sabato 17 ottobre 2009

Le Procaristèrie

Le Procaristerie erano feste annuali dedicate ad Atena, considerata anche dea dell’agricoltura insieme a Demetra e Core, che si svolgevano ad Atene il 21 marzo, all’inizio quindi della primavera, quando le messi cominciavano a germogliare nei campi e la natura si risvegliava.
Il termine sembra voglia alludere ad una festa di ringraziamento (cfr. charis-terion ‘ringraziamento’) che però mal si adatta ad un rituale dell’inizio della primavera. Esso sarebbe più consono ad una festa autunnale, o anche estiva, del raccolto. Pertanto in un primo momento avevo pensato che la parola volesse indicare i nomi delle piantine di grano che in quel periodo spuntano dal terreno, e avevo individuato nella componente iniziale pro-‘prima,davanti’, che d’altronde non si sa bene come valutare ed intendere, la radice di gr. pyrós ‘grano’, concetto che a mio parere ritornava nella seconda componente –charis- che in greco significa ’grazia, gratitudine, ringraziamento’ ma che pensavo fosse solo la rietimologizzazione di un termine preistorico diffuso nel centro-meridione d’Italia, e cioè carusë, carusella ‘grano, tipo di grano’. L’intera parola (ta Procharisteria ‘le Procaristerie’), concludevo, si prestava ad indicare una festa primaverile del grano in germoglio. Ma un’attenta riflessione sul significato della radice di cháris, deverbativo da chaíro ‘mi rallegro, gioisco,ecc.’, mi ha portato alla conclusione che la parola dovesse indicare, in epoca preistorica, proprio il risveglio della Primavera, con tutta la sua luce, il suo rigoglio, e la sua forza germinativa portatrice di vita, calore e salute (chaíre ‘salve’ è la formula di saluto per i Greci), vitalità ben espressa dal nome inglese per ‘primavera’, cioè spring ‘primavera, salto, sorgente’. Ma forse, risolvendo la cosa in questo modo, non tocco completamente la verità che giace al fondo. In effetti non è illogico sostenere che quella ‘forza e vitalità’ presente nella Primavera è la stessa che fa germogliare anche il grano, e che pertanto lo stesso termine impiegato in una parlata ad indicare la Primavera poteva essere usato in un’altra ad indicare più specificatamente le piante, i fiori, e il grano. Ceres, la dea dell’agricoltura italica, da cui i cerealia ‘cereali’ (della stessa famiglia di ted. Hirse ‘miglio’, a mio avviso), mostra una radice molto simile a quella di carusë ‘grano’ e a quelle di lat. cre-are, cresc-ere nonché di gr. kóros,kûros ‘fanciullo, giovane, maschio’ e, significativamente, ‘rampollo, giunco, stelo’ (cfr. Kóre ‘Giovane, Fanciulla’, figlia di Demetra, rapita da Plutone in Sicilia mentre raccoglieva fiori). La notazione del mito, secondo la quale Demetra perse tutta la sua naturale gaiezza dopo la perdita della figlia, non credo sia stata inventata da qualche mitografo, che voleva evidenziare la  tristezza profonda che si impadronisce dell’animo umano dopo simili disgrazie, ma è molto più probabile che questa gaiezza fosse uno dei significati che il termine Kóre aveva in qualche parlata della Grecia. Io sono del parere che quasi nulla nei miti è inventato, essendo essi invece un prodotto quasi automatico dei numerosisimi incroci di parole che si sono verificati nel corso della loro vita plurimillenaria. In questo caso, inoltre, l’idea di ‘soddisfazione, contentezza’ poteva essersi insinuata in Kore dal verbo corradicale koré-nny-mi ‘mi sazio, sono soddisfatto’.
La componente pro-, nel senso di ‘forza primaverile’, penso si possa accostare al dan. for-år ‘primavera’ la cui seconda componente a mio parere qui non dovrebbe valere ‘anno’ ma richiamerebbe il greco (w)éar ‘primavera’ e il lat. ver ‘primavera’ la cui radice è presente anche in area germanica. La parola sarebbe quindi un composto tautologico e non dovrebbe essere sciolta in ‘pre-anno, inizio dell’anno’. Significativamente la radice rispunta, secondo me, anche nel ted. Frűh-ling ‘primavera’ (benchè incrociatasi con altre simili che qui tralascio), e nel serbo-croato pro-ljeće ‘primavera’ il quale potrebbe ancora erroneamente far pensare che si tratti di una ‘pre-estate’ dato che pro-ljetni vale ‘primaverile’ e ljeto vale ‘estate’, forse connesso con lat. laetum ‘rigoglioso, lieto’. Conferma il mio ragionamento la voce ted. froh ‘gioioso, lieto, fausto’ che ci riporta al piacere e alla gioia, in altri termini alla ‘vitalità’ e alla ‘gioiosa eccitazione’ della Primavera.
Se tutto ciò non bastasse ad accreditare l’idea di Atena=Primavera, potrebbe venirci incontro, a sua volta, un altro epiteto della dea, cioè Ergáne, Orgáne ‘protettrice delle arti’, dal gr. (w)érgos ‘opera, lavoro, faccenda’, termine che svela la sua parentela con gr. orgá-o ‘sono pieno di umore, sono fecondo, rigoglioso’ in riferimento a piante (ad Aielli-Aq j’òrganë è un’erba commestibile), ma anche ‘sono ardente, bramo, ecc.’. Sono da ricordare le órgia ‘culti misteriosi’ di Demetra Eleusina. E’ evidente che la funzione di protettrice delle arti, riservata alla dea, è un diretto derivato dell’altra di generatrice di tutte le forze della Natura.
Trito-géneia,Trito-genés, uno dei tanti epiteti della dea, viene spiegato diversamente come ‘figlia di Tritone’, o dal lago Tritonide nella Libia, dal torrente Tritone della Beozia, ecc. Io lo intenderei invece come composto tautologico col significato di ‘grano’ o ‘vegetale’ da accostare per la prima componente a lat. triticum ‘grano’, ted. Ge-treide ‘cereali, grano’; per l’altra componente bisogna supporre un sostantivo ‘nata, creatura’ e quindi anche ‘grano’ come, a mio parere, dimostra la forma semplice Tritó.
Korypha-genés ‘nata dalla testa (di Giove)’ presenta invece nella prima componente quella che a me sembra una semplice variante di kóre ‘fanciulla’: il maschile kóros che vale anche ‘stelo, giunco’, è fatto risalire a * kór(w)os, e il corvo è uno degli uccelli a lei sacro.
Interessantissime sono alcune notizie desumibili da racconti tradizionali della città di Enna in Sicilia, centro antichissimo del culto di Cerere e Proserpina. Nel quartiere di Valverde si trova una stradina chiamata di Cerere Arsa. Nella zona esisteva in antico un tempietto della dea Cerere con una statua lignea fatta bruciare da san Pancrazio, presunto evangelizzatore degli Ennesi, con la promessa che i raccolti sarebbero stati ugualmente copiosi sotto la protezione della Madonna, detta di Valverde. La stradina suddetta è nota come Cirasa : non è difficile leggere in Cerere Arsa una reinterpretazione del precedente nome o toponimo Cir-asa , probabilmente da Cer-asa, in cui riappare una variante della radice relativa alla ‘'forza vegetativa'’ di cui si discute, della stessa natura di car-usë ‘grano’ e di Ceres. Eppure –incredibile auditu!- la gente locale e gli studiosi credono che sia l’esatto contrario, che cioè Cirasa sia una deformazione dialettale dell’espressione Cerere Arsa!
Va da sé, invece, che la storiella di san Pancrazio che brucia la statua lignea della dea debba prendere l’avvio da questa banale rietimologizzazione. Anche il nome del Santo, Pan-crazio, che in superficie significa ‘onni-potente’, dal gr. pan-kratés, sembra invece alludere, in questo caso, al significato vegetale di pan-krátion ‘sorta di scilla marina’, soprattutto se si pon mente ad un epiteto di Atena, quello di Krato-genés ‘nata dalla testa (di Giove)’, che peraltro si allinea con gli epiteti sopra citati: c’è da notare che in fondo il concetto di ‘capo,testa’ equivale a quello di ‘protuberanza, escrescenza, crescita’ proprio della vegetazione e anche che il termine cháris, chárit-os ‘grazia’, di cui sopra, poteva facilmente diventare chár(i)t- andando così a confondersi con kártos, variante di krátos ‘forza’, la forza germinativa della Natura che è dietro questi nomi legati alla vegetazione e la forza tout court che sta dietro ogni parola. Da notare anche gr. krataí-gonos ‘persicaria (vegetale)’ in cui riappaiono in forme alquanto diverse le due componenti dell’epiteto, naturalmente senza che si possa estrarne un qualche significato di superficie accettabile, in relazione al referente, se non quello vaghissimo di ‘nato (-gonos) con forza, dalla forza (krataí-)’. La Madonna di Valverde, poi, è chiamata esattamente la Madonna della Visitazione, che è l’appellativo che normalmente si accompagna alla Madonna delle Grazie, venerata dalla Chiesa Cattolica a ricordo della visita che Maria fece alla cugina Elisabetta. E’ quindi singolare la coincidenza del nome Grazie con la seconda componente di Pan-crazio. Per il primo elemento pan- bisogna andare col pensiero a gr. pam-bótanon ‘erba’(cfr. gr. botáne ‘pascolo, erba’), alle feste ateniesi Pan-atenee dedicate ad Atena nonchè al dio agreste Pan, simbolo delle molteplici e misteriose forze della Natura. Buon ultimo l’aggettivo pán-chortos riferito da Sofocle a sĩta ‘cereali’ con significato presumibile di ‘copiosi’, letter. ‘tutta (pan-) erba, cibo, nutrimento (-chortos)’, che però a mio parere è tautologico rispetto a sĩta e richiama, nella seconda componente, il lat. hordeum ‘orzo’, anche se lo si volesse intendere, quest’ultimo, come ‘chicco, rotondità’ poiché chórtos ha anche il valore di ‘recinto’, cfr. lat. hortus.
Date le precedenti corrispondenze tra char(i)t- 'grazia', kratos, kartos 'forza', a me sembra che il lat. gratia 'grazia, gratitudine, favore, influenza, potere,ecc.', la cui origine non è moltissimo chiara, possa essere considerato una loro variante di tipo germanico (cfr. ted. gern 'volentieri' )anche per la presenza nel gr. charis, charit-os di diversi dei molti significati di gratia. Ho constatato che anche Ottorino Pianigiani, famoso magistrato e linguista vissuto tra Otto e Novecento, esprime la stessa idea nel suo Vocabolario Etimologico.
Per finire, a me pare evidente che anche il nome latino della città siciliana centro del culto di Cerere, Henna, dovette indicare in epoche remotissime qualche divinità della fertilità dei campi e degli animali, nome collegabile in qualche modo al gr. genés di cui sopra, se solo si tiene presente l’uso che nel Medioriente, fin dall’antichità più lontana, si fa della pianta henna (hinna), con la cui polvere si dipingono figure ornamentali sulle mani e sul corpo di giovani donne nelle cerimonie nuziali, prima che si incontrino coi loro mariti. Henna è anche nome arabo personale femminile che significa ‘benedetta, beata’ e quindi connesso con l’idea di ‘gioia, felicità’ di cui sopra. L’ uso della pianta, in funzione ornamentale, ricorre in occasione di eventi legati anch’essi all’idea di ‘fertilità’ come nascite, compleanni e circoncisioni.
Sono altresì convinto che, prima che una divinità si appropriasse del nome della rocca famosa della città di Henna , esso doveva indicare proprio l’altura ab omni aditu circumcisa atque directa, come la definisce Cicerone, secondo quanto di solito accade toponomasticamente, in casi simili.
E non finiremo mai di ringraziare gli uomini della preistoria che hanno dato il via al mirabile complesso di storie e miti e tradizioni che, ampliato di generazione in generazione e approdato nella Storia, è riuscito ad arrivare fino a noi, preziosissimo scrigno di vocaboli remotissimi senza di cui sarebbe stato quasi impossibile dare man forte, verificandone i princìpi, alla mia singolare teoria sull'origine, natura ed evoluzione della Lingua.

Come Atena, originaria divinità dell'agricoltura, diventa divinità della guerra e della vittoria

Si sa che Atena, come Demetra e Core, era una preistorica divinità della natura e delle attività agricole, come dimostrano, fra l’altro, le Procaristerie, feste primaverili dedicate alla dea il 21 di marzo, quando la natura cominciava a risvegliarsi e le messi a germogliare. Questo assunto credo di averlo sufficientemente irrobustito nel mio articolo Le Procaristerie.
Si può subito notare come Pro-, la prima componente del nome, vada a coincidere con la prima componente di Pró-machos e di Pro-mach-órma, due epiteti tra i tanti della dea. Il primo significa ‘combattente in prima fila, difensore’, il secondo, riferito ad un tempio di Atena sul promontorio Buporthmos, viene inteso come ‘protettrice degli ancoraggi’, cfr. órmos ‘porto, seno, rada, ricovero’. Ma, a mio modesto parere, qui siamo innanzi tutto di fronte ad un nome che doveva indicare in un primo momento semplicemente il ‘promontorio’, nome che andava a coincidere con uno degli epiteti di Atena in modo da dare origine ad un suo culto nello stesso. Le cose a questo punto si ampliano e secondo me fanno ben capire la vasta dinamica dei significati dei termini e dei loro continui incroci nel corso dei millenni. L’idea di ‘promontorio’ è un diretto derivato di quella di ‘tensione, protuberanza’ e simili. E in effetti il gr. pro-mékes (non ci confonda l’assenza di aspirazione) significa ‘bislungo, prominente’ e deriva da mẽkos ‘lunghezza, altezza’ con la variante dorica mãkos. Seguendo questa linea interpretativa, quindi, la componente –órma dell’epiteto in questione la vedrei come scaturente dalla radice del termine ormé ‘impeto, assalto, slancio’, concetto ben adeguato ad esprimere sia l’idea di ‘promontorio’ che quella di ‘combattimento’: ma ambedue non disdegnano la compagnia di un termine come mékon, mákon ‘papavero, testa di papavero’(cfr. a.slavo maku ‘papavero’ ted. Mohn ‘papavero’), parola che ci riporta, a mio avviso, alla "forza" del regno vegetale. Il termine matematico mékei, dativo di mẽkos, dor.mãkos ‘lunghezza, altezza’ vale ‘alla prima potenza’, significato che riemerge tutto nel greco mẽchos, dor. mãchos ‘mezzo, espediente, possibilità’, gr. mégas ‘grande, forte, potente’, gr. makrós ‘lungo, alto, profondo, forte’, lat. magnus ‘grande, alto, lungo, potente’, ted. machen ‘fare’, ted. Macht ‘potenza, forza, forza militare’ e ingl. might ‘potere, forza, potenza’. Si può così ben affermare, come vado sostenendo da molti anni, che le diverse funzioni ed attribuzioni proprie di ogni divinità sono dovute tutte a quest’unico concetto di ‘forza, vitalità, spinta’, il quale opera d’altronde dietro ogni termine che l’uomo pronuncia: meraviglia delle meraviglie! Un’altra linea interpretativa, che comunque non cancellerebbe nulla di quanto ho detto finora, sarebbe quella di accostare –machos al celtico mako ‘figlio’ (cfr. i prefissi di cognomi scozzesi e irlandesi Mac-, Mc- equivalenti a ‘figlio di…’) in base anche alla stretta vicinanza del concetto di “figlio” e quello di “ragazzo”, cosa che ci ricondurrebbe all’altro epiteto di Atena cioè Párthenos ‘Vergine’ o a Kóre ’Figlia, Fanciulla,Vergine’. Illuminanti sono i termini ted. Magd ‘ragazza, vergine, serva’, ingl. maiden ‘fanciulla’ che, anch’essi, si prestano ad indicare fiori e vegetali in genere come ted. Mägde-blume ‘camomilla’ (letter. ‘fiore delle ragazze’), ingl. maiden-hair ‘capelvenere’ e ingl. maiden-oak ‘rovere’. La forma Pró-machos, così intesa, verrebbe ad allinearsi, dunque, sullo stesso piano di lat. pro-genies ‘progenie, stirpe, figli, piccoli di animali, germogli’, lat. proles<*pro-ales ‘progenie, figli, piccoli di animali, germogli’, lat. pro-sapia ‘prosapia, stirpe, famiglia’ e lat. Pro-serpina (nome latino di Core) se lat. pro-serpinaca indica la pianta ‘sanguinaria’, lat. pro-serpinalis herba la pianta ‘serpentaria’ e lat. pro-serpere significa, oltre a ‘uscire, avanzare strisciando’ anche ‘venir su, spuntare, crescere’.
Per Atena Nike, la divinità alata della vittoria (gr. níke ’vittoria’), credo sia interessante notare il verbo serbo-croato nica-ti ‘germogliare’ che potrebbe ricondurre il termine nell’ambito delle forze germinative della natura. Sempre in serbo-croato neć-ak significa ‘nipote’, concetto collegabile con quello di ‘pollone, rampollo, figlio’ come avviene nel lat. nepos ‘nipote, germoglio, piccolo di animali’. Ma anche in area abruzzese (vocabolario di D. Bielli) ricorrono voci come nicchë,nichë, nìculë ‘piccolo’.
Per il teonimo Atena credo entri in ballo il significato di ‘monte, altura’ (altra epifania della ‘protuberanza’) se si pon mente all’acropoli di Atene, nonché allo sprone calcareo su cui è situata la città antichissima di Atina-Fr nella Val di Comino chiamata potens da Virgilio (Aen. VII, 630), in cui riappare l’idea della forza materializzatasi forse nell’elevazione dell’altura come del resto nel ligure atina ‘varietà di olmo’ si è concretizzata in un vegetale. Un altro epiteto di Atena è proprio pótnia (lat. potis ’potente’) ‘signora, dominatrice, augusta, veneranda’, epiteto comune per il vero ad altre dee tra cui proprio Demetra e Core, divinità delle "forze" della natura come sappiamo.
Qualcuno potrebbe far notare che la bellicosità attribuita ad Atena possa essersi insinuata tra gli attributi della dea per altra strada, che riconduce alla stessa radice di cháris ‘grazia’ di cui ho parlato nell’articolo Le Procaristerie. E in effetti il greco chárme ‘ ardore bellico, combattimento, zuffa’, strettamente collegato al termine corradicale chárma ‘gioia, letizia’, conferma da un lato la validità del mio ragionamento secondo cui il concetto di ‘gioia, eccitazione’ va a braccetto con quello di ‘battaglia, combattimento’, ma dall’altro potrebbe far credere che il mito dell’Atena guerriera abbia tratto alimento esclusivamente da questa radice. Conclusione errata, perché non tiene conto del fatto, ora più che mai a me chiarissimo, che ogni radice possiede in partenza una infinità di possibiltà semantiche, anche se ora noi, abituati ad un linguaggio che ha costretto ogni parola a ridurre enormemente quelle possibilità, stentiamo a credere a questo fenomeno che ha appunto dell’incredibile.

giovedì 3 settembre 2009

La teoria linguistica da me elaborata è in perfetta armonia con le acquisizioni della fisica moderna

Tutti conoscono, almeno nel senso che ne hanno sentito parlare, la teoria della relatività di Albert Einstein ma pochi, tra il grosso pubblico, conoscono il vivace dibattito intercorso tra lo stesso Einstein e il danese Niels Bohr circa la natura e il comportamento delle particelle subatomiche come esse vengono intese nella teoria dei quanti e nel principio di indeterminazione di Werner Heisenberg. Naturalmente il sottoscritto, modesto letterato, non ha una conoscenza di prima mano dei problemi connessi con le varie prese di posizione al riguardo ma è perlomeno in grado di asserire che l’oggetto del contendere tra le varie posizioni coinvolge nientemeno che il considerare il mondo oggettivo da indagare dotato o no di quelle caratteristiche essenziali che erano rimaste salde in tutta la fisica classica e non erano state messe in dubbio nemmeno dalla teoria della relatività: il principio della separabilità (gli enti fisici si comportano in modo del tutto indipendente ed irrelato, senza influenzarsi, quindi, reciprocamente), quello della realtà (gli enti fisici hanno una consistenza ed esistenza reale ed obbiettiva) e quello della località (gli eventi riguardanti un ente fisico sono circoscritti e confinati ad un determinato luogo e non possono essere pensati come provenienti da altri luoghi, magari lontani).
Einstein rimase tenacemente legato, fino alla morte, ai suddetti principii che considerava imprescindibili ed era convinto che si sarebbe potuto escogitare una descrizione alternativa a quella quantistica. Famose sono le sue affermazioni che Dio non gioca a dadi con l’universo e che la luna continua ad esistere anche se non c’è nessuno ad osservarla, visto che la teoria che lui combatteva, pur avendo contribuito ad avviarla, annetteva una importanza notevole all’azione stessa dell’osservazione da parte di uno sperimentatore, azione che avrebbe modificato fatalmente lo status della particella presa in esame, la quale, quindi, non avrebbe mai potuto rivelare il suo volto vero ma solo quello infettato dall’azione stessa espletata su di essa dall’indagatore.
Nel 1964 John Bell mise fine alla annosa disputa dimostrando che Einstein si sbagliava (anche i supergeni hanno, grazie a Dio, qualche limite!) e Bohr aveva ragione, e che quei tre principii non potevano valere per la realtà microscopica delle particelle subatomiche. Questa constatazione aveva un potere dirompente tale da far non solo crollare tutto l’edificio costruito dalla fisica classica che aveva resistito, almeno parzialmente, all’enorme scossa della relatività di Einstein, ma da aprire anche la strada ad una descrizione molto più rivoluzionaria e quasi incredibile del mondo che cominciò ad essere considerato come l’altra faccia di una medaglia includente, tra le sue caratteristiche, categorie come il vuoto e il nulla, complementari a quelle della materia. Una concezione olistica del mondo, quindi, cominciò ad imporsi come quella in cui ogni parte rimanda al tutto, in un vincolo che non consente scappatoie separatistiche. I corpi cominciano così ad essere visti come entità incerte, indefinite e immateriali: la stessa concezione che, della materia, aveva Plotino, caposcuola del neoplatonismo, se non fosse che il filosofo si spingeva fino al punto di negare qualsiasi esistenza alla materia e ai corpi (III sec. d. C.)!
La visione macroscopica tradizionale, che considerava superficialmente il mondo ritenendolo costituito di oggetti distinti, concreti e localizzati aveva evoluzionisticamente creato, sia per quanto riguarda il linguaggio che il formalismo matematico, un apparato conoscitivo umano adeguato, appunto, alla realtà come appariva nella dimensione macroscopica, e non rispondente alle caratteristiche del mondo subatomico che appare retto da principi diametralmente opposti, per cui quelle diversità e frammentarietà di superficie vengono a scomparire e a unificarsi.
Ora, a me pare che i principii classici della fisica di cui sopra siano in buona sostanza negati anche dalla mia visione dei fatti linguistici, segnatamente in relazione alla natura dei significati e, direi, in una maniera che sorprendentemente ricalca la negazione di tali fondamenti da parte della fisica moderna. Se prendiamo, ad esempio, il mio ultimo articolo Fonte della Vita e Fonte della Vipera sui Sibillini e i loro importanti riflessi nella etimologia e nella glottologia in generale si può agevolmente notare che la radice VIT la troviamo ad indicare il “salice” (ted. Weide), il “bosco” (a.a.ted. vitu ), l’ “albero” (a. norreno vithr), probabilmente la “fonte”, in lingua preistorica (significato che ritorna nelle diverse Fonti San Vito nonché nella variante wed/ud, presente in ingl. water ‘acqua’, greco (w)ýdor ’acqua’ ), la “vita”(in latino e italiano). Se ne deduce che il significato di quella radice non era, all’origine, nettamente distinto in modo da applicarsi ad un unico referente ma esso era enormemente elastico, capace di assumere presumibilmente tutti i numerosissimi significati costituenti il patrimonio di una lingua. La caratteristica della separabilità non era il suo forte: questa trionfava macroscopicamente solo in superficie dove i significati mostravano tutto il loro distinto, solitario e sgargiante colore, mentre la radice tesseva una rete sotterranea di rapporti sulla base di analogie nascoste con i vari significati specifici di volta in volta assunti, in modo da dar vita ad un tutto armonico, in una strutturazione di carattere olistico, in cui ogni componente specifica non è solo una mera parte aggiunta alle altre parti ma stabilisce, appunto, un rapporto funzionale e complementare con esse e con il tutto, dato che ogni significato di superficie mantiene nel suo profondo l’impronta di quello genericissimo originario. In questo modo non solo i diversi significati espressi da un significante ma tutti gli altri espressi dagli altri numerosi significanti di una lingua, nonchè da quelli numerosissimi delle altre lingue, entrano in un rapporto di complementarità, innescato dall’unico significato di fondo, che ha dello straordinario e dello sbalorditivo.
Come avviene nel mondo della fisica subatomica si deve riconoscere che nel linguaggio la realtà di ogni significato specifico è piuttosto fittizia, evanescente, instabile perché se andiamo a chiedere i connotati a questi cloni, variopinti e innumerevoli, di quell’unico significato d’origine vediamo che essi non sanno indicarci altro che quella identità originaria corrispondente in qualche modo alla realtà microscopica della fisica, costituita da un significato talmente generico, da andare a coincidere con quello indefinibile di “essere, esistere, ecc.”.
Quanto al principio della località non saprei bene come intenderlo per ciò che attiene ai significati. Ma salta in aria anch’esso se dovessimo pensare che una radice ha quel significato specifico solo in quella lingua o in quel gruppo di lingue considerate affini e non invece un significato generico, sotto di esso, riscontrabile magari anche in lingue distantissime da quella o da quelle considerate affini e in parole di una stessa lingua con significati di superficie nettamente diversi tra loro.
Se la natura del significato è come l’abbiamo delineata, cioè sottoposta agli stessi principii cui è sottoposta la realtà fisica, allora bisogna trarne la sconvolgente deduzione che con ogni probabilità tutta la nostra vita spirituale, di cui il linguaggio è parte importante, variamente chiamata anima, mente, spirito,coscienza, intelletto, ecc. è da considerarsi una emanazione della materia e del corpo proveniente dal basso, come sostengono Piergiorgio Odifreddi, Douglas Hofstadter ed altri, e non un qualcosa di separato dal corpo che viene dall’all’alto (divinità), secondo la credenza espressa dalla Chiesa Cattolica e da altri. Mi pare che i tempi siano maturi, visti gli studi condotti in proposito con metodo scientifico e con prospettive nuovissime e inedite aperte dalla teoria dei quanti, perché almeno alcune delle vecchie questioni metafisiche vengano definitivamente messe in soffitta e dimenticate. Lo stesso Odifreddi lucidamente osserva (Il Vangelo secondo la scienza,1999, pag. 99): “ Nello spettro che va dall’atomico al culturale, mente e coscienza sono scivolate da un estremo all’altro: eliminate gradualmente dalla storia, dalla sociologia, dalla psicologia e dalla neurofisiologia, esse si ritrovano inaspettatamente oggi nella fisica delle particelle e del cervello.
Può dunque essere ormai prossimo il superamento dell’attuale situazione paradossale: che possediamo precise teorie scientifiche dei fenomeni materiali che conosciamo indirettamente, mediante i sensi, ma solo vaghe teorie filosofiche dei fenomeni mentali che conosciamo invece direttamente, per introspezione”.
Ebbene, la mia indagine sulla lingua porta proprio alla scoperta e alla conferma di questa strettissima connessione tra i fenomeni linguistici e quelli della fisica delle particelle. Le conseguenze di questo fatto ci costringeranno ancora una volta ad abbassare la cresta come è già successo con l’elaborazione del sistema eliocentrico di Copernico e Galilei che spodestò la Terra dalla sua posizione privilegiata al centro dell’universo tolemaico e con la teoria dell’evoluzione di Darwin che ci accomuna agli umili animali. Si direbbe che Dio si diverta a giocare a nascondino con noi a mano a mano che le scoperte scientifiche gettano luce sull’universo e sull’uomo stesso: non arriveremo sicuramente mai a trovare una prova dell’esistenza di Dio che continuerà sempre ad arretrare, dinanzi ai nostri passi, dal posto dove presumevamo di avvertirne la presenza e dove invece, con nostro forte disappunto, sentiamo spirare un arido vento del deserto. Ma nel contempo comunque la materia, solitamente contrapposta nel nostro immaginario allo spirito, proprio col favore del linguaggio che alimenta simili inesistenti dicotomie, viene perdendo il suo peso terrestre svelando sempre più la sua natura incorporea, eterea, spirituale appunto, come aveva previsto Plotino.

domenica 26 luglio 2009

Località Santa Monica o Li Cantoni

Pochi giorni fa l’amico Fiorenzo Amiconi di Cerchio mi ha telefonato per avvertirmi che nella suddetta località, a poca distanza dal paese, era stata ritrovata una non meglio identificata iscrizione con dedica ad Ercole, nome al quale avevo collegato quello dello stesso toponimo Cerchio come scrivo nell’articolo che ho inserito nel libro Meditazioni Linguistiche, pubblicato nel 2007, e che riporto qui nel post seguente . In esso suppongo inoltre che il nome in questione indicasse originariamente una divinità del Sole. Ora, riflettendo sul toponimo Santa Monica ho, con rapida mossa, intravista la possibilità che un eventuale culto, con relativo tempio o sacello, di divinità solare in quel luogo poteva anche giustificare la presenza nelle immediate vicinanze di un culto parallelo d’una divinità della Luna, chiamata con quel nome. Infatti da Atene ci viene un nome simile di una divinità lunare , Mounichia . Ma c’è di più. Se si cerca in Internet, si incontrano siti che parlano di Santa Monica, la nota santa cristiana madre di Sant’Agostino d’Ippona, la cui storia e le cui funzioni vanno però a sovrapporsi su quelle di divinità precristiane. La Santa infatti viene invocata da chi cerca di avere notizie di persone partite da molto tempo e mai più tornate: se l’invocazione ad essa diretta nel cuore della notte (il tempo appartenente alla Luna) la si fa nei trivi o quadrivi si è più sicuri di ottenere una risposta analizzando anche il comportamento, la direzione di qualche essere vivente che si trovasse a passare in quel momento. Come non ricordare allora il nome di Trivia , uno degli appellativi di Diana, divinità della luna, venerata appunto nei trivi?
Trascurando per ora la spiegazione del toponimo Li Cantoni e in attesa che la sovrintendeza di Chieti dia maggiori e più sicure notizie sul ritrovamento e sugli scavi che mi pare siano stati avviati, ho voluto azzardare questa ipotesi anche per mostrare, quando le cose si saranno eventualmente chiarite, la validità o meno del mio metodo di indagine linguistica. E’ una grossa sfida che affronto ben volentieri, anche se non nego che ci si potrebbero rimettere le penne almeno relativamente a questo singolo caso.


Purtroppo gli scavi condotti dalla sovrintendenza di Chieti non hanno, stranamente, evidenziato alcunchè di importante.  Ed io, per quanto amareggiato, conservo però intatte le penne!

Il nome del paese di Cerchio

Già molti anni fa l’appassionato e benemerito ricercatore Fiorenzo Amiconi di Cerchio , insofferente del significato superficiale di Cerchio che giustamente, secondo lui, sembrerebbe nome abbastanza ridicolo per designare un paese, ebbe l’intuizione di accostare il toponimo a quello di Crecchio-Ch, visto anche che diverse lettere indirizzate a quel paese finivano con l’approdare a Cerchio. Crecchio viene accostato solitamente ad italico Ocriculum (cfr. Otricoli-Tr) , diminutivo di ocris ‘colle, monte, punta’.
L’amico Fiorenzo ha secondo me colto nel segno per quanto riguarda il significato soggiacente di Cerchio ma non per quanto riguarda la parola all’origine del toponimo. A Trasacco infatti ricorrono (o ricorrevano) parole come chìrica ’ tonsura, cresta del gallo o gallina o d’altro animale come l’upupa, cima di alcune piante, ciuffetto ribelle(cfr. aiellese jjìrga,cerchiese girga) al culmine della nuca’, o come chiricùzza ‘punta (di albero,campanile, ecc.)’, riconfermate da verbi denominativi come schiricà oppure schiricarà dai signif. quasi simili ‘ fare la tonsura ad un religioso, capitozzare, tagliare la cima a qualche cosa’[1]. La parola merita qualche riflessione. A prima vista saremmo tentati di ricondurla al lat. eccl. clerica ‘chierica’ ma gli altri significati che mi sembrano preponderanti rispetto a ‘chierica’ richiedono particolare attenzione e una spiegazione diversa. Anche Quirino Lucarelli, nell’opera testè ricordata, accenna ai greci kara’ testa’ e keras ‘corno’, termini con numerosi riscontri in area italica, celtica, germanica e indiana. E in effetti non mancano nemmeno riscontri toponomastici relativi a rilievi del terreno come Colle San Quirico (Ortucchio), il promontorio Circello (lat. Circeii) nel Lazio e i vari Kirch-berg in area germanica che non deriveranno tutti il loro nome ( Monte della Chiesa) dalla presenza di chiese ivi erette magari solo a partire dal medioevo, ma ritenevano già ab origine quella denominazione. Anche la accennata voce aiellese jjìrga mi sembra un derivato da un antecedente chirica piuttosto che da clerica, anche se non è escluso un influsso di quest’ultimo termine soprattutto a determinare la mancata palatizzazione del nesso chi- di 'chirica', fenomeno abbastanza raro nei nostri dialetti. Anche la trasformazione di chi- in jji- mi pare che trovi esempi simili in toponimi come Da Jjupre che in celanese suona Cupre (Cupoli nelle carte IGM),come I Jute, un’ansa del monte Secine, vivo anche come voce del lessico aiellese col significato di ‘gomito’, molto probabilmente dal lat. cubitum, passato attraverso *cuvete,*cute(cfr. franc. coude ‘gomito’), jute. Anche le voci jalle ‘gallo’ , accanto a valle ‘gallo’, e jatta ‘gatto’ sembrano attestare lo stesso fenomeno di palatalizzazione delle velari /k/ o /g/ con esito corrispondente a semivocale /j/. La voce trasaccana chirica, nel significato di ‘cresta’ , risponde a quella che in altri dialetti marsicani, come l’aiellese, suona chicchera ’cresta del gallo o gallina’ usata anche in senso metaforico ( te’ ‘na chicchera!). Ora, questa chicchera, anch’essa senza palatalizzazione, potrebbe essere la forma metatetica di trasaccano chirica e la loro mancata palatalizzazione troverebbe ancora una spiegazione nell’incrocio col termine onomatopeico chicchirichì riferito al canto del gallo. In toscano chicchirichì vale ‘gheriglio della noce’, per via della sua forma frastagliata che richiama - dicono i linguisti- quella della ‘cresta’ del gallo. Ma forse qui subentra anche l’it. chicco di incerta origine, per me semplice variante di cocco. Senonchè mi sembra più naturale sostenere che la voce chicchera nonché il toscano chicchirichì si allineino con altre di simile struttura come aiellese cucher-uzze ‘cima di monte’, sardo cùccuru ‘cima di monte’, basco kukur ‘pettine’, ampliamenti della base paleoeuropea kukka ‘punta, vertice’ da cui l’it. cocca ’angolo del fazzoletto, tacca della freccia’ e l’it. coc-uzzolo.
L’origine remota, dunque, del toponimo ‘Cerchio’(dial. Circhje) ha quasi sicuramente a che fare con un termine per ‘colle’ e non è esclusa, almeno in linea teorica, la possibilità che quel nome si fosse incrociato con altri dando origine al culto di qualche divinità sulla sommità dello stesso. Quale? Si favoleggia della maga Circe, figlia del Sole, implicata anche nella saga della dea Angizia di Luco dei Marsi. Ora, senza ricorrere a lunga serie di collegamenti, mi pare abbastanza chiaro che dietro quel nome dovesse nascondersi anche un significato di ‘sole, luce, ecc.’: basti l’accenno al greco kirke ‘sparviero’, greco kirkos ‘ falcone’, messaggero veloce di Apollo, dio del sole (cfr. Od. XV, 526) e al termine rom (zingaro) kerca ‘cero, lumino’. Ma la cosa interessante, sempre in linea teorica e in assenza di riscontri più diretti, mi sembra la possibilità di collegamento di questa presunta divinità col culto di Hercules attestato abbastanza spesso nella Marsica , la cui origine è riportata dall’archeologo Cesare Letta[2] ai contatti avutisi, per via della transumanza, con la Campania greco-etrusca prima della romanizzazione dei Marsi. Ora, senza minimamente scalfire le osservazioni dell’illustre studioso in proposito, io sarei soltanto dell’idea che, dietro questo culto di Hercules, si celasse all’origine qualche altra divinità indigena che andava a combaciare con quella più nota di origine greco-etrusca. Un indizio, labile quanto si vuole, potrebbe essere offerto proprio dalla forma Hircul-(non Hercul-), comparente in un’epigrafe ritrovata a Trasacco, che suscita la perplessità del Letta il quale però risolve la questione in base a considerazioni di tipo linguistico che qui non riporto, pensando che si tratti di errore grafico: il fatto potrebbe invece essere ritenuto normale se si presume che si trattava, appunto, di divinità di origine diversa da quella indicata col nome greco-etrusco. L’iscrizione fa il paio con un’altra, sempre dal territorio di Trasacco, dedicata ad Herclo Iovio, con sincope della /u/ di Herc(u)les. La forma Hircol- dell’altra iscrizione potrebbe, a mio avviso, essere accostata al nome originario del paese di Cerchio, e cioè Circul-um, supponendo una trasformazione della /C/ velare iniziale in spirante /H/ favorita anche dall’incontro col nome greco-etrusco-latino di Ercole. Se si tiene presente il fatto che Ercole era rappresentato con una robusta clava, che arbos Herculea fu da Virgilio chiamato il ‘pioppo’, e che le spoglie di Acrone, re dei Ceninensi, chiamato Herculeus da Properzio e ucciso da Romolo, furono dedicate a Giove e portate presso una quercia sul Campidoglio, non si potrà passare sotto silenzio il dial. cercula ‘quercia’, albero sacro a Giove, il quale ci ricollega, appunto, allo Herclo Iovio precedente. La trasformazione della gutturale iniziale in spirante è riscontrabile in qualche parola come cura ‘timone dell’aratro (cfr. lat.curis ‘asta,lancia)’ nel dialetto cerchiese e di Rocca di Botte, ad esempio, a cui corrisponde l’aiellese ura del medesimo significato che presupporrebbe, quindi, un precedente *hura, con la spirante iniziale. Anche i nomi dei leggendari Horatii e Curiatii dell’antica Roma mi pare soggiacciano allo stesso fenomeno. I termini quercus ‘quercia’, e i dial. cercula e cerqua mi sembrano ampliamenti di cerrus ‘cerro’, specie di quercia. Essi andavano ad incrociarsi, ad esempio, col greco keryk-s ‘messaggero, araldo’, anch’esso sacro a Giove: la radice, in questo caso, evidentemente è variante di quella di Circe di cui ho parlato prima. Anche in una filastrocca popolare, che da ragazzi eravamo soliti ripetere nelle rigide giornate invernali ad Aielli, si fa riferimento al sole e ad una vecchia che si troverebbe infreddolita su una quercia ( Isce Sòle sande/ i scalla tutte quande/ scalla quéla vecchia che sta 'n-gima a nna cèrcula…). Acrone era chiamato Herculeus perché anche il suo nome andava a combaciare col lat. acer ‘acero’, ted. Ahorn ’acero’, ingl. acorn ‘ghianda’, frutto della quercia.
Ultime osservazioni. Le due iscrizioni di Trasacco sono state ritrovate una sul Colle la Mària (sulle carte IGM figura come Colle S. Mar-tino) e l’altra sul Colle Mariano o Maiorano. Il ricorrere di nomi con la stessa radice può far pensare che essa contenesse una motivazione arcaica comune non solo per l’idea di ‘colle’ ma anche per il valore originario di Hercoles o Hircoles, che era venerato sulle loro sommità. Sant’Isidoro (in dial. Sande Sidore : cfr. lat. sidus, -eris ‘stella,sole’) con la sua sterrazza (bastone terminante con lamina appiattita metallica, atta a detergere la terra umida appiccicatasi all’aratro o altri strumenti di lavoro, il cui nome potrebbe nascondere qualcosa come il lat. sideratio ‘colpo di sole’) può rappresentare, a Cerchio, l’ultima epifania vivente di quell’antichissima divinità. Ma solo qualche fortunato ritrovamento epigrafico-archeologico potrebbe convalidare queste mie supposizioni.


[1] Quirino Lucarelli, Biabbà A-E, Centro Studi Marsicani, Avezzano-Aq, 2003, p.487. Biabbà Q-Z, p. 243.
[2] C. Letta-S. D’Amato, Epigrafia della Regione dei Marsi, Cisalpino-Goliardica, Milano, 1975, p. 225 ss.

martedì 7 luglio 2009

Ma che bel bernoccolo!

Quando diciamo di avere il bernoccolo per qualcosa, intendiamo significare che abbiamo una particolare inclinazione per un determinato tipo di studio o attività, ma credo che pochi si siano chiesti perché mai la parola si presti a un simile significato figurato e forse nessuno è mai riuscito a darne una spiegazione convincente. Non ritengo infatti attendibile la spiegazione che qualcuno dà tirando in ballo la teoria di Franz Joseph Gall (1758-1828) secondo la quale sarebbe stato possibile, in base all'analisi della forma del cranio, individuare le inclinazioni di ognuno di noi, come conseguenza di un maggiore o minore sviluppo di alcune sue parti rispetto ad altre. Comunque, se qualcuno volesse criticare la soluzione al problema che sto per dare, è sempre il benvenuto. Nel Vocabolario Abruzzese di Domenico Bielli, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004, è registrata la parola ‘ntusiasme con lo strano significato di ‘gonfiore prodotto da colpo di frusta’. Essa è la copia spiccicata dell’it. entusiasmo di ascendenza greca il cui significato, però, non sembra essere di primo acchito raffrontabile con l’altro. Il greco enthousiasmós ha come base l’aggettivo én-theos ‘divinamente ispirato, pieno di divino furore’ riferito spesso all’ ispirazione di sacerdoti, poeti, baccanti in preda all’estasi e al furore favorito dal vino. A dire il vero questo significato dell’aggettivo, come se esso volesse indicare l’entrata (en=lat.in) in un dio (théos) o di un dio dentro la persona ispirata, appare ai miei occhi un tantino artificioso, perché l’aggettivo valeva anche semplicemente ’pieno di ardore’ senza alcun riferimento a divinità. Al posto di questa interpretazione che ricorre ai tre concetti di “entrata, furore, dio” metterei solo quello di in-spirazione, cioè di un ‘soffio’ che è anche alla base della radice di thé-os secondo alcuni, per cui un dio sarebbe l’equivalente di uno spirito. Sotto questa luce allora il greco énthe-os doveva significare in origine solo ‘ispirato, pieno di fervore e furore’ senza alcun riferimento all’ardore religioso o altro. Naturalmente la presenza in greco del sostantivo corradicale thé-os ‘dio’ avrà poi fatto sentire tutto il suo peso sul significato dell'aggettivo, piegandolo ad accettare dentro di sé la presenza di un dio e facendogli assumere un significato prevalentemente religioso. C’è poi da aggiungere che io condivido il pensiero di quanti considerano la suddetta radice imparentata anche con quella del greco thý-o ‘ imperversare, sbuffare, esalare, sacrificare, ecc.’ che sostanzialmente ha lo stesso significato come evidenziano anche i derivati thýs-is ‘impetuosità, fervore’, thyás ‘baccante’, thym-ós ‘animo, spirito’ e diversi altri. Non sarebbe dunque azzardato considerare enthe-os una rietimologizzazione della componente -ente di cui parlo nell'articolo Etimologia di it. torr-ente.
Ora, tornando all’abruzzese ‘ntusiasme ‘gonfiore’, bisogna a mio avviso pensare che esso sia null’altro che la materializzazione di quella "forza, tensione, tendenza" che sta dietro anche al concetto di soffio: non per nulla questa parola sfrutta la stessa radice di gonfiore presente nel lat. fl-are ‘soffiare’. Ma c’è anche da precisare che, secondo me, il gonfiore o rigonfiamento non è necessariamente solo quello provocato da aria che viene immessa, soffiando, in un corpo cavo ed elastico: lo stesso spirare, soffiare deve essere inteso, all’origine, come espressione di quella tensione, pressione, spinta che ne provoca il manifestarsi come può provocare, appunto, il manifestarsi di una protuberanza, un’ escrescenza o una tumefazione, parola, quest’ultima che ha alla base il lat. tum-ere ’essere gonfio, inorgoglirsi, infuriarsi, ecc.’, tutti significati che a mio avviso ci riportano alla base di greco thý-o, che io considero semplice variante della precedente. Il greco thým-on racchiude diversi significati emananti da questa radice, in quanto esso significa ‘timo’ (piantina odorosa da avvicinare anche al greco corradicale thýos ‘aroma, profumo, incenso’), ‘cipolla’ e ‘glandula, escrescenza carnosa’.
Concludendo possiamo quindi affermare che il rapporto che corre tra i due significati di it. bernoccolo ‘protuberanza’ e ‘ inclinazione, tendenza, propensione per qualche cosa’ è lo stesso di quello che corre tra abruzzese ‘ntusiasme ‘gonfiore’ e it. entusiasmo, il quale ultimo è effetto della stessa tensione che provoca il precedente . Naturalmente non bisogna credere che la parola abruzzese sia da derivare direttamente da quella greca storica, ma da termine corrispondente di qualche parlata greca preistorica. Lo stesso meccanismo si riscontra nell’ingl. knack ’inclinazione per qualcosa’ da ritenere variante di ingl. knag ‘nodo, nocchio’. Anzi, quest'esempio tratto dall'inglese dimostra che l'espressione in questione non può essere nata con la teoria di Franz Joseph Gall, dato che il parlante inglese non è ricorso ai termini correnti in quella lingua per 'bernoccolo' (lump, bump, swelling) nè al termine simile knag, come dicevo, ma all'altro knack, che attualmente non significa 'bernoccolo' pur avendolo significato, secondo me, in tempi remoti. L'espressione quindi ha a che fare con la natura profonda del linguaggio piuttosto che essere un riflesso di una teoria linguistica, del resto poco nota ai parlanti. Anche l'altra espressione italiana, simile alla precedente, e cioè avere il pallino (della pulizia, della filatelia, della matematica, ecc.) nel senso di 'avere la mania, passione, inclinazione' dovrà essere ricondotta, in ultima analisi, al meccanismo sopra esposto del 'bernoccolo': perchè una stessa idea di 'protuberanza,rotondità' opera all'interno delle due parole. Un'ultima notazione: dopo quanto ho detto, dove va a finire il cosiddetto senso figurato di bernoccolo, visto che il rapporto col senso proprio potrebbe benissimo essere rovesciato se è vero che ambedue sono una diretta derivazione dell'idea primordiale di 'forza,tensione'?

venerdì 3 luglio 2009

Il linguaggio e la filogenesi

Credendo nell’evoluzionismo darwiniano considero il linguaggio una mera funzione dell’organo del cervello, non molto diverso per quanto riguarda la sua formazione, dal meraviglioso organo della vista, ad esempio, strumento perfetto evolutosi nel corso di milioni di anni, a partire dagli invertebrati. Solo che la vista ha, diciamo così, la sua sede in un organo ben definito, l’occhio, esclusivamente preposto all’esplicazione di quella funzione anche se collegato anch’esso al cervello attraverso il nervo ottico, mentre il linguaggio, considerato nella sua funzione di elaboratore di concetti, è solo una delle attività e delle funzioni del cervello, la quale ne coinvolge segnatamente alcuni settori ma anche diversi altri le cui modalità d’intervento, nel gran concerto allestito per la produzione del linguaggio, non sono però ancora ben chiare. Inoltre l’occhio, attraverso la retina, trasforma gli impulsi luminosi in immagini della realtà sostanzialmente identiche per tutti gli uomini, mentre il linguaggio, considerato sotto l’aspetto del mezzo sonoro di cui si serve per la trasmissione dei concetti, sembra refrattario a qualsiasi parametro unificatore delle macroscopiche diversità fra le lingue. Così stando le cose, potremmo concludere che, sì, gli involucri sonori delle parole (significanti), peraltro semplici veicoli di trasmissione, sono diversi di lingua in lingua, ma che i concetti da essi trasportati (significati) sono più o meno simili presso tutti i popoli, e potremmo sentirci con ciò appagati. Ma resterebbe comunque irrisolto il problema importante dell’origine dei tanti concetti di ogni lingua, e se noi credessimo di risolverlo sostenendo che essi non sono altro che riflessi carichi delle condensate caratteristiche essenziali di ognuna delle varie entità del mondo reale, come del resto ha fatto la filosofia da Socrate in poi, ci troveremmo dinanzi ostacoli insormontabili, a partire dalla necessità di chiarire, prima della nominazione delle cose, quali fossero quelle caratteristiche, compito per nulla agevole, come ho spiegato negli articoli “ Fonte della Vita e Fonte Vipera nel Parco dei Sibillini” e “ Riflessioni sulla natura del concetto”. Sembrerebbe restare, allora, la sola possibilità che il concetto sia stato il prodotto del cervello, libero, estroso, casuale, imprevedibile, diverso per ogni singolo referente da comunità a comunità di parlanti, cosa che delineerebbe uno scenario iniziale caratterizzato da anarchia e caos, i quali si sarebbero assommati alla altrettanta libertà, starei per dire libertinaggio, con cui le etichette sonore venivano contemporaneamente applicate ai concetti. Ma in questo modo saremmo costretti ad ammettere che la lingua non è un prodotto coerente della evoluzione dell’animale uomo, non presentando nessuna qualità, nessun meccanismo fondamentale, né nel significante né nel significato, che rechi un’impronta, un segno di quel lungo cammino comune compiuto dall'ominide per arrivare alla elaborazione ed esplicitazione dei concetti, ed essendo inoltre segnata dalla sbrigliatissima inventività del soggetto o del gruppo di appartenenza. E’ questo a mio avviso un salto biologico del tutto innaturale, che aprirebbe uno iato incolmabile, incomprensibile per ogni uomo di scienza, tra un prima ed un poi completamente estranei tra di loro, nel senso che il poi dovrebbe così essere considerato derivato da un prima di tutt'altra natura, in quanto qui non sono in gioco solo alcune cratteristiche di un sistema, quello linguistico, che potrebbero essere anche completamente nuove rispetto al sistema psichico immediatamente precedente, come avviene spesso nell’evoluzione, ma è l’intero fenomeno lingua a rimanere sprovvisto di una solida base evoluzionistica, come se esso fosse stato calato improvvisamente dal Cielo ed immesso gratuitamente nei circuiti cerebrali. Eppure tutti gli esseri viventi avevano cominciato a prendere nota, per così dire, del mondo circostante sin da tempi remotissimi, a cominciare dal paramecio (Paramaecium), protozoo che quando si imbatte in un ostacolo “ prima si ritira e poi riprende a nuotare in avanti, in un’altra direzione scelta a caso” [1]. Esso quindi sa già qualcosa di ‘oggettivo’ sul mondo esteriore. Come mai allora, con la comparsa del linguaggio nell’uomo, è come se, stando alle considerazioni fatte prima sulla genesi del concetto, tutta l’esperienza precedentemente immagazzinata dagli esseri viventi che hanno preceduto l’uomo nella catena evolutiva si fosse volatilizzata, non entrando nella elaborazione dei concetti, che pure in gran parte si riferiscono a quella realtà esteriore?
La risposta sta nel rovesciamento di quelle considerazioni sulla natura del concetto, il quale in realtà è profondamente radicato nell’ humus che ha alimentato la vita evolutiva dell’uomo. Esso è, a mio avviso, proprio l’estrinsecazione di quel vago sapere che già il paramecio andava elaborando, circa l’esistenza di qualcosa d’altro da sé nell’ambiente circostante, sapere che si ritrova dietro ogni singolo concetto di ogni lingua, come vado sostenendo e scrivendo da anni nelle mie riflessioni. In questo senso è allora indiscutibile che la Lingua resta un sistema stupendamente e saldamente unitario, pur nella fantasmagorica mutevolezza dei suoi significati di superficie . Un sistema sviluppatosi al fine di concepire ed esprimere un solo concetto, quello di ‘esistenza, essere’, sotteso ad ogni vocabolo di ogni lingua, concetto che comunque, fino al momento in cui non fu abbinato ad un suono, rimase pur sempre avvolto in un nimbo di indeterminatezza aurorale, che lo rendeva più simile ad una volontà di espressione che a qualcosa di finalmente delimitato con chiarezza. Il concetto di ‘essere’, infatti, pur essendo ormai inserito a pieno titolo nella trama degli altri concetti, conserva ancora, se ci fermiamo un po’ a riflettere, la sua vaghezza originaria: se proviamo infatti a definire che cosa sia effettivamente l’ ‘essere’, ci accorgiamo di dover fare un buco nell’acqua, giacchè non potremo mai evitare, per definirlo, di usare il verbo essere , che ci costringerebbe ad un circolo vizioso tautologico e sterile: se questo verbo infatti viene usato nel senso di 'esistere' non farebbe altro che sottolineare quello che l' 'essere' già include di per sè ; se poi viene usato come copula non troveremmo nessun predicato, che possa aggiungere qualche nozione in più rispetto a quelle già contenute nell' 'essere', massimo genere esistente, che, come tale, è destinato quindi a vivere in splendida solitudine.
Concludendo, voglio far notare che l'idea socratica del concetto è vera nella misura in cui essa restringe tutte le proprietà delle cose, che dal concetto sarebbero espresse in forma essenziale, ad una sola, quella dell' ''essere'', appunto, perchè non si può negare che il concetto resta pur sempre un riflesso, nel cervello, di quella realtà esteriore che lo ha plasmato costantemente in tutta la filogenesi.





[1] Cfr, Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio, Ed. Club degli Editori su licenza Adelphi, Cles (TN),1980, p. 25.