Ognuno, pur giovane, sa che cosa sia una conca, recipiente un tempo
indispensabile per l’acqua da bere e altri usi di cucina, ora presente solo nell'iconografia tradizionale della vita domestica abruzzese. La sua forma era grosso modo quella di
un’anfora: larga nella bocca, stretta al centro, di nuovo larga verso il
fondo.
Ricordo che noi ne avevamo una anomala, per così dire. Aveva una forma
cilindrica, meno aggraziata delle altre, ma molto più capace. Tutti sanno, o quasi, che il nome deriva dal
lat. conch-a(m) ‘conchiglia’ di matrice greca. Mia
madre, quando il recipiente, per la sua vecchiezza, cominciò a bucarsi, usava
il sapone come mastice otturatore.
Diverse volte lei reclutò anche me per andare a guardare l’acqua[1] nella
fontanella che per fortuna era sotto casa. Non molto di rado la monotona attesa
era interrotta, per così dire, da violente liti tra le donne, scoppiate dalle
loro opinioni diverse circa la precedenza da dare all’una o all’altra. E
immancabilmente si gratificavano a vicenda dell’epiteto più ingiurioso, allora
e oggi, per il genere femminile, quello di puttana.
Ora, immerso nella conca, non mancava mai un man-érë, il mestolo abbastanza capace per attingere
l’acqua, quando ce n’era bisogno, per estinguere la sete o altro (i frigoriferi
non esistevano ancora, nemmeno il nome): e ricordo come fosse quasi imbevibile
l’acqua, perché calda, nel cuore dell’estate, tanto è vero che parecchie volte
venivo inviato con una bottiglia in mano a còllë
l’acqua (cogliere l’acqua) nella fonte sorgiva di Sottë la Torrë: se non c’era gente, ma spesso c’era, con quattro
salti ritornavo a casa, a rinfrescare le gole assetate, soprattutto quella di
mio padre che magari era tornato dal lavoro.
Sin
da quando cominciai a riflettere sui nomi che usavo, forse abbastanza presto, il
man-ére lo abbinavo, ma con una
consapevolezza solo istintiva, alla parola mano,
visto che esso era anche dotato di un lungo manico
(anche questo nome richiama la mano,
ma solo per ingannarci, come abbiamo visto per la manica: ne parlerò in altra occasione). Sembra quasi strano, ma
anche oggi, fior di linguisti non danno una spiegazione diversa da quella che
ogni uomo istintivamente trova per la suddetta voce dialettale man-érë ‘mestolo’. “Ma le cose evidenti sono tali
per tutti, studiosi o meno”
potrebbero essi controbattere. Il problema però non sta esattamente in questi
termini, come ho avuto modo di insistere in diversi altri casi. L’apparenza, come dice il proverbio, inganna
ed essa non ha mai ingannato tanto quanto i vocaboli nella loro veste
esteriore. Quindi, a mio parere, la
linguistica purtroppo è ancora quella della fionda e della pietra, parafrasando
un verso del Quasimodo, per quanto riguarda alcuni importanti fenomeni. E non
posso che rammaricarmene profondamente, come appassionato di parole, circondato
da una modernità eclatante in tanti campi.
Ora,
tornando a man-érë ‘mestolo’, esso
non può essere altro che un emanazione della radice man- di lat. man-ic-a(m) ‘manica’, parola ben analizzata
nell’articolo di alcuni giorni fa, intitolato Mangiatoia (cfr. sito web: pietromaccallini.blogspot.it). Il suo
significato di fondo è quello di cavità. Oserei dire che essa è una variante di
it. mina ‘cunicolo sotterraneo,
miniera, cavità praticata ad arte per introdurvi l’esplosivo’, e del veneto mona
‘organo sessuale femminile’.
Un
altro tipo di mestolo, un po’ più piccolo del precedente e in uso ancora oggi,
è lo scumm-ar-éjjë, detto in alcuni paesi anche cupp-ìnë, termine quest’ultimo che anche in
profondità indica la natura di questo utensile, quella che lo rende simile o
uguale (per il concetto) ad una coppa, appunto. Ma la vicenda dello scumm-ar-eiië è più complicata e molto istruttiva. Come al solito, studiosi o meno, si lasciano
ammaliare dal franco skūm (ted. Schaum) ’schiuma’ e intendono il termine come schiumarola, un utensile però costituito, oltre che da un manico,
anche da una paletta metallica piatta e
bucherellata (ma talora da un cucchiaio
bucherellato), per asportare, dai liquidi in ebollizione, la schiuma a
volte impura. Quindi, secondo il solito
ragionamento erroneo, il nome indicherebbe chiaramente l’oggetto. Ma l’errore,
a mio avviso, consiste, anche in questo caso, nel fatto che esso non indica
propriamente l’oggetto, bensì la sua funzione di schiumare, che potrebbe essersi inserita di soppiatto e sovrapposta
al precedente termine che invece indicava molto più direttamente
l’utensile.
Infatti io trovo certo (perdonate questa mia sicurezza) il rapporto del
termine scumm-ar-éjjë
‘mestolo’ con il gr. skýph-os (ma anche skýpph-os, in iscrizioni) ‘bicchiere, coppa’, fatto derivare in genere,
come skáph-ē ‘vaso ,coppa, vasca’, dal verbo skápt-ein ‘scavare’. La questione è che, come esiste anche gr. skám-ma ‘fossa, scavo, apertura (di un
muro)’ derivato, per assimilazione regressiva, da una forma precedente *skap(h)-ma, così si può supporre con quasi
assoluta certezza una forma *ským-ma, derivata da una precedente *skýp(h)-ma legata al sunnominato skýph-os ‘bicchiere, coppa’, il quale ha dato
anche il dialettale scifë, recipiente di varie forme ed usi, oltre naturalmente al
ted. Schiff
‘nave’, ingl. ship ‘nave’. Nel latino
arcaico la ipsilon greca /y/ veniva resa direttamente con la vocale /u/, sicchè una forma come *ským-ma si sarebbe presentata come *skum-ma, quella che secondo me è alla base
del dialettale scumm-ar-éjjë
‘mestolo’. L’elemento –ma è un
diffuso suffisso neutro.
Ora, che cosa è accaduto nella trasmissione del termine che è arrivato
fino a noi? La forma originaria di esso doveva indicare il mestolo, oggetto che rientra nel concetto di “cavità”, appunto.
Strada facendo, però, esso si incrociò col termine germanico scūm
‘schiuma’ il quale introdusse il nuovo significato di ‘schiumarola’, come nell’ingl.
skimmer
‘schiumarola’, facendo magari credere che anche il suo antico significato di
‘mestolo’, quando è tuttora presente, derivi da questo presunto originario schiumarola. Nulla di più falso.
Il
mestolo è chiamato pure ram-aiolo e anche qui, dinanzi alla parola rame, piccoli e grandi perdono ogni capacità e possibilità critica,
come se il loro cervello improvvisamente e inspiegabilmente fosse avvolto da un
blackout totale. Non si accorgono
nemmeno del fatto che la variante rom-aiolo potrebbe rappresentare la forma originaria del nome, e non
l’inverso. Perchè essi, solitamente
procedono in questo modo erroneo: individuata in un oggetto una
caratteristica qualsiasi che risponde alla parola con cui esso è designato,
sono convinti di averne in mano l’etimo. L’oggetto in questo caso è fatto, o era fatto
all’inizio, interamente di rame
e quindi per loro non vale nemmeno la pena starci a riflettere su,
quanto all’etimologia. Eppure queste parole potrebbero risalire ben addentro
nella preistoria, dato che diversi di questi oggetti potevano essere di legno o
altro: addirittura la corteccia di un albero, avrebbe potuto fungere da
mestolo, ad esempio.
Ma
la verità è che, a mio avviso, dietro ogni termine c’era stata una mente che
chiamava gli oggetti in base al concetto generico entro i cui limiti esso era
sistemabile, non in base alle sue caratteristiche accidentali: monte, valle, protuberanza, rientranza, cavità: questi erano alcuni dei concetti fondamentali a loro volta
provenienti da altri più generici. E qui il termine ram-aiolo o rom-aiolo (le due forme per me coesistevano, come vedremo, fin
dall’origine) sfruttava il concetto di “cavità” come il lat. rum-a(m) ‘gola, stomaco, ventre’ ma anche
‘mammella’ la quale secondo me attinge al concetto, in qualche modo inverso, di
protuberanza, monte: cfr. anche la
voce[2]
dialettale rumm-èlla ‘mammella’
di Luco dei Marsi-Aq. Il lat. rim-a(m) ‘fessura, vuoto’ fa parte del gruppo. Il ted. Rahm
‘cornice’ è strettamente collegato (sembra strano, ma non lo è) con la radice
in questione in quanto avvolgimento,
circondamento, coronamento, copertura. Qui casca a fagiolo la voce
abruzzese rum-an-éllë ‘piccolo cornicione su cui posa la gronda’[3].
Il serbo-croato rame ‘spalla, omero’ non ci spaventi, perché l’omero[4]
è un’articolazione che, come tale, ruota, rientrando così pacificamente nel concetto di avvolgimento, giramento. Rahm in tedesco vale anche ‘panna’, cioè una
leggera pellicola di grasso che copre il
latte come un panno. Ma bisogna tirare in ballo anche l’ingl. room
‘spazio, stanza’, ted. Raum ‘spazio, stanza, locale’. I due concetti di spazio e stanza, in
questo contesto germanico, convergono in quello di cavo, vuoto: infatti il
verbo ted. rӓum-en significa
proprio ‘vuotare, sgombrare’. Il concetto, naturalmente, rientra in quello di cavità.
Così l’italiano rame, nel
senso di contenitore o recipiente, farebbe una cosa buona se si
dissociasse e divorziasse definitivamente dal metallo chiamato rame, che è un intruso. A non parlare
dei diversi toponimi costituiti da questa radice: ce n’è uno anche ad
Aielli-Aq, che suona Fosso Rom-ito (dialett. Rëm-itë), non perché in antico qualcuno che
passeggiava nei pressi avesse romanticamente trovato quel nome, ma perché qui
la radice combacia con quella di cui sopra, che designa una cavità.
Signori, voglio prendermi un po’ di riposo: da
qualche mese inseguo troppo freneticamente le parole, ma è bene, per diversi
motivi, che questa corsa rallenti ora che la verità su di esse brilla più
chiara e bella che mai.
[1] Così si
diceva per “fare la fila in attesa di poter attingere l’acqua”.
[2] Cfr. G.
Proia, La parlata di Luco dei Marsi,
Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[3] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[4] Cfr.
l’articolo La parola “omertà” nel mio
blog (pietromaccallini.blogspot.it) del dicembre 20014.
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