Nella lingua sarda, non ricordo in
quale dialetto, la voce imbalzu presenta
il valore di ‘companatico’ ma anche quello di ‘impasto’. Sardo imbaltzare significa ‘ammaltare,
impastare la malta’ oltre che ‘mangiare (insieme al pane) come companatico’:
cfr. l’espressione sarda imbalzare su pane cun buttiru ‘mangiare il pane con burro’. A prima vista i
due concetti non sembrano correlati vicendevolmente, ma basta leggere l’interessante
articolo del mio blog Il flauto di Pan (10.2.15) in cui si
mostra che il significato di fondo della radice pan è ‘stare insieme
con’, e ‘miscuglio, impasto’, radice che ritorna nell’it. companatico, per cominciare a pensare che anche in questo caso la
radice balt/palt doveva avere lo stesso significato di ‘stare insieme,
unito’. In quell’articolo facevo notare come l’it. companatico si dovesse intendere non come derivato dall’espressione
lat. cum pane ‘col pane’, come tutti
intendono, ma come ‘(qualcosa che si mangia) insieme con altro’. In sardo
esiste anche im-pan-igu ‘companatico’.
Ora, l’aggettivo emiliano imbalzà,
uguale formalmente alla suddetta voce sarda, ha il significato di ‘impastoiato’
(detto di cavallo) e di ‘impacciato,
intrigato, incapace’ (detto di persona).
L’aggettivo è fatto derivare da balza,
nel significato di ‘pastoia’[1]. C’è dietro il lat. balte-u(m) ‘cintura, bandoliera, striscia’. Nel nostro dialetto di
Aielli ed in altri ricorreva, ai bei dì andati, la voce vàvëzë ‘legaccio per covoni’ ricavato da un
mazzetto di steli di grano. Una pecora o una capra ammàvëzata (da avvavëzata) indicava uno di questi
animali rimasti bloccati in qualche cengia o spuntone di roccia, dove era stato
abbastanza facile scendere ma difficile o impossibile risalirne, sicchè
l’animale era come impedito, appunto,
e incapace di trarsi d’impaccio da solo.
Taluni ravvisano una radice mediterranea *palt ’fango’ alla
base dell’it. pantano, ma io penso
che essa non sia tale, ma sia la stessa di sardo imbalzu ‘impasto, ecc.’ e di aiellese vavëzë ‘legaccio per covoni’; il fango, infatti, non è che un’altra
forma di ‘impasto’. Dietro i significati
diversi della superficie di questi termini si ritrova sempre quello più
profondo e generico di ‘ connessione, unione, ecc.’
Ora,
forte di queste considerazioni, mi è sembrata strana l’etimologia che tutti
danno di it. pastoia, un legaccio per
le zampe degli animali, fatto derivare da lat. past-u(m)’pascolo’, lat. past-ori-u(m) ‘pastorale’. Esiste
infatti il toscano pastoia ‘miscuglio
di acqua e farina o crusca’ per alimento di pulcini, uccelletti, ecc. che
convalida il ragionamento fatto precedentemente da me che mette in stretta
relazione il concetto di “miscela, miscuglio” con quello di “legame,
legaccio”. Non è in effetti razionale, se ben si riflette, derivare
la pastoia=legaccio dall’idea di
“pascolo” che è tutt’altro rispetto a quella di “legaccio” ma è invece molto razionale, come abbiamo visto,
rapportare l’idea di “miscuglio” a quella di ‘legaccio’. La radice di pastoia= miscela rispunta ancora, secondo me, nell’it. pastr-occhio ’intruglio, pasticcio’. Nel dialetto lucano di Gallicchio-Pt il sm. pastùrë vale anche ‘panzerotto salato con
ripieno di salsiccia, soppressata, uovo sodo e toma, tipico del periodo
pasquale’[2],
una bella mistura di ingredienti, insomma!
In dialetti abruzzesi si trovano le
varie voci pasë, pàs-ulë, pas-òlë[3] col significato di ‘laccio, cappio’ da collegare,
credo, col serbo-croato pas ‘cintura, cinghia’ e con l’it. pass-ante, così chiamato evidentemente non
perché attraverso di esso passa la
cinghia, come tutti chiosano, ma perché, ancora una volta, la radice si prestava
ad indicare sia il ‘cappio’, e quindi il passante
(che è una specie di piccolo cappio) attraverso
cui passa la cinghia, sia la cinghia stessa. Nel dialetto di Trasacco-Aq. la pastora[4]
significa, oltre che ‘pastoia’, anche ‘cinghia di cuoio per calzoni’ e
‘striscia di cuoio usata dai barbieri per affilare il rasoio’, significati che
nulla hanno a che fare col pascolo. Sempre
nel dialetto di Gallicchio sopra citato la voce pašë (anche pascë) significa ‘giogaia’, la pelle
pendula nel collo dei bovini che assomiglia a una striscia, una benda, un
panno, appunto. La radice, in un
significato alquanto diverso in superficie, ricompare, sempre in questo
dialetto, nel verbo m-baš-à ( anche m-basci-à) ‘aggiogare’,
che è fondamentalmente un congiungere,
un legare. La labiale sonora /-b-/
è dovuta all’assimilazione della labiale sorda originaria alla nasale sonora /m/,
a sua volta proveniente dalla nasale /n/.
Un'altra interessante voce, sempre nel dialetto di Trasacco-Aq, è il
verbo pastëra’ (variante: pastora’) che, secondo la
definizione che ne dà il Lucarelli, vale “guidare e sorvegliare il gregge al
pascolo, al fine di impedire che sbandi ed invada gli eventuali seminati che
costeggiano il tratturo o la strada di campagna o l’area in cui sta
pascolando”. Ora, secondo me, la
spiegazione sarebbe
perfetta, anche dal punto di vista etimologico, se non vi fosse
l’accenno al pascolo. Infatti il verbo viene riferito anche al “cane che bracca
una selvaggina, onde scovarla, seguendone le tracce […]”, indicando fondamentalmente
l’azione di stare addosso, attaccato,
appiccicato a qualcosa, in questo caso alla selvaggina, che viene inseguita e braccata,
quasi allo stesso modo del
pastore che sta addosso al suo gregge, lo segue e sorveglia, senza che il verbo
faccia necessariamente riferimento al
pascolo. Allora ne consegue che anche l’it. pastore non può essere
inteso come nome d’agente di lat. pasc-ere
‘pascolare’ e cioè come se esso significasse ‘colui che pascola (il gregge)’,
mentre è, più propriamente, ‘colui che segue, sorveglia, bada (al gregge)’, è
insomma una sorta di attaché
al gregge. L’idea di base della parola
in effetti è quella di “essere legato” come l’animale impastoiato. Naturalmente
fra i compiti del pastore c’è anche quello di pascolare le pecore il quale, data la genericità estrema del
significato originario e la mutevolezza dell’assetto e del contesto linguistico
in cui di volta in volta una parola viene a trovarsi attraverso i molti millenni
della sua esistenza, può anche risultare l’unico accettabile in una determinata
lingua, in un determinato periodo.
L’idea del “mescolare, imbrattarsi (di letame di fango, ecc.)”, rispunta
bellamente nel verbo ‘mpasturà (o riflessivo ‘mbasturàsse) del dialetto[5]
di Avezzano-Aq. Anche qui naturalmente gli autori non possono fare a meno di
ricondurre la voce al povero pastore che solitamente, come il contadino del
resto, non poteva mantenersi pulito al lavoro.
Questo è un peccato veniale per loro, visto che gli stessi tipi di errori
li commettono anche grandi linguisti.
Anche il verbo tedesco pass-en ‘adattare, adattarsi, combaciare, combinare’ deve derivare da
questa radice che indica lo stare unito, insieme, ecc. come anche il ted. Pasch
‘pariglia (nel gioco dei dadi)’. L’it. com-passo messo solitamente in rapporto con un supposto
latino parlato *com-pass-are ‘misurare a passi’ a mio parere deve almeno essere
entrato in contatto con la stessa radice di cui sopra, se si pensa che lo
strumento è composto di due aste incernierate tra loro, che costituiscono
quindi una combinazione, un collegamento, uno strumento, un congegno. Del resto il verbo ingl. compass significa anche
‘complottare, tramare’, in linea col significato di ‘intreccio’ e simili della
radice.
Nel
dialetto[6]
di Rocca di Botte-Aq esiste una strana voce che suona paste-natùru dal
significato di ‘terreno umido impregnato d’acqua’. Essa non può avere a che
fare con l’omonimo abruzzese[7]
paštënatùrë
‘scasso di terreno da piantare a vigna’, dal lat. pastin-u(m) ‘zappatura, scasso’, ma credo sia
un termine composto di due membri tautologici col significato più o meno di
‘terreno umido, poltiglia’ di cui il primo fa capo, a mio avviso, alla radice
di pasta più sopra analizzata e l’altro ad una
voce simile a quella di gr. nátōr, oros ‘che scorre’
riferito all’acqua. Non c’entra nulla
nemmeno l’altro termine dialettale pastënatùrë ‘attrezzo di legno o
ferro appuntito, per praticare buche nel terreno dove piantare una nuova
vigna’. In alcuni altri articoli ho
avuto modo di far notare come siano piuttosto abbondanti dalle nostre parti le
parole riconducibili al greco, molto probabilmente diffuso prima di quello
magnogreco.
In
serbo-croato pas significa anche ‘cane’, termine che puntualmente rispunta a
mio parere nell’ espressione esclamativa passa via! che nei nostri paesi della Marsica viene rivolta solitamente al
cane perché si allontani. Esiste
anche la variante paschë a llόchë[8]
‘passa via!’, letteralmente ‘passa là!’.
C’è da pensare che il verbo si sia incrociato con l’imperativo báske ‘vai’ di gr. básk-ein ’andare’. Si può giustamente asserire che nulla avviene
nella lingua senza un motivo.
Il
legame, in genere una fune, al piede di un animale serviva ad impedire che esso
si allontanasse dal terreno dove era stato messo a pascolare, ed andasse magari
a fare danni alle coltivazioni vicine, in genere più gustose e attraenti per
gli animali. Dico questo per far capire
meglio le cose, a chi non conosce bene il mestiere antico del contadino.
Colpo
di scena! Riflettendoci sopra, ho notato
che in serbo-croato il verbo pas-ti ‘pascolare, pascere’ e il verbo pasa-ti ‘cingere’ non sono formalmente molto diversi tra loro che
richiamano l’uno il sostantivo paša ‘pascolo, pastura’ e l’altro il
sostantivo pas ‘cintura, cinghia’. Ora, specie se si tiene presente
l’espressione sarda sopra citata imbalzare su pane cun buttiru ‘mangiare il pane con burro’ dove imbalzare
vale propriamente ‘impastare’, si può dedurre che anche il pascere è un “cibarsi” e un “mangiare”, azione che assomiglia
molto a quella di “impastare”, dato che
il bolo alimentare, ad esempio, risultato dalla masticazione, può essere inteso
come un perfetto ‘impasto’ di cibo triturato e mescolato alla saliva. D’altronde anche il lat. past-u(m), proveniente dai verbi pasc-ere ’pascolare, nutrire, mangiare’ e
deponente pasc-i ‘nutrirsi,
mangiare’, aveva il significato di ‘pasto, cibo’ sia in riferimento agli
animali che agli uomini. Una cosa
interessante è che in greco si incontra l’aggettivo verbale past-όs che ha vari significati
riconducibili, a mio avviso, a quello di fondo di ‘mischiare, unire,
impastare’. Esso infatti significa
‘cosparso (di sale)’, al plurale neutro tà
pastá ‘sorta di farinata’ cioè
‘farina impastata con acqua’ con cui deve essere apparentato il gr. pastḗ
‘pasta’ che io non trovo nei miei vocabolari e che avrebbe dato origine
al tardo lat. past-a(m)
‘pasta’. L’aggettivo significa anche
‘ricamato, intessuto’, concetto che
secondo me si riallaccia al significato di ‘intrecciare, mischiare, ecc.’.
L’aggettivo, sostantivato, ha il valore
di ‘cortina ricamata’ o ‘velo’: si tratta sempre di un tessuto o panno C’è un
altro termine greco per ‘impasto, pasta, massa d’argilla’ che suona phẏr-ama e che deriva dal verbo phẏrá-ein ‘intridere, impastare,
mescolare’. Il lat. mass-a(m) valeva anche ‘impasto, pasta’[9]
o ‘gran quantità, mucchio, ecc.’, il quale ha poi finito col prevalere in
italiano. Ma ricordo che quando ero ragazzo, e mia madre portava a cuocere il
pane in un forno vicino casa, la fornaia verso le 3 o 4 del mattino l’avvisava
dalla strada ad alta voce di cominciare ad ammassare , cioè di preparare l’impasto nella madia, appunto, per poi suddividerlo
in una decina di pagnotte, che
qualche ora dopo venivano trasportate al forno su una tavola dal fornaio
stesso. E così mi viene proprio da dire che nella lingua tutto si tiene, nulla
in genere va perduto ma continuamente riciclato.
I linguisti si lasciano ingannare perché sono
anch’essi vittime soprattutto di un pregiudizio, quello di credere che ogni
radice sia nata con significati e motivazioni diversi tra loro e non per
indicare l’unico concetto genericissimo (quello di anima, vita, forza. ecc.)
che l’uomo, passato attraverso il periodo preistorico dell’animismo, riuscì a
concepire e che piegò successivamente e lentamente ad indicare la varia realtà
fisica e psichica che andava scoprendo con l’aiuto soprattutto dell’incrocio
delle parole. Il fenomeno è di notevole
importanza perché a mio avviso esso coinvolge non solo una lingua, ma
tutte. Per questo esso andrebbe studiato
meglio da parte degli addetti ai lavori.
[1]
Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino, 1998.
[3] Cfr.
D.Bielli, Vocabolario abruzzese,
Adelmo Polla Editore, Cerchio-Aq 2004.
[4] Cfr. Q.
Lucarelli, “Biabbà”, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq 2003.
[5] Cfr.
Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto
avezzanese , (senza indicazione dell’ editore), Avezzano 2002.
[6] Cfr. M. Marzolini,
“…me ‘nténni?”, Arti grafiche Tofani,
Alatri-Fr. 1995.
[7] Cfr. D.
Bielli, cit.
[8] Cfr.
Bielli, cit.
[9] Cfr.
spagn. masa ‘impasto’ e greco maza ‘focaccia,
pane, pasta, impasto, massa ’.
Nessun commento:
Posta un commento