalla nasale /n/.

   Un'altra interessante voce, sempre nel dialetto di Trasacco-Aq, è il verbo pastëra’ (variante: pastora’) che, secondo la definizione che ne dà il Lucarelli, vale “guidare e sorvegliare il gregge al pascolo, al fine di impedire che sbandi ed invada gli eventuali seminati che costeggiano il tratturo o la strada di campagna o l’area in cui sta pascolando”.   Ora, secondo me, la spiegazione  sarebbe       perfetta, anche dal punto di vista etimologico, se non vi fosse l’accenno al pascolo. Infatti il verbo viene riferito anche al “cane che bracca una selvaggina, onde scovarla, seguendone le tracce […]”, indicando fondamentalmente l’azione di stare addosso, attaccato, appiccicato a qualcosa, in questo caso alla selvaggina, che viene inseguita e braccata, quasi allo stesso modo del pastore che sta addosso al suo gregge, lo segue e sorveglia, senza che il verbo faccia necessariamente riferimento al pascolo. Allora ne consegue che anche l’it. pastore non può essere inteso come nome d’agente di lat. pasc-ere ‘pascolare’ e cioè come se esso significasse ‘colui che pascola (il gregge)’, mentre è, più propriamente, ‘colui che segue, sorveglia, bada (al gregge)’, è insomma una sorta di  attaché al gregge.  L’idea di base della parola in effetti è quella di “essere legato” come l’animale impastoiato.  Naturalmente fra i compiti del pastore c’è anche quello di pascolare le pecore il quale, data la genericità estrema del significato originario e la mutevolezza dell’assetto e del contesto linguistico in cui di volta in volta una parola viene a trovarsi attraverso i molti millenni della sua esistenza, può anche risultare l’unico accettabile in una determinata lingua, in un determinato periodo.

    L’idea del “mescolare, imbrattarsi (di letame di fango, ecc.)”, rispunta bellamente nel verbo mpasturà (o riflessivo ‘mbasturàsse) del dialetto[5] di Avezzano-Aq. Anche qui naturalmente gli autori non possono fare a meno di ricondurre la voce al povero pastore che solitamente, come il contadino del resto, non poteva mantenersi pulito al lavoro.  Questo è un peccato veniale per loro, visto che gli stessi tipi di errori li commettono anche grandi linguisti.

     Anche il verbo tedesco pass-en ‘adattare, adattarsi, combaciare, combinare’ deve derivare da questa radice che indica lo stare unito, insieme, ecc. come anche il ted. Pasch ‘pariglia (nel gioco dei dadi)’. L’it. com-passo  messo solitamente in rapporto con un supposto latino parlato *com-pass-are ‘misurare a passi’ a mio parere deve almeno essere entrato in contatto con la stessa radice di cui sopra, se si pensa che lo strumento è composto di due aste incernierate tra loro, che costituiscono quindi una combinazione, un collegamento, uno strumento, un congegno.  Del resto il verbo ingl. compass significa anche ‘complottare, tramare’, in linea col significato di ‘intreccio’ e simili della radice.

   Nel dialetto[6] di Rocca di Botte-Aq esiste una strana voce che suona paste-natùru dal significato di ‘terreno umido impregnato d’acqua’. Essa non può avere a che fare con l’omonimo abruzzese[7] paštënatùrë ‘scasso di terreno da piantare a vigna’, dal lat. pastin-u(m) ‘zappatura, scasso’, ma credo sia un termine composto di due membri tautologici col significato più o meno di ‘terreno umido, poltiglia’ di cui il primo fa capo, a mio avviso, alla radice di pasta più sopra analizzata e l’altro ad una voce simile a quella di gr. nátōr, oros ‘che scorre’ riferito all’acqua.  Non c’entra nulla nemmeno l’altro termine dialettale pastënatùrë ‘attrezzo di legno o ferro appuntito, per praticare buche nel terreno dove piantare una nuova vigna’.  In alcuni altri articoli ho avuto modo di far notare come siano piuttosto abbondanti dalle nostre parti le parole riconducibili al greco, molto probabilmente diffuso prima di quello magnogreco.

   In serbo-croato pas significa anche ‘cane’, termine che puntualmente rispunta a mio parere nell’ espressione esclamativa passa via! che nei nostri paesi della Marsica viene rivolta solitamente al cane perché si allontani. Esiste anche la variante paschë a llόchë[8] ‘passa via!’, letteralmente ‘passa là!’.  C’è da pensare che il verbo si sia incrociato con l’imperativo báske  vaidi gr. básk-ein ’andare’.  Si può giustamente asserire che nulla avviene nella lingua senza un motivo.

   Il legame, in genere una fune, al piede di un animale serviva ad impedire che esso si allontanasse dal terreno dove era stato messo a pascolare, ed andasse magari a fare danni alle coltivazioni vicine, in genere più gustose e attraenti per gli animali.  Dico questo per far capire meglio le cose, a chi non conosce bene il mestiere antico del contadino.

   Colpo di scena!  Riflettendoci sopra, ho notato che in serbo-croato il verbo pas-ti ‘pascolare, pascere’ e il verbo pasa-ti ‘cingere’ non sono formalmente molto diversi tra loro che richiamano l’uno il sostantivo paša ‘pascolo, pastura’ e l’altro il sostantivo pas ‘cintura, cinghia’. Ora, specie se si tiene presente l’espressione sarda sopra citata imbalzare su pane cun buttiru ‘mangiare il pane con burro’ dove imbalzare vale propriamente ‘impastare’, si può dedurre che anche il pascere è un “cibarsi” e un “mangiare”, azione che assomiglia molto a quella di  “impastare”, dato che il bolo alimentare, ad esempio, risultato dalla masticazione, può essere inteso come un perfetto ‘impasto’ di cibo triturato e mescolato alla saliva. D’altronde anche il lat. past-u(m), proveniente dai verbi pasc-ere ’pascolare, nutrire, mangiare’ e deponente pasc-i ‘nutrirsi, mangiare’, aveva il significato di ‘pasto, cibo’ sia in riferimento agli animali che agli uomini.  Una cosa interessante è che in greco si incontra l’aggettivo verbale past-όs che ha vari significati riconducibili, a mio avviso, a quello di fondo di ‘mischiare, unire, impastare’.  Esso infatti significa ‘cosparso (di sale)’, al plurale neutro pastá ‘sorta di farinata’ cioè ‘farina impastata con acqua’ con cui deve essere apparentato il gr. pastḗ ‘pasta’ che io non trovo nei miei vocabolari e che avrebbe dato origine al tardo lat. past-a(m) ‘pasta’.  L’aggettivo significa anche ‘ricamato, intessuto’, concetto  che secondo me si riallaccia al significato di ‘intrecciare, mischiare, ecc.’. L’aggettivo, sostantivato,  ha il valore di ‘cortina ricamata’ o ‘velo’: si tratta sempre di un tessuto o panno C’è un altro termine greco per ‘impasto, pasta, massa d’argilla’ che suona phẏr-ama e che deriva dal verbo phẏrá-ein ‘intridere, impastare, mescolare’.  Il lat. mass-a(m) valeva anche ‘impasto, pasta’[9] o ‘gran quantità, mucchio, ecc.’, il quale ha poi finito col prevalere in italiano. Ma ricordo che quando ero ragazzo, e mia madre portava a cuocere il pane in un forno vicino casa, la fornaia verso le 3 o 4 del mattino l’avvisava dalla strada ad alta voce di cominciare ad ammassare , cioè di preparare l’impasto nella madia, appunto, per poi suddividerlo in una decina di pagnotte, che qualche ora dopo venivano trasportate al forno su una tavola dal fornaio stesso. E così mi viene proprio da dire che nella lingua tutto si tiene, nulla in genere va perduto ma continuamente riciclato.

   I linguisti si lasciano ingannare perché sono anch’essi vittime soprattutto di un pregiudizio, quello di credere che ogni radice sia nata con significati e motivazioni diversi tra loro e non per indicare l’unico concetto genericissimo (quello di anima, vita, forza. ecc.) che l’uomo, passato attraverso il periodo preistorico dell’animismo, riuscì a concepire e che piegò successivamente e lentamente ad indicare la varia realtà fisica e psichica che andava scoprendo con l’aiuto soprattutto dell’incrocio delle parole.  Il fenomeno è di notevole importanza perché a mio avviso esso coinvolge non solo una lingua, ma tutte.  Per questo esso andrebbe studiato meglio da parte degli addetti ai lavori.



[1] Cfr.  Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino, 1998.

[3] Cfr. D.Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq  2004.

[4] Cfr. Q. Lucarelli, “Biabbà”, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq  2003.

[5] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese , (senza indicazione dell’ editore), Avezzano 2002.

[6] Cfr. M. Marzolini, “…me ‘nténni?”, Arti grafiche Tofani, Alatri-Fr. 1995.

[7] Cfr. D. Bielli, cit.

[8] Cfr. Bielli, cit.

[9] Cfr. spagn. masa ‘impasto’ e greco maza  ‘focaccia, pane, pasta, impasto, massa ’.




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