La voce femminile aiellese ma-ésa corrisponde al termine maschile (talora femminile) it. magg-ése, il quale indica generalmente un terreno
messo a riposo per essere lavorato l’anno seguente, secondo una pratica
agricola antichissima che ristabiliva la fertilità di un campo divenuto poco
fecondo negli anni.
La forma ma-ésa si riscontra
anche nel dialetto di Luco dei Marsi[1] con la /è/
grave, in alternativa, però, alla forma ma-jèsa, la più comune in Abruzzo, benché in genere con la /é/
acuta. In internet la voce ma-ésa ‘terreno
arato in attesa delle piogge’ è diffusa anche nelle Marche.
Ora, urge una importante precisazione: la forma in uso ad Aielli presume
senz’altro la velare, non la palatale, /g/ (come succede nella stessa voce del
nostro dialetto Aéjjë ‘Aielli’
< lat. classico Agell-um di cui ho
trattato altrove) presente in una forma *mag-ésa immediatamente precedente
all’attuale, e pertanto in forte
contrasto con l’aggettivo latino Mai-u(m) ’di maggio’ da cui tutti i linguisti derivano l’it. magg-ese di cui sopra, dando una spiegazione
che in effetti è poco convincente: la lavorazione del terreno avverrebbe nel
mese di maggio. Ma, come leggo, La forma classica del maggese prevede quattro lavorazioni del terreno (arature) che si
susseguono da marzo ad agosto, e possiedono profondità variabile: molto leggera
l'ultima e più profonde la prima e la terza.
Dopo queste lavorazioni tese a ripulire e preparare l’appezzamento, si
procede, verso ottobre-novembre, alla nuova aratura per la seminagione.
A mio parere, quindi, il mese di maggio non c’entra nulla, come confermato d’altronde
dalla forma aiellese ma-ésa <*mag-ésa che ci spinge a procedere
verso altra direzione. Quale?
Secondo me anche l’aggettivo e sostantivo lat. Mai-u(m) ‘di maggio’ o ‘mese di
maggio’ poteva avere in precedenza una velare, poi caduta, in una forma *Magi-u(m). Il mese di maggio era così chiamato
perché dedicato a Maia, divinità che a Roma rappresentava la fecondità in generale
e il risveglio della natura a primavera.
Ma allora non dovrebbero esserci dubbi! Il maggese, termine che certamente esisteva già nel latino parlato
nella forma *mag-ens-e(m), o
simile, indicava il terreno sottoposto a questa pratica e la pratica stessa che
ne ristabiliva la fertilità
compromessa, naturalmente sotto la protezione della dea Maia come avveniva in
genere per ogni attività agricola, ciascuna legata a qualche divinità come ad esempio Messor , dio delle messi;
Puta,
dea della potatura; Semo, dio della semina. Una pratica importante come quella del maggese poteva svolgersi senza la
protezione di qualche divinità che, nel nome stesso, ne indicasse lo
scopo? Senz’altro no, giacchè secondo me
è valida l’equazione: Maia<*Magia (fertilità,
fecondità) = magg-ese (terreno reso fecondo, fertile –e pratica relativa).
Nei nostri dialetti il significato di ma-ésa e simili indica
genericamente il ‘terreno lavorato più o
meno in profondità’ (magari per dissodarlo),
nonché la ‘profondità, più o meno marcata, di qualsiasi aratura (ad
Aielli-Aq)’ senza riferimento alla pratica del maggese.
Così stando
le cose quale potrebbe essere il significato della radice mag- all’origine di magg-ese e di Maia? Essa dovrebbe essere la stessa
di lat. mag-n-u(m) ‘grande,
numeroso, molto’. Nel comparativo di
maggioranza di questo aggettivo la velare /g/ cade ugualmente dinanzi alla
desinenza –ior: infatti si ha ma-ior ‘maggiore, più grande’.
Ma un termine così antico da arrivare senz’altro al neolitico non
poteva, a mio avviso, non incrociarsi con altri termini simili nella
forma. Io penso che questa radice si sia
incrociata con quella dell’ingl. magg-ed ’logoro, consunto’ derivato probabilmente dall’ingl. dialett. magg-ed ‘stanco, esausto’ considerato, del
resto, di origine ignota. Un terreno esausto,
impoverito è proprio quello su cui si
applica la pratica del maggese per la quale sono necessarie da
una parte la presenza di un terreno sfruttato,
poco fertile, dall’altra una serie di
lavorazioni che lo maggiorino, lo riportino alla fecondità perduta: qui si dà
il caso che le due radici, che indicano le due cose, combacino nella forma
eguale mag- anche se il loro significato è in qualche modo opposto.
Chiudendo, ribadisco con forza che la voce ma-ésa del dialetto di Aielli e di altri mi costringe a constatare che
l’it. maggese non deriva il nome dal
mese di maggio, in latino Ma-iu(m) ’maggio’, ma semmai dal nome della dea Maia alla quale esso era dedicato, nome che aveva il
significato di ‘abbondanza, fecondità’, ed era collegato alla radice
indoeuropea di lat. mag-n-u(m) ‘grande, numeroso, molto’. In somma l’it. maggese non scaturisce direttamente dala forma storica lat. Ma-iu(m) ‘maggio’, ma da una precedente forma *Mag-iu(m) anche se non attestata: l’aiellese ma-ésa ne è in qualche modo una prova.
C’è ancora da sfatare un altro dubbio, cioè che nella forma maj-ésa la semivocale /j/ sia la continuazione
della semivocale /i/ di lat. Ma-iu(m) ‘maggio’. Essa invece è dovuta alla
caduta della consonante velare /g/ che tra due vocali nei nostri
dialetti spesso scompare, come in fràula ’fragola’ < lat. fragul-a(m),
oppure lascia per così dire un segno trasformandosi in /j/
come nella voce del dialetto cerchiese Ajéjjë ’Aielli’ che ad Aielli suona invece, come
abbiamo detto, Aéjjë, con la caduta
totale della velare. Molto istruttiva è
la voce abruzz. arcaica pajésë ‘paese’ dal lat. pag-ens-e(m) (cfr. lat. pag-um ‘villaggio, paese’), la quale normalmente
si affianca all’altra paésë,
in cui si ha la lenizione totale della velare /g/ come del resto nell’it.
paese.
Anche all’inizio di parola avvengono queste trasformazioni come in abruzz.[2]
jènërë ’genero’, jënèstrë ‘ginestra’, ecc.
I dialetti smentiscono abbastanza di frequente le false supposizioni dei
linguisti.
[1] Cfr. G.
Proia, La parlata di Luco dei MarsI,
Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[2] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.
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