venerdì 3 maggio 2019

La bella festa dei serpari di Cocullo



Finora non avevo mai riflettuto molto, linguisticamente e secondo il mio metodo, sulla famosissima festa dei serpari nota in tutto il mondo che avviene a Cocullo-Aq all’inizio di maggio, paese di confine tra la Marsica vera e propria e la Valle Peligna.  Sapevo naturalmente che questa festa doveva in qualche modo continuare ed essere  messa in rapporto con il culto pagano della dea-maga Angizia, divinità protettrice dai serpenti, che aveva un santuario nei pressi dell’attuale Luco dei Marsi.  Essa riusciva a dominare i serpenti col canto, come è detto nell’articolo che ho condiviso[1], e a comandarli   secondo la sua volontà.  

   Ora, appena letto il verbo domin-are, mi è balenata nella testa la possibilità che il nome Domen-ico (da lat. domin-um ‘padrone, signore’), quello del Santo di Foligno (951-1031 d. C.) che intorno all’anno Mille sarebbe passato dalle parti di Cocullo, avrebbe potuto bellamente prestarsi ad essere interpretato dalla gente del paese come rivelatore della qualità taumaturgica del Santo, il quale al pari della dea Angizia dell’antichità pagana, pare riuscisse a dominare serpi e vipere velenose, rendendole quindi innocue e pacifiche, quasi dom-ando[2] i loro furori.   Naturalmente non sono in grado di affermare se questa dote ce l’avesse già prima del suo presunto passaggio a Cocullo. 

    Una cosa singolare, a mio parere, è il fatto che la tradizione dei serpari, di origini antichissime pagane e poi innestatasi nella saga cristiana di San Domenico da Foligno, non fu accolta dalla Chiesa locale per lungo ordine di secoli.   Solo il 24 aprile 1818 ci fu la “solennizzazione” della festa da parte del Comune e della Chiesa locale. Ancora nel XVIII secolo l’arciprete don Crescenzo Arcieri si rese conto dell’importanza che la tradizione pagana , ancora celebrata diciamo così quasi alla chetichella e senza l’appoggio delle autorità, avrebbe potuto assumere  se «avesse piegato il cerimoniale semi-idolatrico di una solennità esterna, che si svolgeva in una vicina osteria, alle esigenze del cristianesimo»[3].  Insomma la tradizione veniva tenuta viva solo ad opera di alcuni che si riunivano nientemeno che in una “vicina osteria” dove le serpi venivano messe in mostra!  Però risulta che negli anni successivi al 1862, o giù di lì, una vecchia chiesa di san Domenico, prima intitolata a sant’Egidio, venne demolita perché umida e fatiscente, per dar luogo alla costruzione di una nuova chiesa. Allora si deve pensare che il culto di san Domenico  si fosse già diffuso in paese, anche se non a partire dall’XI sec., visto che la vecchia chiesa fatiscente, oltre a non poter risalire a quell’epoca, era anche intitolata a sant’Egidio, prima che passasse a san Domenico.  Probabilmente le cose sono andate in questo modo: il culto di san Domenico dovè essere accolto nella chiesa principale del paese, anche se le manifestazioni più tradizionalmente pagane e in qualche modo crude di esso, ne rimasero fuori: solo alla data del 24 aprile 1818, con la solennizzazione della festa, e convincendo  i partecipanti a «deporre in chiesa le serpi catturate, senza che offendano alcuno» (secondo le dirette parole del sunnominato arciprete don Crescenzo Arcieri), si veniva ad accogliere interamente e definitivamente un rito pagano (sempre osteggiato dalla Chiesa in quanto il serpente nella tradizione giudaico-cristiana era stato sempre simbolo del demonio a cominciare dal racconto del peccato originale commesso nel giardino dell’Eden), infondendogli uno spirito nuovo. Da allora la statua di San Domenico viene portata in processione per le vie del paese, nel mese di maggio, con le serpi vive attorcigliate, catturate nelle campagne dai cocullesi. Una festa seguita da migliaia di fedeli e di pellegrini.

 In conseguenza di ciò ora mi chiedo se è mai possibile che una tradizione antichissima quanto si vuole ma rivitalizzata da un santo come Domenico da Foligno, che in qualche modo la fa propria e che passa nel villaggio di Cocullo, sia potuta rimanere in qualche modo in non cale per tanti secoli senza suscitare il minimo risentimento verso l’autorità civile e religiosa da parte del popolino che in quei secoli era così incline a credere alle storie dei santi e ai loro miracoli? Allora è molto probabile  che il passaggio del Santo in paese sia una vera e propria bufala, alimentata forse, come succede spesso, dall’incrocio del nome del Santo (che nel frattempo passava di  bocca in bocca fra tutte le popolazioni umbre laziali abruzzesi e campane) con altra denominazione simile, di qualche figura mitologica locale relativa magari ai serpenti.

    In effetti anche nel comune di Scandriglia in Sabina, si afferma che san Domenico fondò un eremo sulla vetta di un monte chiamato Petra Demone, nome che di nuovo assuona molto con quello di Domen-ico. In quel posto, durante il paganesimo, c’era stato il culto di Giove Cacuno (cioè Giove delle cime, almeno secondo la radice di lat. cacu-men ‘cima, vetta’) come risulta da un’epigrafe rinvenuta nel 1767[4].  Sempre in Sabina si fermò alcun tempo in un luogo detto Dom-us presso il monte Pizzi[5]: strano, ma ricorre anche qui l’assonanza col nome Domenico e col verbo dom-are. Ma questi termini potrebbero indicare anche le grotte dove solitamente si rifugiavano gli eremiti. Nel mio paese di Aielli-Aq si trova anche una grotta del Dem-onio la cui radice dem- deve essere la stessa di lat. dom-u(m) ‘casa’, in quanto cavità. Cfr. it. dom-ino o dom-inò ‘ampio mantello con cappuccio per mascherarsi’.

   In queste storielle tradizionali si ripete quasi sempre lo stesso  cliché che spiega la loro origine e formazione. Difatti a proposito di questa Petra Demone la tradizione parla della giovane santa Bar-bara che sarebbe arrivata nei pressi, seguendo suo padre Dios-coro, richiamato nel 273 d.C. dalla Turchia dove era stato inviato dall’imperatore Massimiano Erculeo. Lei era diventata una cristiana: quando il padre che era un fervente pagano lo seppe la denunciò al prefetto facendola tormentare. Quando egli stesso stava per vibrare il colpo fatale sul collo della vergine, il cielo si oscurò ed un fulmine lo colpi uccidendolo.  Ora si possono fare queste osservazioni: il termine demone (daímōn ‘dio, spirito, ecc.) nella Grecia antica significava dio e poteva così indicare qualsiasi divinità, anche quella di Giove, venerato su questo monte.  La parola, nel Nuovo Testamento, finì per designare il demonio, una creatura divina anch’essa prima della caduta. Dios-coro, il nome del padre della vergine, è pari pari il nome che indicava, al plurale i due figlioli di Zeus (Giove), Castore e Polluce chiamati appunto Diόs-kouroi o Diόs-koroi  ‘figli (-koroi) di Zeus (Diόs-)’.  Ora l’etimo di Diόs-  vale ‘giorno, luce del giorno’. Dietro il termine –koroi io vedo, tautologicamente (come del resto ho mostrato in un altro articolo), un altro significato di ‘luce’: cfr. ingl. hoar ‘biancore, candore, canizie’, da medio ingl. hor, hoor. Si sa che santa Bar-bara protegge dai fulmini (scagliati da Giove, secondo l’antica credenza), dal fuoco, ecc. Il nome è costituito secondo me da una radice raddoppiata che in questo caso vale ‘luce, fulmine, bagliore’ come nel primo elemento dell’it. bar-baglio: il secondo elemento –baglio ripete lo stesso significato, come anche gli altri linguisti affermano. 

  Si può dunque concludere che ogni mito cresce in genere su se stesso, alimentato dai termini che, attraverso i molti secoli che esso attraversa, ripetono spesso, con il variare delle lingue che si succedono, lo stesso significato della parola chiave originaria, ma introducendo anche altri significati quando si verificano incroci con parole simili nella forma ma di significato diverso. 
 
Ci sarebbe anche altro da dire, ma mi riservo di farlo in seguito.








Finora non avevo mai riflettuto molto, linguisticamente e secondo il mio metodo, sulla famosissima festa dei serpari nota in tutto il mondo che avviene a Cocullo-Aq all’inizio di maggio, paese di confine tra la Marsica vera e propria e la Valle Peligna.  Sapevo naturalmente che questa festa doveva in qualche modo continuare ed essere  messa in rapporto con il culto pagano della dea-maga Angizia, divinità protettrice dai serpenti, che aveva un santuario nei pressi dell’attuale Luco dei Marsi.  Essa riusciva a dominare i serpenti col canto, come è detto nell’articolo che ho condiviso[1], e a comandarli   secondo la sua volontà. 

   Ora, appena letto il verbo domin-are, mi è balenata nella testa la possibilità che il nome Domen-ico (da lat. domin-um ‘padrone, signore’), quello del Santo di Foligno (951-1031 d. C.) che intorno all’anno Mille sarebbe passato dalle parti di Cocullo, avrebbe potuto bellamente prestarsi ad essere interpretato dalla gente del paese come rivelatore della qualità taumaturgica del Santo, il quale al pari della dea Angizia dell’antichità pagana, pare riuscisse a dominare serpi e vipere velenose, rendendole quindi innocue e pacifiche, quasi dom-ando[2] i loro furori.   Naturalmente non sono in grado di affermare se questa dote ce l’avesse già prima del suo presunto passaggio a Cocullo. 

    Una cosa singolare, a mio parere, è il fatto che la tradizione dei serpari, di origini antichissime pagane e poi innestatasi nella saga cristiana di San Domenico da Foligno, non fu accolta dalla Chiesa locale per lungo ordine di secoli.   Solo il 24 aprile 1818 ci fu la “solennizzazione” della festa da parte del Comune e della Chiesa locale. Ancora nel XVIII secolo l’arciprete don Crescenzo Arcieri si rese conto dell’importanza che la tradizione pagana , ancora celebrata diciamo così quasi alla chetichella e senza l’appoggio delle autorità, avrebbe potuto assumere  se «avesse piegato il cerimoniale semi-idolatrico di una solennità esterna, che si svolgeva in una vicina osteria, alle esigenze del cristianesimo»[3].  Insomma la tradizione veniva tenuta viva solo ad opera di alcuni che si riunivano nientemeno che in una “vicina osteria”!  Però risulta che negli anni successivi al 1862, o giù di lì, una vecchia chiesa di san Domenico, prima intitolata a sant’Egidio, venne demolita perché umida e fatiscente, per dar luogo alla costruzione di una nuova chiesa. Allora si deve pensare che il culto di san Domenico  si fosse già diffuso in paese, anche se non a partire dall’XI sec., visto che la vecchia chiesa fatiscente, oltre a non poter risalire a quell’epoca, era anche intitolata a sant’Egidio, prima che passasse a san Domenico.  Probabilmente le cose sono andate in questo modo: il culto di san Domenico dovè essere accolto nella chiesa principale del paese, anche se le manifestazioni più tradizionalmente pagane e in qualche modo crude di esso , ne rimasero fuori: solo nella data del 24 aprile 1818, con la solennizzazione della festa, e convincendo  i partecipanti a «deporre in chiesa le serpi catturate, senza che offendano alcuno» (secondo le dirette parole del sunnominato arciprete don Crescenzo Arcieri), si veniva ad accogliere interamente e definitivamente un rito pagano (sempre osteggiato dalla Chiesa in quanto il serpente nella tradizione giudaico-cristiana era stato sempre simbolo del demonio a cominciare dal racconto del peccato originale commesso nel giardino dell’Eden), infondendogli uno spirito nuovo. Da allora la statua di San Domenico viene portata in processione per le vie del paese, nel mese di maggio, con le serpi vive attorcigliate, catturate nelle campagne dai cocullesi. Una festa seguita da migliaia di fedeli e di pellegrini.

 In conseguenza di ciò ora mi chiedo se è mai possibile che una tradizione antichissima quanto si vuole ma rivitalizzata da un santo come Domenico da Foligno, che in qualche modo la fa propria e che passa nel villaggio di Cocullo, sia potuta rimanere in qualche modo in non cale per tanti secoli senza suscitare il minimo risentimento verso l’autorità civile e religiosa da parte del popolino che in quei secoli era così incline a credere alle storie dei santi e ai loro miracoli? Allora è molto probabile  che il passaggio del Santo in paese sia una vera e propria bufala, alimentata forse, come succede spesso, dall’incrocio del nome del Santo (che nel frattempo passava di  bocca in bocca fra tutte le popolazioni umbre laziali abruzzesi e campane) con altra denominazione simile, di qualche figura mitologica locale relativa magari ai serpenti.

    In effetti anche nel comune di Scandriglia in Sabina, si afferma che san Domenico fondò un eremo sulla vetta di un monte chiamato Petra Demone, nome che di nuovo assuona molto con quello di Domen-ico. In quel posto, durante il paganesimo, c’era stato il culto di Giove Cacuno (cioè Giove delle cime, almeno secondo la radice di lat. cacu-men ‘cima, vetta’) come risulta da un’epigrafe rinvenuta nel 1767[4].  Sempre in Sabina si fermò alcun tempo in un luogo detto Dom-us presso il monte Pizzi[5]: strano, ma ricorre anche qui l’assonanza col nome Domenico e col verbo dom-are. Ma questi termini potrebbero indicare anche le grotte dove solitamente si rifugiavano gli eremiti. Nel mio paese di Aielli-Aq si trova anche una grotta del Dem-onio la cui radice dem- deve essere la stessa di lat. dom-u(m) ‘casa’, in quanto cavità. Cfr. it. dom-ino o dom-inò ‘ampio mantello con cappuccio per mascherarsi’.

   In queste storielle tradizionali si ripete quasi sempre lo stesso  cliché che spiega la loro origine e formazione. Difatti a proposito di questa Petra Demone la tradizione parla della giovane santa Bar-bara che sarebbe arrivata nei pressi, seguendo suo padre Dios-coro, richiamato nel 273 d.C. dalla Turchia dove era stato inviato dall’imperatore Massimiano Erculeo. Lei era diventata una cristiana: quando il padre che era un fervente pagano lo seppe la denunciò al prefetto facendola tormentare. Quando egli stesso stava per vibrare il colpo fatale sul collo della vergine, il cielo si oscurò ed un fulmine lo colpi uccidendolo.  Ora si possono fare queste osservazioni: il termine demone (daímōn ‘dio, spirito, ecc.) nella Grecia antica significava dio e poteva così indicare qualsiasi divinità, anche quella di Giove, venerato su questo monte.  La parola, nel Nuovo Testamento, finì per designare il demonio, una creatura divina anch’essa prima della caduta. Dios-coro, il nome del padre della vergine, è pari pari il nome che indicava, al plurale i due figlioli di Zeus (Giove), Castore e Polluce chiamati appunto Diόs-kouroi o Diόs-koroi  ‘figli (-koroi) di Zeus (Diόs-)’.  Ora l’etimo di Diόs-  vale ‘giorno, luce del giorno’. Dietro il termine –koroi io vedo, tautologicamente Come del resto ho mostrato in un altro articolo), un altro significato di ‘luce’: cfr. ingl. hoar ‘biancore, candore, canizie’, da medio ingl. hor, hoor. Si sa che santa Bar-bara protegge dai fulmini (scagliati da Giove, secondo l’antica credenza), dal fuoco, ecc. Il nome è costituito secondo me da una radice raddoppiata che in questo caso vale ‘luce, fulmine, bagliore’ come nel primo elemento dell’it. bar-baglio: il secondo elemento –baglio ripete lo stesso significato, come anche gli altri linguisti affermano. 

  Si può dunque concludere che ogni mito cresce in genere su se stesso, alimentato dai termini che, attraverso i molti secoli che esso attraversa, ripetono spesso, con il variare delle lingue che si succedono, lo stesso significato della parola chiave originaria, ma introducendo anche altri significati quando si verificano incroci con parole simili nella forma ma di significato diverso. 
 
Ci sarebbe anche altro da dire, ma mi riservo di farlo in seguito. 



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