Se l’interpretazione di alcuni
fatti linguistici deve essere quella che
sto per mostrare, allora a mio parere è molto acconcia l’espressione in
epigrafe pronunciata spesso da Ginettone Bartali, uno dei ciclisti più in gamba che l’Italia abbia
mai avuto.
A fianco del lemma peparola
(marchigiano: Jesi) de I dialetti italiani[1]
leggo il significato di ‘asso di coppe’ di cui si riporta la spiegazione data
da Urieli[2], secondo
cui l’immagine impressa sulla carta può ricordare il ‘vasetto per conservare il
pepe’. E tutto sembra filare liscio.
Ora, però,l’immagine impressa sulla carta non è altro che una coppa, dovendo rappresentare il seme di coppe. Che l’immagine possa richiamare
una pepiera è anche possibile, se si
vuole, ma l’idea che essa fa nascere incontrovertibilmente nella mente di chi
l’osserva non è obbiettivamente tale, bensì un contenitore del tipo delle coppe, appunto. Allora si deve almeno supporre che la pepiera sia una suggestione che sta tutta nel termine regionale pepar-ola, il quale, nel suo significante, non
lascia scampo e induce a pensare che anche il suo significato d'origine faccia riferimento
ad una pepiera ma, di fatto, come
subito vedremo, potrebbe raccontarci tutt’altra storia che svela un significato
originario di ‘recipiente, cavità, coppa’.
Questa non è una teorica ed astratta supposizione generata dalla mia
tendenza al fantastico o dalla birichina voglia di imbrogliare le carte in
tavola giocate dai linguisti, ma mi pare che essa abbia dei riscontri concreti
e attendibili.
Tutto parte dal significato
generico di fondo della parola pepe < lat. piper-e(m) ‘pepe’< gr. péperi
‘pepe’, significato che, come abbiamo visto nel post precedente (Abruzzese cëtërόnë ‘cocomero’),
corrisponde al concetto generico di "granello, bacca, ecc." come nel
corrispondente nome dell’ant. indiano pippala ‘bacca’, il quale rimanda ad un
significato più generico di ‘rotondità,
cavità, contenitore, coppa’. La cosa è
a mio avviso pienamente confermata dalla voce abr. papar-òzzë[3] ‘grosso nicchio marino’, cioè una
grossa conchiglia monovalve: una cavità, recipiente, dunque, che non ha nulla a che fare col palmipede papera . A Trasacco-Aq nella Marsica la voce papara[4]
indica la ‘papera’ ma anche il 'sesso femminile'.
Il concetto di cavità riappare
nell’abr. pappar-òzzë[5]
‘pozza formata dall’acqua piovana’. Con
questi concreti punti di riferimento è molto probabile che la nostra pepar-ola ‘asso di coppe’ contenga nel profondo il
significato generico di ‘cavità, contenitore’ e non abbia costituzionalmente a
che fare col pepe in sé, con cui
condivide solo il significato d’origine di ‘rotondità, cavità’; pertanto, era
fatale che la eventuale *pepar-ola ‘contenitore in genere’, incontrato
poi per caso il suo lontano parente, cioè il pepe, rinunciasse (preso da un moto di irrefrenabile altruismo) alla
sua funzione generica di contenitore
per diventare un esclusivo e servile
contenitore del pepe, il quale addirittura
è ben felice di derivare il valore di contenitore
non dai suoi strati profondi (dove, pure, quel valore realmente esisteva)
ma proprio dal nome del pepe, come un
sorta di valore aggiunto proveniente dalla sua funzione di contenere
di fatto (e non in virtù della sua
primigenia natura di contenitore) un po’ di pepe
tritato. Spero di aver spiegato decentemente il mio pensiero.
Ora, anche il peper-one (in dialetto pëparόlë, paparόlë, pl. paparùlë, ecc.), ortaggio originario
dell’America centro–meridionale e giunto in Europa dopo la scoperta di quel
continente da parte di Cristoforo Colombo, presenta un nome molto simile a
quello del pepe. Si sostiene che si tratti di un nome imposto
ex novo e basato sulla piccantezza di alcuni peperoni simile a quella del
pepe. A me pare, invece, che la piccantezza sia stato un motivo in più
per far accreditare, come adatto a designare il nuovo ortaggio venuto dall’America,
un nome che già esisteva probabilmente su suolo italico (come dimostrano le
voci abruzzesi sopra citate) ad indicare qualche contenitore o magari qualche
frutto rotondeggiante o a capsula, qualche bacca simile a quella dei peperoni,
una cui specie, come sappiamo, porta il
nome scientifico latino di Capsicum annuum, dal lat. caps-a(m) ‘cassetta, capsula’, data la forma di recipiente della
bacca. Qui il suffisso –one di peper-one potrebbe essere realmente un accrescitivo rispetto alla forma pepere, pibiri esistente in qualche
dialetto.
Da Plinio sappiamo, inoltre, che la pianta piper-it-e(m), designazione di origine greca, indicava anche il siliquastro, nome, quest’ultimo, derivante da lat. siliqu-a(m) ‘siliqua, baccello’: quindi è
molto probabile che in questo caso, la radice piper- si riferisse alla
forma cava del frutto (non importa se allungata), non a caso confuso poi con il peperoncino rosso.
Come si vede, la vita di un termine può essere paragonata a quella di
una pianta le cui vistose fronde e i cui rami,
più o meno numerosi e grandi, non debbono farci tenere in non cale,
però, le sue più o meno lunghe e numerose radici che raggiungono, spesso
imprevedibilmente, anche gli strati più antichi
e profondi. Altrimenti non possiamo
meravigliarci se si esclama l’è tutto
sbagliato, l’è tutto da rifare! come capitava a Bartali.
Una radice, in genere, ha vissuto gran parte del suo tempo negli strati
nascosti, sotterranei della lingua: è lì che, molto spesso, bisogna puntare per
cercare di carpirne la natura con qualche sicurezza, altrimenti si rischia
moltissimo di restare intrappolati nelle sue varie epifanie di superficie che
sembrano reali, ma che sono fatte
apposta per ingannare e condurre fuori strada.
[1] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998
[2] Cfr. C.
Urieli, Dialetto e folclore a Jesi e
nella Vallesina, Jesi, Biblioteca comunale, 1979
[3] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[5] Cfr. D.
Bielli, cit.
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